Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/XI

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XI

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X XII
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XI.


Ond’i’ ti prego omai

     Per la fede, che m’hai,
Che ti piaccia partire:
     Ch’a me conviene gire
Per lo mondo d’intorno;
     E di notte, e di giorno
Avere studio, e cura
     In ogne creatura,
Ch’è sotto mio mistero.
     E faccio a Dio preghiero,
Che ti conduca, e guidi
     In tutte parti fidi.
Appresso esta parola
     Volto ’l viso, e la gola,
E fattami sembianza,
     Che sanza dimoranza
Volesse visitare
     E li fiumi, e lo mare.
E sanza dir fallenza
     Ben ell’ha gran potenza:
Che s’io vo’ dir lo vero,
     Il suo alto mistero
È una maraviglia,
     Che ’n un’ora compiglia
E cielo, e terra, e mare,
     Compïendo suo affare.
Che così poco stando,
     Al suo breve comando
I’ vidi apertamente,
     Come fosse presente,
Li fiumi principali,

     Che son quattro: li quali,
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Secondo lo mio avviso,

     Muovon dal Paradiso:
Ciò son Tigris, Fison,
     Eufrates, e Geon.
L’un se ne passa a destra,
     L’altro ver la sinestra;
Lo terzo corre ’n quae,
     Lo quarto va in lae:
Sì, ch’Eufrates passa
     Ver Babilone cassa
In Messopotamìa;
     E mena tutta via
Le pietre prezïose,
     E gemme dignitose
Di troppo gran valore
     Per forza, e per colore.
Geon va ’n Etiopia,
     E per la grande copia
D’acqua, che ’n esso abbonda,
     Bagna de la sua onda
Tutta terra d’Egitto;
     E fa meglio a deritto
Una volta per anno,
     E ristora lo danno
Che l’Egitto sostiene,
     Che mai piova non viene.
Così serba suo filo,
     Et è chiamato Nilo:
D’un ramo suo si dice,
     Ch’è chiamato Calice.
Tigris tien altra via,
     Che corre ver Sorìa
Sì smisuratamente,

     Che non è uom vivente,
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Che dica, che vedesse

     Cosa, che sì corresse.
Fison va più lontano;
     Et è da noi sì strano,
Che quando ne ragiono,
     I’ non credo verono,
Che l’abbia navigato,
     O ’n quelle parti usato.
Et in poca dimura
     Provede per misura
Le parti di Levante;
     Là dove sono tante
Gemme di gran virtute
     E di molta salute;
E sono ’n quello giro
     Balsamo, et ambra, e tiro,
E lo pepe, e lo legno
     Aloè, ch’è sì degno;
E spigo, e cardamomo,
     Gengiove, e cinamomo,
Et altre molte spezie,
     Ciascheduna ’n sua spezie;
E meglio oro, e più fina,
     E sana medicina.
Appresso ’n questo poco
     Misero a retto loco,
Le tigri, e li grifoni,
     Allifanti, e leoni,
Cammelli, e dragumene,
     E badalischi, e gene,
E pantere, e castoro,
     Le formiche de l’oro,
E tant’altri animali,

     Ch’i’ non so ben dir quali:
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Che son sì divisati,

     E sì dissimigliati
Di corpo, e di fazione,
     Di sì fera ragione,
E di sì strana taglia,
     Che non credo san faglia,
Ch’alcun uomo vivente
     Potesse veramente
Per lingue, o per scritture
     Recitar le figure
De le bestie, e d’uccelli,
     Tanti son laidi, e belli.
E vidi mantenente
     La regina possente,
Che stendeva la mano
     Verso ’l mare Oceano,
Quel, che cinge la terra,
     E che la cerchia, e serra:
Et ha una natura,
     Ch’a veder ben è dura;
Ch’un’ora cresce molto,
     E fa grande tomolto;
Poi torna ’n dibbassanza.
     Così fa per usanza;
Or prende terra, or lassa,
     Or monta, et or dibbassa:
E la gente per motto
     Dice, ch’ha nome fiotto.
Et io ponendo mente
     Là oltre nel Ponente
Appress’a questo mare,
     E vidi ritte stare
Gran colonne, le quali

     Ci mise per segnali
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Ercules il potente,

     Per mostrare a la gente,
Che loco sia finata
     La terra, e terminata:
Ch’elli per forte guerra
     Avea vinta la terra
Per tutto l’Occidente,
     E non trovò più gente.
Ma dopo la sua morte
     Si son genti raccorte,
E sono oltre passati:
     Sì, che sono abitati
Di là in bel paese,
     E ricco per le spese.
Di questo mar, ch’i’ dico,
     Vidi per uso antico
Ne la profonda Spagna
     Partire una rigagna
Di questo nostro mare,
     Che cerca (ciò mi pare)
Quasi lo mondo tutto:
     Sì, che per suo condutto
Ben può, chi sa de l’arte,
     Navigar tutte parte.
E’ gitta ’n questa guisa
     Da Spagna sino a Pisa;
La Grecia, e la Toscana,
     In terra Ciciliana;
E nel Levante dritto,
     Et in terra d’Egitto.
Ver è, che ’n Orïente
     Lo mar volta presente
A lo settentrïone,

     Per una regïone,
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Dove lo mar non piglia

     Terra, che sia sei miglia.
Poi ritorna in ampiezza,
     E poi ’n tale strettezza,
Ch’i’ non credo, che passi,
     Che cinquecento passi.
Di questo mar si parte
     Lo mar, che noi disparte
Là ne la regïone
     Di Vinegia, e d’Ancone.
Così ogne altro mare,
     Che per la terra pare,
Di traverso, e d’intorno,
     Si muove, e fa ritorno
In questo mar Pisano,
     Ov’è ’l mare Ocëano.
Et io, che mi sforzava
     Di ciò, ched io mirava
Saper lo certo stato,
     Tanto andai d’ogne lato
Per saper la natura
     D’ogn’una creatura,
Ch’io vidi apertamente
     Davanti al mio vedente
Di ciascuno animale
     E lo bene, e lo male,
E la condizïone,
     E la generazione,
E lo lor nascimento,
     Lo lor cominciamento,
E tutta lor’usanza,
     La vista, e la sembianza:
Ond’i’ aggio talento

     Nel mio parlamento
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Tener ciò, ch’i’ ne vidi.

     Non dico, ch’i’ m’affidi
Di contarle per rima
     Dal piè fino a la cima;
Ma bel volgare, e puro,
     Tal, che non fia oscuro,
Vi dicerà per prosa
     Quasi tutta la cosa
Qud ’nnanzi da la fine,

     Perchè paja più fine.