Il buon cuore - Anno IX, n. 22 - 28 maggio 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 22 - 28 maggio 1910 Religione

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Non era disprezzo

nè insensibilità per la gloria.

Appena l’eco dei rintocchi nervosi della campana si spense nell’aria, subito cominciò a svolgersi in religioso silenzio, il sobrio ma aristocratico programma di saggiofinale che le educande dell’Istituto *** intendevano dare a un mondo di invitati nella gran sala dei festeggiamenti,tutta sfolgorante di giovinezza, di beltà, di sorrisi, di toelette estive.

La musica teneva il primo posto. E sotto l’impeccabile direzione del professor Luigi Petruccelli, quelle leggiadre figurine seppero trarre dal piano, dai violini, dalla cetra, dall’arpa espressioni d’una verità, d’una perfezione da artisti. Ma certo anche non si lesinò di applausi nutriti, schietti, calorosi. Tuttavia il canto fu meglio compreso e gustato. Che splendide voci, e che arte nel rendere fino alle ultime sfumature, e con grazia e passione, le tante bellezze geniali della composizione! Si ratteneva il respiro per non perdere una sola nota: e l’occhio avvolgeva in un cerchio serrato la massa corale perchè non sfuggisse nulla di tanto spettacolo. Pareva che la realtà della vita fosse sparita, per dar posto ad un mondo fantastico tutto popolato di angeli, di fate, cinti d’un’atmosfera luminosa, simili a quei gruppi di spiriti in sembianze umane che il pennello di Giovanni da Fiesole ha dipinto in atteggiamento di cantare estasianti canzoni di cielo.

E non mancò un largo saggio di declamazione e anche un saggio di portamento in società e in famiglia. Il successo era incondizionato, pieno; tutti lo proclamavano in cento modi, se lo confidavano entusiasti. La gran sala fremeva di commozione, e piacevasi di restare sotto un fascino che non accennava a rompere il suo incanto.

A tutte le intelligenti artiste andava l’applauso generale; ed alle singole che più si distinsero nello studio, nel canto, nell’arte, un applauso particolare.

Ma una spiccò sovrana anche in mezzo alle più valenti; fu facile accorgersene quando ella cantava la romanza dei «Gigli azzurri», e quando declamava «Alla Regina d’Italia» e «La Chiesa di polenta» del Carducci. Mai timbro di voce più sonante, più limpido, più malleabile e pastoso e dolce e carezzevole e robusto si era avuto in quell’Istituto, a memoria anche delle più antiche maestre.

Tesoro inapprezzabile davvero, ma anche adoperato con arte insuperabile. Anche i profani di musica ne convenivano. Del resto una controprova l’offriva il carnovale passato, quando saputo che al teatrino del Collegio si sarebbero dati «I Promessi Sposi» di Ponchielli, e in essi, quel prodigio di fanciulla avrebbe cantato la parte di Lucia, fu una ressa a chiedere permessi di entrata.

Quanto all’abilità declamatoria c’era ugual consenso d’ammirazione. Una pronuncia così netta, spiccata, simpatica; e secondo le circostanze concitata, focosa, tragica, o molle, languida, passionata, vellutata, o aspra, tagliente, sferzante, terribile da imporre e togliere il respiro. Al saggio finale si volle dare una prova della sua maravigliosa facilità di passaggio immediato da una espressione ad un’altra affatto opposta; e le tonalità di voce, la pronuncia, il gesto, il portamento della persona, la mobilità del volto e dell’occhio, tutto obbedì pronto fulmineo al suo impero. L’ammirazione per tanta giovane artista era al colmo.

Ma raggiunse il punto di effervescenza sfrenata, di parossismo, di follia, quando al chiudersi del saggio e all’assegnazione dei premi, alla regina della festa venne assegnato il premio massimo per valore nello studio. Allora l’ovazione proruppe fragorosa, idolatra, e tutti avrebbero voluta averla vicino, stringerla in un amplesso caldo, coprirla di baci. [p. 170 modifica] Eppure lei, la trionfatrice del giorno, era la sola che non si commovesse, come se tutto ciò che le accadeva d’attorno non la riguardasse. Chiamata a fregiarsi della medaglia d’oro, che il Provveditore agli studii della città era superbo di consegnarle, si fece innanzi con passo disinvolto e signorile ed elegante, ma tutto spontaneo e naturale. Il viso ovale dal profilo purissimo e tutto velato di soave melanconia, incorniciato da una capigliatura bionda che finiva in una vaporosità vanescente quasi un nimbo dorato, non tradiva nessuna agitazione di spirito. Sembrava l’apparizione d’una di quelle squisite, dolci figure di donne, create dal Perugino, calma, composta, come estranea alle passioni di noi mortali; col di più d’una indifferenza per il subisso di lodi udito, che rasentava l’insensibilità, un inqualificabile disprezzo.

