Il buon cuore - Anno IX, n. 22 - 28 maggio 1910/Religione

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[p. 173 modifica] Religione


Vangelo della domenica seconda dopo Pentecoste


Testo del Vangelo.

Essendo Gesù a mensa nella casa di Levi, ecco che, venutivi molti pubblicani e peccatori, si misero a tavola con Lui e co’ suoi discepoli. E i Farisei, vedendo ciò, dicevano ai discepoli di Lui; perchè mai il vostro Maestro mangia coi pubblicani e coi peccatori? Ma Gesù ciò udendo, disse loro: Non è ai sani che il medico faccia di bisogno, ma agli ammalati! Ma andate e imparate ciò che vuol dire: Io amo meglio la misericordia che il sacrificio: imperoccchè io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori. Allora si accostarono a Lui i discepoli di Giovanni, dicendo: Per qual motivo noi e i Farisei digiunarono frequentemente, e i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù disse loro: Possono forse i compagni dello sposo essere in lutto, fintantochè lo sposo è con essi? Ma verranno i giorni che sarà loro tolto lo sposo, e allora digiuneranno.

S. GIOVANNI, Cap. 9.


Pensieri.

L’Eucaristia ci si presenta sotto tre aspetti, tre esperienze religiose: come pegno della vita eterna, come memoriale della passione di Cristo; come pane di vita. Tutti e tre questi concetti si trovano nelle scritture rivelate: il concetto dell’Eucaristia, pegno della vita eterna, lo troviamo in S. Giovanni; il concetto della Eucaristia pane di vita lo abbiamo nel III Vangelo; il concetto dell’Eucaristia memoriale della passione di Cristo, l’abbiamo nelle lettere di S. Paolo.

Fra i discepoli il primo di questi concetti fu quello dell’Eucaristia pegno della vita eterna.

Rammentiamo le parole di Gesù nell’ultima cena: Prendete e mangiate, prendete: bevete; io non berrò più di questo vino finchè non lo beva nuovo con voi nel regno del padre mio.

Qui è tutta la sicurezza di Gesù nell’avvenimento del regno ch’Egli ha predicato, tutta la sua certezza intima, profonda. E i discepoli, che avevan fede nel Cristo risorto, che lo sentivano vivente, trovavano nell’Eucaristia il pegno della vita eterna della quale già il Cristo era in possesso.

In S. Paolo troviamo il concetto dell’Eucaristia memoriale della passione di Cristo.

Già l’apostolo considerava il Battesimo come memoria della morte e passione di Gesù: l’uomo immerso nell’acqua muore con Cristo; uscendone, risorge con Lui. E così nell’Eucaristia, dice Paolo, si partecipa alla risurrezione, perchè si partecipa anche alla morte di Cristo. Questo è il mio corpo che sarà dato; questo il mio sangue che sarà versato.

Terzo concetto dell’Eucaristia è quello di sostentamento, di pane.

La vita eterna nella quale noi speriamo è appena una speranza o anche un possesso?

È anche un possesso, risponde S. Giovanni: La vita eterna è che conoscano il padre e colui ch’Egli ha mandato, Cristo Gesù.

Ora, se nella speranza del Regno l’Eucaristia è caparra; nel Regno posseduto l’Eucaristia è pane. E la Chiesa, quasi ogni giorno, ci pone sulle labbra la preghiera nella quale sono ricordati questi tre aspetti:

«O sacrum convivium, in quo Christus sumitur, recolitur memoria passionis ejus» (memoria della sua passione) «mens impletur gratia» (mensa nutrimento) «et futuræ gloriæ nobis pignus datur» (pegno della gloria eterna).

Ma se la Chiesa ci rammenta tutti e tre i concetti dell’Eucaristia li rammentiamo anche noi?

Che cosa è la Comunione per le anime devote?

Soprattutto il pane, la mensa. Si cerca il lato dolce nella Comunione e non si pensa, non si medita, andando all’altare, che l’Eucaristia è anche il memoriale della passione di Cristo. Questo è forse il motivo per cui tante anime pie uniscono, senza notare la contraddizione, la Comunione, la Comunione frequente e la mondanità. Questa la ragione della leggerezza del sentimento religioso che infesta così largamente la spiritualità corrente, comune al tempo nostro.

Se quando la mattina si va alla mensa eucaristica, si pensasse che si va a morire, a morire con Cristo, si potrebbe, poi, nella giornata e la sera sciupare il tempo in cose inutili, vane, che rasenton così da vicino la colpa?

Rientriamo in noi stessi, facciamo una schietta, umile meditazione sul come ci accostiamo a Gesù nel mistero... Proponiamo di ricordare che, comunicandoci, prendiamo parte ai dolori di Gesù, alla sua morte, e che l’idea della morte non si unisce senza contraddizione con la leggerezza e con la mondanità.

