Il buon cuore - Anno IX, n. 47 - 19 novembre 1910/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

[p. 371 modifica] Educazione ed Istruzione


Una casa ed una signora


Il sole scialbo d’ottobre muore sull’Aia e le piccole case, dalla infinita variazione di rosso fra i verdi alberi enormi degli ampi viali, fra i canali dai riflessi violetti nel tramonto, fra i leggeri vapori che salgono dalla terra alla prima frescura della sera che s’avvicina, si velano, perdono i contorni definiti, si confondono: alberi, case, canali non hanno più il colore vivo che hanno avuto nel meriggio ma, scolorandosi a grado, acquistano una tinta più delicata e più armonica piena di malinconia, piena di sogno.

Nelle tele di Rembrandt c’è una luce speciale che illumina le figure che il grande artista ha create, una luce misteriosa che avvolge quelle figure profondamente realistiche ed innalza quel realismo ad un pensiero universale ampio e melodico pieno di musica, pieno di poesia, pieno di sentimento insomma. I critici d’arte si sono molto affannati per definire questa luce, che non si trova nelle tele di nessun altro grande pittore, e l’anno chiamata «la luce del genio di Rembrandt» e, senza dubbio, è quella la luce di un genio particolarissimo; ma io credo che sia anche la luce speciale di questo paese fantastico, la luce dei tramonti sulle lande cupe di sterpi e spini bruni, sulla pianura infinita che sembra un tappeto di velluto, sui boschetti di alberi annosi che mal nascondono le torrette dei piccoli castelli dal color rosso bruno, sulle dune giallastre macchiate qua e dall’erbe che trattengono la sabbia contro la furia del mare spumoso. Perchè il raggio ultimo del sole leggermente sanguigno, attraverso ai vapori violetti della notte che viene, rinfrangendosi Su mille cose specialissime, crea una luce inverosimile, la luce olandese.

Rembrandt, che mai non volle — e di proposito — vedere il nostro cielo e il nostro mare, chi sa quante volte l’occhio, dello sguardo largo e comprensivo — dopo avere estatico mirato lungamente — chiuse e, curvando la fronte, posò sulla palma, mentre, nell’ora dolorosa dal tramonto, nell’anima sua piena di pianto, si colorivano le immense figure di Saul, di David, di Omero!

Misteri profondi dell’arte, baratri sconfinati dell’anima umana che la critica gelida invano s’affanna a penetrare. Si piange, si piange, si piange. Perchè si deve parlare?...

...................................................................

Alcune dame si riuniscono, sul tramonto, in questa luce olandese, nella casa d’una di esse, la signora Van Alphen, una veneranda signora dall’ampia fronte su cui gravi rughe ha segnato il pensiero, dall’occhio ancor giovane, dai capelli bianchi, dall’alta figura robusta e maestosa: una dogaressa.

Perchè questi olandesi hanno tanto di veneziano in loro?

La veneranda dama sta tutta sola nella sua piccola casa piena di tesori, accumulati in una vita alternata

di studio e di viaggi. Un lungo lavoro paziente per affinarsi l’anima al gusto sovrano del bello, nello studio; una ricerca ansiosa per il mondo per ritrovare nell’opera concreta degli artisti la fine aspirazione del suo sentimento, nei viaggi. Studio paziente, ricerca ansiosa. La vita di questa nobile donna è sintetizzata nelle brevi stanze della sua casa. Qui tutto è sobrio, tutto è prezioso: dai tappeti che coprono il pavimento, alle cortine leggere delle finestre, al pesante arazzo della porta. L’occhio abituato vi scorge la mano sapiente che ha, senza posa, mutato e rimutato, cambiato, aggiustato, modificato. Tutto è perfetto ora. Le pareti sono coperte di quadri francesi e olandesi specialmente. C’è u un tramonto sulla landa» pieno di nostalgia, ci sono tele di fiori, di frutta, paesaggi marinari del celebre Mesdag.