Chiuso il saggio, la folla dei parenti delle Educande si disperse negli ampii cortili, sotto i maestosi freschi porticati, oppure nel giardino odorante di mille profumi, a godersi più libera compagnia, ad ammirare lo stupendo caseggiato, a commentare i punti più salienti del trattenimento; poi man mano, per la partenza delle Educande la folla diradò, l’animazione diminuì, e il silenzio riprese il perduto dominio, tutto riconducendo all’abituale vita monastica. Questa volta il Collegio si era completamente spopolato di alunne; caso raro, perchè, per diverse ragioni c’era sempre qualche ritardataria ad uscire per le vacanze.

Sola Andriana Vitelleschi, la fanciulla prodigio che furoreggiò al Saggio finale, era rimasta nell’Istituto. Come potè sottrarsi agli sguardi di tante persone che se la contendevano per ammirarla, corse a deporre la bruna divisa di parata, poi si rifugiò nell’aula di scuola tutta vuota e in disordine e squallida come luogo di morte. Concentrata in un mutismo impressionante, con un nodo alla gola e il cuore impietrito di dispetto e dolore, passeggiò in giù e in su, eccitata, per lungo tempo; poi stanca dalle emozioni della giornata, sedette, strinse fra le mani la sua povera testa ardente, in fiamme, e alla meglio si rese conto della sua singolare situazione. Tutte le sue compagne in quel momento erano felici nel riacquisto della cara libertà, avviate a respirare l’atmosfera della casa paterna, sapendosi tra le braccia della madre, colla visione d’una vacanza lunga, abbellita da viaggi, da divertimenti d’ogni fatta.

Ma a lei tutto questo era negato; sarebbe restata in Collegio fino al ricominciare di un altro anno scolastico, passando i giorni in una monotonia schiacciante, senza varianti di sorta, fra le gravi occupazioni della vita monastica, tra gelide mura, non confortata dalla compagnia d’un amica.... C’era da impazzirne. «Che mi importa dei trionfi di quest’oggi, che mi importa della gloria se...» e la voce si spense in un urlo disperato, seguito da una crisi di gemiti strazianti, da sospiri e da un pianto angoscioso, venuto in buon punto a scaricarle il cuore terribilmente agitato come da furibonda tempesta.

Fu in questo stato, col volto tutto arrossato e inondato di lacrime e scossa da tremiti convulsi, che le sue maestre, dopo inutili e lunghe ricerche in tutti gli angoli del Collegio, la ritrovarono. Uno spettacolo di tanta pietà non poteva a meno di commoverle; le pie si avvicinarono con rispetto ad Andriana Vitelleschi, la consolarono del loro meglio, pur sapendo che certi dolori non ammettono mitigazioni, conforti; e con dolce violenza la trassero di là, conducendola altrove per distrarla, se era possibile. Sapevano troppo bene quanto elevata e fiera di mente e di carattere era la piangente fanciulla; conoscevano troppo bene la causa di così inconsolabile dolore per ripromettersi dei grandi risultati dalla loro opera confortatrice. Però poco o molto, la burrasca si dissipò, e la bonaccia, almeno apparente, non tardò a succedere.

Che era adunque tutto questo enigma? Una cosa molto semplice.

Quattordici anni prima, una giovane signora d’estrema eleganza, si presentava al Collegio con una bimba di tre anni, e affidatala alle buone Suore, spariva per non farsi rivedere mai più. A quando a quando invece si vedeva un signore molto distinto presentarsi alla Direttrice, prendere informazioni della bambina, pagarne regolarmente la pensione e lasciar detto di trattarla coi massimi riguardi, consegnando sempre una considerevole somma di danaro da spendersi pei minuti piaceri di quella.