L’Eucaristia e la Consacrazione degli Altari


Curiose pratiche della Chiesa medioevale


Più volte fu ripetuto da queste pagine che il culto della reale presenza di Gesù Cristo fra noi ebbe uno sviluppo relativamente recente. Come il canonico T. B. Scannelli ebbe ad insinuare in una memoria letta all’ultimo Congresso, noi possiamo dividere la storia dell’Eucaristia in tre stadii, secondo i tre diversi aspetti sotto i quali il divino Mistero si pronunciò. I primi secoli o l’era dei Padri, li potremmo denominare il tempo della S. Comunione; il Medio-Evo d’altra parte segna il trionfo della Messa; mentre il periodo successivo alla Riforma, per la prima volta forse richiamò l’attenzione dei Cristiani sui consolanti privilegi che essi godono in grazia della reale presenza di Gesù Cristo nel Tabernacolo.

Ma nell’istesso tempo egli è ovvio che codesti stadii si appoggino a vicenda. È sicurissimo che il fedele non aspettò fino al Medio-Evo per capire l’importanza suprema del santo Sacrificio; e similmente possiamo credere che anche in un periodo comparativamente [p. 174 modifica] remoto esistesse una valutazione rudimentale qualsiasi dell’ineffabile presenza tra noi che dopo salì a significato così grande.

Forse il primissimo ridestarsi del sentimento di cui parliamo lo possiamo scoprire nella curiosa pratica di racchiudere porzione del S. Sacramento accosto a reliquie di Santi nel cavo di altari durante la cerimonia della loro consacrazione. Scrittori protestanti cercarono qualche volta di fare di ciò materia di controversia, e si indugiarono sul concetto che l’Ostia consacrata venisse abbassata al livello di mera reliquia. Ma il linguaggio del Concilio inglese di Celchyth dell’816, all’epoca dell’Arcivescovo Wulfred, che raccomanda la pratica, offre il miglior commento di questa insinuazione.

«Volta che una chiesa sia costruita, venga consacrata dal Vescovo della diocesi. Che con acqua da lui benedetta, da lui parimenti sia aspersa, e che le altre cerimonie siano osservate a tenore del Pontificale; poi, l’Ostia santa che è consacrata dal Vescovo nell’istessa funzione, sia collocata in una piccola teca insieme a reliquie e conservata nella medesima Basilica. E se non trova altre reliquie da mettervi, tuttavia, questa per Sè può bastare all’uopo perchè è il Corpo ed il Sangue di nostro Signor Gesù Cristo. Inoltre noi ingiungiamo a ciascun Vescovo di far dipingere sui muri dell’Oratorio o su una tavola, oppure anche sull’altare stesso, a quali Santi e l’edifizio in generale e l’altare in particolare sono dedicati».

Preso isolatamente questo passo, noi potremmo inferirne che la capsa, o la teca di cui è parola, avesse il senso di tal quale tabernacolo messo sull’altare stesso o introdotto in una delle sue facciate. Davvero, non è facile capire come l’Ostia santa, che in seguito dovea restarvi, potesse venir «consacrata dal Vescovo nell’istessa funzione» a meno che la tavola dell’altare fosse precedentemente completata e pronta per la Messa da celebrarvisi sopra. Ma noi non dobbiamo nell’istesso tempo, trascurare la chiara rubrica trovata nel cosidetto Pontificale di Egberto, che se qui attualmente rappresenta l’atto dell’Arcivescovo Egberto, deve essere di mezzo secolo più antico del decreto del Concilio di Celchyth. «Di poi», dice il Pontificale parlando della deposizione delle reliquie, «egli (il Vescovo) mette tre particelle del Corpo del Signore entro il sepolcreto, e tre di incenso, e le reliquie vi si accludono con esse». Questo però non esclude assolutamente la possibilità d’una specie di tabernacolo sotto la tavola dell’altare, ma le rubriche scoperte altrove negli antichissimi Pontificali, e l’assenza della più leggera insinuazione che il Santo Sacramento dovesse rinnovarsi o chiudersi a chiave, sembra chiaramente suggerire che la pratica che venne in seguito, non potesse essere stata diversa da quella che oggidì prevale, secondo la quale è una cavità nella solida pietra, e un coperchio o sigillum vi è cementato sopra. Pienamente d’accordo con questo, veniva un’Antifona durante il processo del richiudersi delle reliquie che prese la forma seguente:

Sub altare Domini sedes accepistis, intercedile pro nobis apud quem (gloriari) meruistis. Tuttavia qui non ci troviamo interessati così immediamente coll’argomento dell’uso delle reliquie nella consacrazione degli altari, che richiederebbe di certo un articolo per sè solo. In ogni caso egli sembra non vi sia dubbio che, in Inghilterra come nei paesi celtici, e apparentemente anche in Spagna durante il primo Medio Evo, la presenza delle reliquie non era ritenuta essenziale al rito. Nulla forse lo dichiara con più evidenza della Denunciatio, scoperta, tra altri libri, in un Pontificale di Canterbury scritto avanti la Conquista Normanna; da cui sembra derivare chiaramente che anche là dove le reliquie venivano impiegate, la cerimonia della loro deposizione nell’altare era riguardata come azione affatto separata della consacrazione. Di più, ci ha taluni Pontificali inglesi sempre esistenti, che non fanno menzione di reliquie, e molti altri che sembrano contemplare il loro impiego come desiderabile.

Considerevole invece il numero degli antichi cerimoniali facenti menzione della S. Eucaristia che prescrivono come il Corpo di Cristo vada collocato entro la «confessione» insieme a reliquie e a tre grani d’incenso. L’ingiunzione la troviamo nell’Ordo Romanus di Hittorp e in taluni manoscritti del Sacramentario Gregoriano. Il Sacramentario di Drogo di Metz del nono secolo la contiene pure, così anche il libro conosciuto come il Pontificale Llanaletense che in ultimo sembra descriverla quasi pratica distintamente romana. Che del resto prevaleva a Reims, Lione, Noyon, Beauvais, Soissons, e in molti altri luoghi; tra le quali testimonianze possiamo notare le leggere frasi varianti del Pontificale di Amiens del decimo secolo: «Le sacre reliquie siano riposte nell’altare dalla mano del Vescovo, insieme al Mistero del Corpo di Cristo e coll’incenso, mentre il Clero ripete Exultabunt sancii in Gloria, etc.». Similmente il Pontificale di S. Dunstano contiene una rubrica variante di questa forma: «Se vi sono reliquie, vengano collocate onoratamente sotto la confessione dell’altare, o in luogo conveniente con tre particole del Corpo del Signore». Ma il tipo più antico, probabilmente, come più compito e più generale, è quello rappresentato di preferenza dal Pontificale di Egberto e dal Pontificale Llanaletense, comprendente i seguenti separati elementi:

a) L’uso del crisma nella «confessione» Egberto dice: «Il vescovo pratica una croce col sacro crisma nell’interno della confessione e precisamente nella parte di mezzo dove le reliquie dovranno collocarsi, ed anche ai quattro angoli». Il Pontificale Llanaletense prescrive: «Ponga il crisma nella parte interiore della confessione ai quattro angoli, in forma di croce». Ma sembra un tantino che le rubriche si arroghino un posto un po’ largo nella confessione.
b) Le reliquie devono collocarsi nella parte interna per mano propria del Vescovo.
c) Vi si devono mettere altresì tre particole del Corpo del Signore.
d) Con tre grani d’incenso.
e) Egberto e uno o due altri Pontificali suggerirebbero che la cerimonia dovesse nascondersi ai fedeli congregati coll’interposizione di un velo.

A me pare che, con questi particolari innanzi agli [p. 175 modifica] occhi, si ha una spiegazione ben chiara e soddisfacente dell’intralciata introduzione delle Ostie consacrate in questo loculo sigillato che sta sotto o entro la tavola dell’altare. Il Santo Sacramento non vi è stato collocato come sostituto di altre reliquie, tanto meno va inteso come oggetto di devozione ai futuri devoti come se fosse conservato in un tabernacolo. Noi assistiamo semplicemente ad una cerimonia di simbolica sepoltura, a cui si sia proceduto, come usava per l’interramento di qualche martire romano del terzo o quarto secolo, in un arcosolio delle catacombe.

Per cominciare: come i Pontificali pienamente lo mostrano, l’unzione fatta col crisma alla «confessione» o sepolcro, è qualche cosa di affatto distinto della unzione praticata sulla tavola della mensa. Davvero il Pontificale Llanaletense come si è veduto, parla di «porre» il crisma ai quattro angoli del loculo. Chiaramente ci si richiamano alla memoria gli unguenti coi quali i sacri resti del Salvator nostro vennero imbalsamati nel sepolcro. Di più, in ogni caso sappiamo che l’uso del crisma nella sepoltura di un morto distinto era generale nella Chiesa primitiva. Lo troviamo a Roma ed anche in Spagna, dove anche era costume alla tumulazione di un Vescovo che il Celebrante, offerto incenso al morto, gli metteva in bocca il sacro crisma, mentre nella Chiesa greca è praticato anche al dì d’oggi.