Ma, su di un marmo rosso, fra la morbidezza pittorica delle stanze vi colpisce qualcosa di solido che risalta per le linee rigide e definite: in un breve spazio c’è, in bronzo, la rievocazione di Roma antica: le colonne e i frontoni ancor saldi del Foro sono qui in miniatura riprodotti. E più in là, dietro un vetro che ha dei riflessi iridiscenti, brillano ori, gemme, ricami: c’è un calice d’oro, uno scettro pastorale, una mitria gemmata, sacri indumenti tutti a fiorami d’oro e seta. Dal vetro chiuso un non so che di funereo si riverbera sulla stanza con il luccichio di quelle cose, come se l’anima del Pastore morto aleggi ancora attorno a ciò che fu suo nella vita terrena.

Il lume dell’oro si confonde con quello argenteo di vasellami settecenteschi posti dietro a un altro vetro e che sembrano delle trine, dei merletti di metallo variamente intrecciati. Appartennero ad una nobile famiglia romana: ora son qui, in un angolo silenzioso, e mandano una bianca luce timida, quasi spauriti dal mondo nuovo che vedono.

Ma, in altra sala, tutto è olandese ed è del più bel secolo dell’Olanda. Tutto è chiuso da un ampio stipo di legno intagliato variamente, che copre, in giro, tutte le pareti a varia altezza e, fra gl’intagli, spiccano i dorsi di libri dalla preziosa legatura in oro, nello stile.

Un quadro dello Steen è lì a marcare lo schietto carattere della stanza: un uomo del popolo siede sgarbatamente col petto contro la tavola avanti ad una scodella fumante, la moglie, con il petto discinto e con le maniche rimboccate, accovacciata su di uno sgabello, è intenta a lavare qualche utensile: tutto è sguaiato nella stanza buia; fuori forse dal cielo nuvoloso dell‘O1anda, imperversa il maltempo. Il genio umoristico dell’artista ha colto l’uomo nel momento in cui soffia, con le guancie gonfie, sul cucchiaio di minestra che divora con gli occhi non potendolo con la bocca, che si scotterebbe: attraverso al comico c’è un profondo monito allo istinto bestiale del popolo.

Senza volerlo, l’immagine maestosa della padrona di casa mi si presenta agli occhi, seduta in questa sala, nel silenzio della notte, avanti ad uno di quei libri dorati alla luce fioca di un’antica lampada; e ancora, in questo ambiente del più puro seicento olandese, mi torna il sogno veneziano d’una dogaressa del cinquecento. [p. 372 modifica] Tutto è silenzio: i tappeti smorzano il rumore dei passi e la tappezzeria dà al suono della voce la morbidezza del velluto: una religiosa pace regna su tutte le cose piene di memorie: le cose morte vivono sotto il gesto composto della dama e, in ogni parola di lei c’è l’eco malinconico e nostalgico di mille ricordi, di mille gioie, di mille tenerezze; c’è un plettro, geme di gemiti diversi toccata da una all’altra di quelle cose, diversamente vibra perchè al loro contatto anni diversi le rivivono innanzi: come la sensibile corda di un plettro geme di gemiti diversi toccata da dita diverse.

Siedono le dame intorno alla maestra sorseggiando il consueto the delle cinque. La dama è stata per le più giovani amiche, la saggia guida nello studio del nostro idioma che fiorisce ora sciolto sulle loro bocche acquistando una cadenza più lenta, più solenne, più grave. In quest’atmosfera di poesia queste signore buone mi appaiano come le sacerdotesse di un piccolo tempio fantastico. Quale altra lingua potrebbe qui meglio suonare che la nostra?

Ascoltano in silenzio la vegliarda come attendendo la rivelazione d’una eccelsa verità e la vegliarda parla lentamente, carezzevolmente, sempre con un sorriso sulle labbra di mille cose svariate, ma l’argomento prediletto è l’arte italica ed ella ora tiene per le sue amiche un corso di critica storica della pittura nostra; parla dei preraffaellisti attualmente.

Così il calore d’un’anima gentile che gli anni non hanno infiacchito si espande, conquista più giovani energie e si conserva, religiosamente eternandosi, come il fuoco sacro.