Un giorno quel signore, contrariamente alla sua abitudine, volle vedere la bimba misteriosa, la trattenne a lungo con sè, la baciò con un’intensità di affetto inesplicabile, lasciò tanto denaro quanto poteva bastare per vent’anni di vita collegiale e sparì esso pure e per sempre. Ma Andriana, già molto affezionata alle Suore che vedeva sempre e le erano larghe di interessamento, di cure, di cuore, e poi ancora tanto piccina, non comprese subito la sua sventurata condizione. Più tardi, allo svegliarsi prepotente della coscienza figliale e del bisogno d’un affetto diverso da quello delle maestre; e quando avvertì di non trovare dei palpiti che rispondessero al naturale richiamo dei suoi, intravide vagamente di non essere come le sue compagne; e non mancava di chiedere perchè non riceveva mai visite o lettere dei suoi genitori. E le risposte imbarazzate che i genitori stavano molto ma molto lontano e difficile dovea essere il mantenere corrispondenza, poterono tranquillare un po’ le agitazioni della fanciulla; e chissà fin quando le pie reticenze ed arti delle maestre avrebbero potuto nascondere la brutta realtà, se non si fosse incaricata di rivelarglielo, ma in modo brutale, una sua compagna.

Una giovanetta dell’istesso corso di Andriana, pessimo carattere, insofferente di disciplina, aveva notato con invidia e malanimo la superiorità indiscutibile di lei, e sentiva la morte in cuore ogni volta che tanto valore veniva riconosciuto e proclamato. La bassa passione ingigantì al punto da indurla a qualunque espediente pure di colpirla e vendicarsi. Per un complesso di circostanze il mistero che circondava Andriana era venuto a conoscenza della sua famiglia che imprudentemente ne parlò in presenza della figlia. Questa afferrò al volo la spiegazione, e redattala in poche righe su un foglio anonimo, la girò ad Andriana con un monito [p. 171 modifica] che quando si è figli di nessuno, figli della strada, figli di due miserabili erranti pel mondo in opposte direzioni, portando ovunque vergogna e rimorso, non si aveva il diritto di incedere a testa alta come lei.

Al ricevere questo foglio che la colpiva nel più vivo degli affetti, Andriana sentì d’un colpo lacerarsi il velo pietoso che le aveva nascosta fin’allora la sua orrenda sventura. Le poche gioie della vita collegiale si cosparsero di atro veleno; quasi non aveva più scopo la sua vita istessa; dopo tutto, alle sue energie, al suo lavoro, all’ingegno suo, al suo amor figliale veniva a mancare uno stimolo potente. Era avida certo di bella riuscita, di trionfi anche, ma non per sè; bensì per essere in grado di deporre a’ piedi di genitori degni, corone e allori. Quel giorno stesso, che soddisfazione elettrizzante, beante sarebbe stata la sua alla fine del Saggio glorioso! Invece quella misera, sotto un uragano di applausi fu vista indifferente, non però per disprezzo nè insensibilità per la gloria....

Londra, I maggio 1910.

Augusta Maxwel-Hutton.

In memoria di FRANCESCO AMBROSOLI


Nel piccolo cimitero di Ronago, dove l’on. Francesco Ambrosoli scelse modesta sepoltura per trovarsi nei luoghi che videro la sua infanzia, si svolse una commovente cerimonia commemorativa del rimpianto defunto coll’inaugurazione di un artistico monumento ideato dall’architetto cav. Bernardini, con uno splendido discorso dell’on. Scalini e con una amichevole ed eloquente rievocazione dell’on. Baragiola.

L’on. Francesco Ambrosoli era assai conosciuto anche in Milano, come degno fratello del cav. Solone, il rimpianto direttore del nostro Gabinetto Numismatico.

Naturale, quindi, che le onoranze, nonostante l’eccentricità di Ronago, assumessero una speciale importanza in onore di lui, che fu deputato e giornalista galantuomo, amato e stimato da tutti per il suo carattere generoso, per il suo ingegno e per la sua cultura.

Tra gli intervenuti notammo il sen. Gavazzi, i deputati Albasini Scrosati, Baslini anche in rappresentanza del Circolo popolare di Milano, Baragiola, Padulli, Rubini, Scalini; il sindaco e quasi tutti gli assessori di Como con molte fra le più cospicue personalità cittadine, e una larghissima rappresentanza dell’Associazione Costituzionale; vari consiglieri provinciali; il sindaco di Ronago, i rappresentanti dei comuni di Cantù, Olgiate, Trevano, Barazzo, l’architetto prof. Bernardini, A. M. Cornelio, il rag. Arturo Schweiger di Milano, ecc.

Avevano inviato la più cordiale adesione, scusandosi di non poter intervenire, gli on. Sormani, Lucchini, Cagnola, Ottavi; il tenente generale Beffati, il rag. Giuseppe Ferrari, l’avv. Lazzaro Pagani, ecc.

Assisteva alla cerimonia anche la vedova del defunto Ambrosoli coi figli.