In secondo luogo, l’antico uso dell’incenso a tutti i funerali, sia pagani e cristiani, sembra essere chiaramente fissato. Non v’ha dubbio che originariamente fosse adottato come una specie di disinfettante. In ogni caso Tertulliano, che scriveva in un periodo anteriore alla introduzione dell’incenso nel rituale cristiano, reca testimonianze chiare dell’impiego di esso incenso nella sepoltura dei morti. «Egli è vero» dice lui, «noi non compriamo incenso. Se gli Arabi se ne dolgono, i Sabei attestarono che nella sepoltura dei Cristiani si profonde più di loro mercanzie anche le più costose che non si brucino incensi agli Dei». Se questa affermazione si ha da intenderla vera alla lettera, l’atmosfera inevitabilmente chiusa delle catacombe può per avventura fornire una plausibile se non sufficiente spiegazione del perchè la richiesta d’incenso tra i fedeli pei loro funerali dovesse rivaleggiare con quella dei pagani loro vicini. Nelle circonstanziate descrizioni dei seppellimenti dei primi Cristiani che ci sono conservate, quasi invariabilmente vi è menzione dell’incenso, mentre l’accentuazione di questo punto nei rituali nostri d’oggidì non occorre tampoco additarla.

Ma ciò che ne interessa più in particolare qui, è la presenza del S. Sacramento. Ora, egli è strano, e alle nostre idee moderne alquanto urtante, il fatto che, nei primi secoli cristiani, prevaleva una pratica di interrare la S. Eucaristia insieme ai corpi di coloro che veniano composti nel sepolcro. Nessun dubbio che questo costume, col volgere del tempo, fu denunciato in diversi Sinodi, e sembra da un pezzo del tutto eliminato dalla Chiesa; ma la ripetuta proibizione deve mostrare che ebbe una certa voga e probabilmente l’appoggio di persone costituite in dignità era stato dato al medesimo, almeno in certi casi isolati. Molto probabilmente l’abuso dovette aver avuto origine ed essersi sviluppato così: I Cristiani di Grecia e Roma in tutti i costumi sociali, e notevolmente nella sepoltura dei loro morti, conservarono gli usi nazionali dei loro concittadini in quello che non contrastasse alla legge del Vangelo. E anche dove un tal conflitto poteva esserci, gli aderenti alla nuova fede preferivano cristianizzare gli antichi riti pagani, adottando qualche modificazione, che sopprimerli affatto. Cosi i banchetti funebri del terzo, settimo, tredicesimo e anniversario giorno non furono totalmente dimenticati, ma le «agapi» o i festini di carità, e specialmente la celebrazione del S. Sacrificio presero il posto di quelli, come ne ponno far fede tuttodì le Messe da Requiem del Messale romano. Così pure l’aspersione e l’unzione pagana praticata con olio vennero entrambe conservate, ma l’acqua e l’olio ora la Chiesa li santifica. Finalmente la stiacciata al miele per Cerbero, o l’obolo per Caronte, sembra abbiano trovato un contraposto nel S. Viatico che indubbiamente veniva differito sovente fino all’estremo, e che talvolta per un abuso veniva messo sulla lingua anche dopo che la vita era estinta. L’evidenza di quest’ultimo particolare la si può riscontrare con pienezza notevole nella Vita di S. Melania recentemente pubblicata dal Card. Rampolla. Nell’antico testo latino di quella Vita noi troviamo l’esplicito accenno: «Ora è costume tra i Romani che quando l’anima esce dal corpo, essi abbiano in bocca la Comunione del Signore». In armonia con questa pratica, S. Melania, come apprendiamo da autentico documento, aspettò fino all’ultimo momento a dare il segno di farle la Comunione, e spirò quasi nell’atto di ricevere il Corpo di nostro Signore. Lo stesso è ricordato in proposito del grande Ambrogio nella Vita che di lui ha scritto il discepolo Paolino stato testimonio oculare della scena:

Il Vescovo Onorato sentì all’ultimo momento una voce chiamarlo, che diceva: «Sorgi, affrettati, che egli (Ambrogio) sta per dipartirsi». Così discese, e porse al Santo il Corpo del Signore. E il morente come l’ebbe ricevuto e inghiottito, spirò, portando seco un bon Viatico.

(Continua).

Per l’Asilo Convitto Infantile dei Ciechi


OBLAZIONI.

Somma retro L. 108067 20

Signora Elvira Maroni |||
   » 100 ―
Signorino Marco Mangiagalli festeggiando la sua Cresima |||
   » 10 ―

SOCI AZIONISTI.

Quarta rata.

Donna Carlotta Negri Origoni |||
   » 5 ―
Signora Itala Anna Castellini |||
   » 5 ―
» Nelly Pariani Angelini |||
   » 5 ―


Totale L. 108192 20



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