Quando è notte le dame lasciano silenziosamente, ad una ad una la casa incantata e si perdono per la città nei cui viali ora la luce lattea delle lampade elettriche scherza col verde del fogliame.

La vegliarda resta sola a sognare. Ma domani si ritroveranno ancora e, nella stessa luce del crepuscolo, mentre l’Aja sembra raccogliersi fra i veli trasparenti dei vapori vespertini, forse ella rievocherà la figura di Sandro Botticelli e gli occhi umidi di commozione vedranno palpitare di sacro amore la Madonna del Magnificat col Bambino che guarda in cielo. Forse più tardi, in un altro imbrunire, il sorriso serafico di Raffaello illuminerà la prima ombra della sera e i grandi occhi della «donna velata» splenderanno, alla parola rievocatrice, per un momento, qui come a palazzo Pitti o forse Giulio II guarderà severamente come agli Uffizi, i filosofi della «scuola d’Atene» ragioneranno come nella sala della Segnatura e Dante, Petrarca, Ariosto, rivivranno come nel «Parnaso». Poi, quando lo spirito sarà colmo di commozione le dame resteranno mute, immobili e chiuderanno gli occhi. Nell’unico bagliore dell’oro e dell’argento guateranno l’ombre dalle tele timidamente, sentendo presente la possanza del genio italico, qui, in questa piccola casa fatata dell’Aja.

Rosso Di San Secondo.



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Contro le lungaggini prima di sposarsi


Però, concluso subito il trattato,
Si fer le nozze quella stessa sera.....


Oh questa si, che se ho da dir il vero,
La maniera mi par d’uscir di pene;
Ma quel passare i lesi, e l’anno intero
In aspettar un dì che mai non viene;
Quell’andar tante volte al Monistero
O a casa di colei che ci vuol bene,
Quel perder tanti passi inutilmente,
A me non quadra in verità niente.


Non mi quadra niente, e non mi piace
Quel pascersi di sguardi e di parole,...
Quello star tanto tempo in sulla brace,
Quel far languir le povere figliuole;
E quel tirar le cose tanto in lungo
Non m’aggrada, e in un di marcisce il fungo....


Padri e madri, se avete una figliuola,
Cercatele un marito, e fate presto;
E con nessuno mai da solo a sola
Non la lasciate sotto alcun pretesto:
Non lasciate, se voi non siete matti,
Il lardo in vista od in custodia ai gatti.


Trattar non la lasciate con nessuno,
Vi torno a dir, con troppa fratellanza,
Perchè spesso fa rompere il digiuno
Il ritrovarsi in mezzo all’abbondanza;
Non la lasciate intrattenere or uno,
Or un altro garzon, sulla speranza
Ch’abbiano entrambi a prenderla per moglie,
Ché di mal seme mal frutto si coglie....


E non mi state a dir che han da trattare
Insieme per conoscersi a vicenda
Gli amanti, e per poter esaminare
Se nell’oggetto amato è qualche menda;
Ch’io so che han altro.fin nel conversare
E già dinanzi agli occhi hanno tal benda,
Che più non ponno giudicare, e ad essi
Paion virtù sino i difetti stessi

(Dal Cicerone, c. II).

La tratta delle ragazze italiane


La Dott.ssa Agnes Mac Laren è un’abolizionista fervente che ha lavorato molto in Europa, specialmente in Francia ed in Italia, per suscitare un forte movimento contro la regolamentazione del vizio. L’anno scorso fu nella Spagna, ed ora è tornata da poco da un viaggio nell’India inglese, per studiare il fenomeno della tratta e della regolamentazione. Si noti per incidenza che ha 70 anni ed è di salute delicata; — esempio a molti!

Poco fa fu intervistata a Londra: e richiesta di notizie sulle condizioni morali dell’India, rispose:

Mi hanno fatta un’impressione penosa, sono rimasta sgomenta a vedere l’estensione che ha preso la tratta [p. 373 modifica] nell’India. Oltre all’elemento indigeno trovai moltissime bianche.