Il monumento fu ammiratissimo come ricca opera d’arte classica. Sulla lapide centrale venne applicata in lettere di bronzo la seguente epigrafe dettata da Angelo Maria Cornelio, che fu amico intimo e compagno di lavoro dell’Ambrosoli per parecchi anni nell’Araldo:

DOTT. FRANCESCO AMBROSOLI

deputato al parlamento

mente geniale spirito indipendente

giornalista e letterato


sostenitore di nobili ideali

nelle pubbliche intraprese

nel santuario domestico

profuse l’ingegno e il cuore


a soli 53 anni

vinto nelle indomabili energie

passò lacrimato


n. in milano il 20 novembre 1854

m. in milano il 19 maggio 1908


concittadini amici ammiratori


Ci piace riportare qui come esempio la conclusione del nobile discorso pronunciato dall’on. Scalini:

«Ma fra tanti e così giusti argomenti di vita, un morbo inesorabile ne insidiava la fibra, mentre lo spirito e l’intelletto apparivano ancora alacri e vivaci. Non accennò però mai a profonde sofferenze fisiche e cogli amici e coi famigliari fu sempre sereno e noncurante di sè stesso; ma pur troppo il male lo precipitava verso la fine, e nel suo letto di dolore, circondato dai suoi cari, invocava con intensa tenerezza quello fra i suoi figli che gli era lontano. Ebbe perfetta conoscenza della morte che si avvicinava e l’attese serenamente rivelando fino all’estremo la forza del suo carattere.

«Desiderò un sacerdote al suo capezzale, l’accolse sorridente, e dopo essere rimasto solo con lui pochi istanti, richiamò presso di sè la famiglia e con una espressione di ineffabile letizia, più dolorosa nel contrasto del momento solenne, volle che fosse portato dello Champagne, invitando ognuno a brindare al futuro ricongiungimento in più serene regioni, là ove egli tranquillamente si apprestava a precederli; e poco dopo moriva raccomandando che non si pronunciassero discorsi, che non si spargessero fiori sulla sua bara.

«Dice un proverbio francese che i morti camminano in fretta, e tale è infatti la sorte di coloro che non lasciano eredità di affetti, nè memorie di alti esempi e scendono nella fossa senza il tributo di una lagrima, senza il conforto di un rimpianto; ma tu, indimenticabile amico, vivi e vivrai nei nostri cuori con la potenza di un sentimento d’amore più forte del tempo!»

Impossibile riassumere il magnifico discorso dell’onorevole Baragiola, che a ragione fu qualificato un inno ad un’amicizia incomparabile, a un prezioso, impareggiabile collaboratore.

Per il Comune di Ronago parlò con efficacia il sindaco cav. avv. Ernesto Tamanti.

Il cav. avv. Cesare Ambrosoli, consigliere alla R. Corte d’Appello di Milano, ringraziò tutti a nome della famiglia, facendo speciale menzione della veneranda madre, che vide scomparire troppo presto due figli tanto distinti e tanto amati. [p. 172 modifica]

Un viaggio botanico

sui monti di Kai-Chan

Agosto-Settembre 1909.

Dall’altra parte del monte è un torrente detto tchoan-chan-ho «fiume della montagna da passare», le cui acque limpide muovono i magli di legno di varie cartiere, e i cupi colpi dei quali in quel momento in quel luogo suonano più belli di qualunque musica del mondo. Al piede della montagna ritroviamo l’amico fiume che dobbiamo questa volta attraversare in barca, perchè quivi l’acqua è troppo profonda per gettarvi il ponte.

Un cristiano che scende da Kai-chan ci aiuta a risolvere un problema la cui soluzione cominciava già a tormentarci parecchio: quello cioè del come fare un po’ di colazione. I nostri stomachi hanno una ripugnanza decisa al.... vuoto, e quassù i vari alberghi e le locande, diciamole così perchè le chiama così il cinese, non albergano e non danno da mangiare a nessuno. Il cristiano suddetto, però ci apre la porta ospitale di un suo amico e così possiamo riposarci, e, quello che più importa, mangiare qualcosa.

Il cavallo si trova in peggiori condizioni di noi: chiedo dell’orzo e dicono che questo anno non ne hanno raccolto; chiedo del granturco e mi si risponde che lo hanno mangiato tutto i cinghiali: ye tchou «porco silvestre», e non resta che legarlo in mezzo ad un prato e farlo satollare così.

Dopo qualche km. di via arriviamo ad altra salita, quella cioè del Siang-eul-chan «monte dei funghi odorosi» (m. 840) da cui discendiamo precisamente in un piccolo piano detto T’cang Ping «La lunga pianura» (m. 680); alle 4 arriviamo a Kai-chan ed entriamo nella casa della missione che faremo centro delle nostre escursioni.