D. — Di che nazionalità?

R. — Molte greche, italiane ed austriache, fra cui povere ed analfabete in buon numero; con alcune francesi ed inglesi. Molte vengono dall’Egitto, dove si traffica in grande, e dove la speciale condizione dell’organamento giudiziario rende difficile la repressione. Gran parte di queste donne sono spedite a Bombay, donde poi si spargono pel paese. Chiesi se non c’era mezzo di fermarle nei porti, e seppi di due casi in cui se ne fece la prova. Nel primo la signora che la tentò senti rispondersi che le ragazze erano accompagnate dalla nonna; nel secondo che erano accudite dalla zia. Scuse magre evidentemente, ma impossibili a controllarsi nella fretta dello sbarco. Mi fu detto che la via migliore sarebbe quella di impedirne la partenza. Ne ho già parlato col signor Coote. La dottoressa Benson addetta all’ospedale Cama a Bombay ha indetto una riunione per vedere quel che si può fare per combattere il traffico infame.

Essa crede con altri che poco si possa fare nei porti, tra la furia e il trambusto dello sbarco, e che bisogna impedire ai trafficanti di prendere il largo colla loro mercanzia. Un buon mezzo sarebbe quello di stipendiare delle signore che viaggino tra Porto Said e l’India. Durante la traversata c’è tutto il tempo di osservare ed indagare, e quando i sospetti si avverino, le vittime possono essere liberate e rimpatriate....

Vedano i lettori dove e come e perchè vadano a perdersi le nostre povere sorelle italiane! Vedano quanto urge porre mano ad opere di prevenzione, di protezione, di riabilitazione! Vedano quanto occorre istruire genitori e ragazze sui pericoli di una emigrazione fatta affidandosi a persone non sicure!

Visita regale ad un Convento


Di re Edoardo d’Inghilterra il Bullettin religieux di Baiona pubblica un episodio ignorato, un suo atto edificante avvenuto un mese prima della sua morte. Il 9 aprile re Edoardo, che da qualche settimana trovavasi a Biarritz, si recò ad Anglet, piccolo paese sull’Oceano per visitarvi il monastero di Nostra Signora. Vi giunse verso le 3 e mezza e ne riparti alle 5. Come venne segnalato il suo arrivo, il canonico Etchebarne superiore dei Cappellani, e la Rev. Madre Isabella si affrettarono a porsi a disposizione dell’illustre visitatore. Il re volle vedere la Comunità nei suoi più minuti particolari, e durante tutta la visita si mostrò di un’estrema affabilità e cortesia. Si cominciò visitar la cappella, passando quindi ai laboratori del cucito e del ricamo, prendendo il sovrano molto piacere nell’osservare i pregevoli lavori confezionati dalle suore. Tra l’altro, si fecero osservare a re Edoardo alcuni lavori eseguiti dietro le indicazioni date altra volta dalla regina Vittoria, l’augusta sua madre, in una visita da essa fatta al monastero. Di qui il re si recò a piedi

accompagnato dal canonico Etchebarne, dalla Madre Superiora e dalle persone del suo seguito, fino alla dimora delle Bernardine, distante circa 600 metri. Durante il tragitto il sovrano fu di un’amabilità singolare, chiedendo ragguagli sul genere di vita delle Bernardine, sulla differenza che poteva esservi fra la loro regola quella delle Trappistine, di cui aveva udito parlare. Giunto alla cappella di S. Bernardo gli si additò il posto dove la regina sua madre aveva pregato gran tempo in ginocchio. Un’iscrizione rammenta questo fatto. Il re Edoardo la legge, e resta per qualche istante silenzioso raccolto, come in una pietosa meditazione. Uscendo dalla dimora delle Bernardine, re Edoardo visitò il cimitero del convento, situato in mezzo a le sabbie, dove i sepolcri si allineano, ciascuno con la sua piccola croce nera, senza nome e senza segno di riconoscimento. Quel campo dell’eterno riposo, nella solitudine, circondato da pini e in mezzo al quale sorgono cipressi agitati dal vento marino, nell’austerità affatto monastica delle tombe, produce sempre una viva impressione sui visitatori. Prima di abbandonare il monastero, il re desiderò riportarne qualche ricordo. Egli spese parecchie centinaia di lire per l’acquisto di parecchi oggetti esposti in apposito locale e confezionati dalle Suore. Nel congedarsi poi espresse alla Madre Superiora la grande soddisfazione provata in questa visita e poco meno che il suo rincrescimento per aver tanto indugiato a compierla.

IN TRENO


Il treno correva veloce traverso la pianura lombarda. Lo scompartimento era quasi al completo: accanto a me una signora parlava con due signori delle specialità gastronomiche delle varie città italiane; un’altra signora sedeva vicino a una bella bimba d’una decina d’anni: la madre guardava, senza sguardo, intorno a sè: la figlioletta aveva sulle ginocchia dei giornali e, con aria precoce da donnina, ogni tanto ne sollevava uno, e leggeva leggeva.... io l’osservavo con compassione, e, con compassione ancor più grande, guardavo la bella madre di quella figliola Quel giorno il giornale recava notizie di delitti crudi, e parlava di riconoscimenti di cadaveri e di scene strazianti di persone che li ricercavano.... Non un quadro il più conveniente per una bambina,.ma non nocivo del tutto..., quasi respiravo.... per quel giorno.... Ma e gli altri giorni? I giorni di prima e quelli di poi? In ogni giorno quella figliola avrebbe potuto buttare il suo occhio innocente su quei fogli quotidiani.... e allora?...

E io pensavo, rabbrividendo, a certe narrazioni di male, a certe frasi molli ed insinuanti, che danno perfino un senso di nausea morale e di repulsione, quando cade su di esse lo sguardo. E quella lettrice infantile mi faceva gemere, e quella lettura mi pareva un sacrilegio, e la bella mamma mi faceva pietà! E pensavo pensavo tante cose tristi e gravi...

Se parliamo a queste mammine della necessità, [p. 374 modifica] dell’opportunità di dare alle figliole un’educazione che le prepari alla vita, che mostri loro in luce austera e grande e viva i doveri che le attendono, se un giorno saran spose, madri.... esse si sdegnano, si scandalizzano, come davanti a una profanazione d’innocenza! Mio Dio! E poi lasciano che certe rivelazioni si compiano per mezzo di un foglio che non narra che il male e che quello studia, carezza, circonda con arte che fa terrore!

E queste stesse brave signore conducono le figliole, giovanette appena, a spettacoli inadatti; e lascian sui tavolini loro romanzi scabrosi, e si permettono, in loro presenza, atti e parole.... Signore, Signore.... a quante cose riflessi in quella rapida corsa!

Che necessità di sorgere, di lavorare, di esaurirci anche, per elevare ed indennizzare l’opera di ognuno che abbia missione educatrice, per salvare i nostri giovani e le nostre figliole, per farce delle forze di bene, dei padri degni e delle madri consapevoli e venerande. {{A destra|margine=1em|Luisa.

LE PIANTE FEROCI


Sembra, a prima vista, che nelle armonie della natura, l’anima delle piante idealizzate dal poeta Erasmo Darwin non abbia che delle virtù. In verità, grazie a Maeterlinck, nessuno mette più in dubbio la loro intelligenza, ma la loro innocenza è più discutibile. Se vi sono delle piante dolci, tenere, benefiche, ve ne sono al contrario altre di una ferocia uguale a quella dei cannibali. Come gli uccelli rapaci del regno mitologico, esse fanno la guerra ai viventi, e quando se ne sono impadroniti li divorano.