Kai-chan (m. 730) vuol dire «monte del confine»; infatti è sulla cima di esso che si incontrano le due sottoprefetture di Nan-tchang e di Pao-Kang: e siccome questa dipende dalla Prefettura di Wing-Jang mentre la prima è soggetta alla Prefettura di Siang-Jang, così Kai-chan è doppiamente il «monte del confine».

In questo luogo apparve il cristianesimo nel 1893, e sebbene di data così recente pure questa piccola cristianità ha già una storia gloriosa.

2-3 Settembre. — Fo riposare i miei uomini parecchio stanchi dal viaggio e ci prepariamo per le erborizzazioni da fare. Ci avevano fatto credere che quassù la cartasuga era abbondante e a buon mercato, invece appena riuscimmo a trovarne un centinaio di fogli; e sono costretto a mandare in fretta un uomo a Nan-tciang per provvedere il resto.

Si stenta parecchio anche a viveri e non si può avere in abbondanza altro che riso e granturco. Oltre di questo io comincio a sentirmi poco bene, e come corona di tutto non passa quasi giorno senza un poco di pioggia.

Ciò non ostante i giorni 4-5-6 Settembre facciamo delle piccole erborazioni vicino a casa e fino dal primo giorno vedo che i luoghi dove siamo sono una vera miniera di bellissime piante.

7 Settembre. — Piove e fa freddo. Un cristiano mi porta un pezzo di cinghiale che egli ha ucciso sorpreso a mangiare il granturco. E’ la prima volta che riassaggio carne dopo la mia partenza da Siang-Jang!

8 Settembre. — Seguita a piovere e il malessere aumenta. Kai-chan è famoso per le sue febbri malariche e non vorrei lasciar la pelle quassù.

9 Settembre. — Sebbene sempre indisposto esco con i miei tre uomini ed una guida e ci indirizziamo alla volta di un’altra catena ad occidente di Kai-chan. Per via facciamo ottimi affari in piante, semi, bulbi, radici e felci, con qualche muschio.

Mentre siamo occupati nello scavare il bulbo di un giglio un uomo grida da lontano, ma non intendiamo che cosa egli voglia a cagione della corrente del fiume. Egli è evidentemente male intenzionato, e teme forse che siamo venuti a rubargli il granturco.

Noi gli diciamo per tutta risposta che invece di perdere il suo tempo inutilmente a urlare accenda un bel fuoco perchè siamo molli dalla pioggia, e per di più ci prepari una tazza di the.

Quando entriamo in casa sua siamo accolti con tutta la gentilezza cinese da lui e da una donna che io non so se sia nonna, mamma, oppure moglie del padrone: tanto è deformata dalla malattia che essa dice di aver preso nel guardare la notte il granturco dai cinghiali. A me sembra invece che essa sia divorata dalla febbre, e siccome ho con me delle pillole di chinino gliene do alcune che essa riceve con mille ringraziamenti, e che alla nostra partenza sicuramente gettò in qualche campo o nel fosso.

Dopo di aver riposato e mangiato un boccone saliamo a vedere la sorgente del fiume che ci ha accompagnato da Nan-tchang fin qui. Il barometro al principio della salita segna m. 830.

In questa gita difficile ci si offre gentilmente di guida l’uomo di cui siamo ospiti. Egli è pratico di tutti i viottoli e si diverte a narrare un monte di favole alle quali i miei uomini fanno a vicenda i loro commenti.

Dopo un’ora di ascensione per un viottolo in cui ritroviamo le tracce della capra silvestre, del daino e sopratutto del cinghiale, arriviamo ad un piccolo miao, sacro al Dio dell’acqua Long Wang. Egli, infatti, è là seduto sull’altare e attorniato dal suo stato maggiore. Alla sua destra è il dio incaricato di spruzzare la pioggia or qua ora là e perciò tiene nella destra una specie di aspersorio e nella sinistra una bottiglia. Ai suoi lati un dio apre un ventaglio col quale fa il vento a piacere, un altro batte la scintilla che fa guizzare il lampo. Viene poscia un lanternone di idolo che personifica il tuono: e infine, in disparte, l’indispensabile Tu-ti colla sua moglietta. In alto accoccolato sopra un travicello, è In hoang — il Giove dell’Olimpo buddistico — a cui il vento ha gettato a terra il cappello che noi gli rimettiamo, tanto perchè non pigli un cimurro a quell’altezza birbona (1040 m.).

(Continua).