Cosi almeno afferma G. Roux nella Revue, il quale cita parecchi esempi per dimostrare la ferocia di alcune piante. Tra gli altri ricorda un fatto segnalato dall’eminente botanico tedesco, il professor Jopf, dell’Università di Munster. Dei nemoctod, vermi lunghi da due a tre centimetri, agili come le anguille e come queste viventi nell’acqua, si trovavano alla portata di certe piante fungose, filiformi: tutto ad un tratto, queste si allungarono formando coi loro fili dei nodi scorsoi: uno degli ascaridi vi rimase preso, e il nodo si richiuse immediatamente, strangolando il malcapitato, che servi da pasto al suo nemico. Le frullanie, certe piante che crescono sulla scorza degli alberi, prendono nelle valve aperte, simili a sacchi, gli animaletti i quali si arrischiano vicino a loro e li uccidono con una vera crudeltà. Le piante insettivore sono del resto numerose. Altri esempi cita l’articolista, che sarebbe troppo l’ungo accennare. Egli soggiunge che queste stragi delle piante sono spesso accompagnate da raffinamenti i quali lascerebbero credere ad una premeditazione; un esempio, alcune piante della Florida, le quali mentre all’aspetto ispirano fiducia, e attirano verso di sè l’insetto, celano una specie d’imbuto, una vera trappola per quelli che capitano fra di loro. Vi è qualche cosa di orribile — dice Dennett — nell’artificio adoperato dalle piante per catturare l’insetto. L’imbuto non è che una caverna

dove l’assassino attira la vittima; esso l’invita a un festino, macchina l’insidia e la trascina nell’abisso. Queste piccole cavità non sono le sole insidie tese dalle piante feroci, le quali dispongono anche di fili rozzi lunghi e flessibili che servono non solo all’attacco, ma anche alla difesa. Questi peli in alcune piante sembran a prima vista inutili, ma quando si prende la pianta tenendola dritta e si mette una goccia d’acqua nella foglia si vede il liquido scendere lungo lo stelo e si riconosce che i peli hanno una funzione determinata: essi costituiscono dei canali: in certe piante questi peli sono vischiosi e l’insetto che vi incappa vi rimane attaccato e tenta inutilmente di sottrarsi alla sua sorte.

Alle piante feroci si potrebbero aggiungere le parassite le quali, meno colpevoli, vivono a spese d’altri vegetali: ma in questo caso il parassitismo non ha nulla di crudele. Fate un giro in campagna. Ecco la primarola, con i suoi fiori d’un bel turchino striato di bianco. Essa involge nella pianura i suoi grappoli d’oro pallido: Bernardino de Saint Pierre l’adorava; Shakespeare la paragona ad una giovane che si strugge nell’attesa dello sposo; Béranger l’officia come un simbolo di tenerezza; Beaconsfield ne fece l’emblema del pattriottismo. Ecco la violetta dal profumo soave che imbalsama la foresta e apre, come dice Giorgio Sand, il suo calice azzurro sull’erba parlante il linguaggio della modestia. Ecco altre ed altre piante, dall’aspetto gentile, timido, pudico. Non vi lasciate ingannare: sono tutte ipocrite che recitano la commedia della innocenza: sono delle parassite, le quali si pascono delle foglie che cadono, e alcune non s’incomodano nemmeno per acciuffare un insetto che si prenda troppa confidenza. È vero che parecchie di queste parassite rendono ai loro ospiti servizi reciproci di nutrimento: sono delle mutualiste, come ha dimostrato Van Beneder; e della mutualità non si deve dir male.

LA GRIDA

(SCHERZO).


Siccome adora il Musulman la Caba
ne la sua fe’ superstiziosa e cieca,
o come il pitagorico la faba
o i libri il topolin di biblioteca,


o la regina Salomon di Saba,
la cui sapienza tutto il mondo acceca,
o come i Farisei il lor Barabba,
o il pittore la sua pinacoteca,


tal di Pastonchi adorerò la «grida»
che dal paese di Logamagoga
sparge sua fama infino al monte Ida.


Sublime voce, che l’antiqua abroga
e l’avvelenerà finché l’uccida,
come di farmacista empiastro e droga.

Roma, dicembre 1901.

Francesco Macry Correale.


NB. — Per la proposta fatta dal Pastonchi di sostituire la parola «grida» all’antica «réclame».