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Il buon cuore - Anno X, n. 02 - 7 gennaio 1911/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 02 - 7 gennaio 1911 Religione

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Le onoranze a S. Carlo nel 1910

Il nostro sommo poeta lombardo, sostando quasi attonito e dubbioso dinanzi alla gigantesca figura del Conquistatore, che il suo genio aveva evocato in una potente improvvisazione, si chiese: «Fu vera gloria?»

Questo richiamo non deve sembrare inopportuno al chiudersi di un anno, che la pietà milanese volle sacro alla rievocazione di un suo Santo Concittadino. Che anzi vorrei dire non solo è lecito questo richiamo, ma s’impone un raffronto fra l’aureola del santo arcivescovo e la gloria del Conquistatore, poichè anche la loro vita si richiama vicendevolmente.

Apparsi l’uno e l’altro in mezzo al loro popolo in uno dei momenti più scabrosi della storia, ebbero entrambi precoci gli onori e le cariche più alte; a ventidue anni Carlo Borromeo è cardinale, a ventiquattro Napoleone afferra il comando militare, e dirige l’assedio di Tolone.

L’uno e l’altro sortirono da natura aperto e poderoso l’ingegno; al genio strategicamente innovatore del guerriero fa riscontro il genio pratico del riformatore morale e religioso; in entrambi è manifesto il predominio delle facoltà volitive, mirabile l’arte del governo e del comando. Dell’uno e dell’altro il poeta avrebbe potuto cantare «il concitato imperio, e il celere ubbidir».

Napoleone strinse attorno a sè i più abili generali, i più dotti giuristi, i filosofi più celebri dell’epoca; San Carlo si circondò dei migliori uomini del tempo, che egli prendeva da ogni regione fino a meritarsi quel titolo di «ladro rapacissimo di uomini» che gli regalò San Filippo Neri.

L’uno e l’altro, il conquistatore di regni e il riformatore di popoli, legarono il loro nome ad una raccolta di leggi, che oggi ancora è norma di governo, e non soltanto nelle loro nazioni: gli Atti della Chiesa milanese e il Codice napoleonico. Come precoce la gloria, così ebbero immatura la morte: a 46 anni S. Carlo scende nella tomba, e a 46 anni anche per Napoleone si apre, si può ben dire, la tomba di Sant’Elena.

E perfino attorno alle loro salme continuano singolari punti di somiglianza e di contrasto: l’uno riposa al centro stesso della sua Milano, nella cripta, sotto la sublime guglia del Duomo, che lo copre come un reliquiario immenso; l’altro nel mezzo della capitale francese, in un vasto e solenne ipogeo, coperto da artistica cupola.

Lacere bandiere, armi spezzate, affusti di cannone e veterani, succedentisi ai mutilati dalle sue cento battaglie, sono corona alla tomba del terribile guerriero, che tante vite travolse nel turbine bellicoso del suo insaziabile orgoglio; il visitatore, che fra tanti trofei di vittorie cruente si curva pensoso sulla tomba e rievoca le vicende grandiose dell’epopea napoleonica, non rivede in quell’avvello che «l’uom fatale», passato tragicamente, come una meteora di sangue.

Trofei di ben altre vittorie si elevano in Milano a gloria del nostro grande riformatore: qui stanno tuttora floridi i monumenti di una pietà viva, di una carità che da lui stesso prendeva non solo nuovo ardore, ma anche il primo impulso di un mecenatismo largo, multiforme e sempre benefico, di una rinascita morale e religiosa, così potente, sì che ancor oggi da lui si nomina, e spaziando intorno al suo sepolcro, l’occhio del fedele si ricrea e si edifica, posando via via su una interminabile serie di quadri, che riproducono non scene di violenza e di sangue, ma gli episodi più salienti di quella santità e di quella beneficenza, di cui tutta la sua vita fu intessuta. Gloriosa epopea di bontà, che allarga il cuore e rievoca alla mente del pio pellegrino, che devoto prega sulla sua tomba «l’uomo [p. 10 modifica]provvidenziale, l’eroe della carità», come lo salutò il suo popolo, passato beneficando, come un astro benefico che poi tramonta placido, fra il rimpianto e le benedizioni di tutti.

Oggi, al tribunale dei posteri, ai quali il poeta rimetteva pensoso il giudizio e «l’ardua sentenza», la memoria del Guerriero non suscita che un senso di meraviglia per il vasto, fulmineo genio, di compassione per lo sconfinato orgoglio così duramente umiliato. Il nome di San Carlo invece, radiante della gloria più pura, tocca gli estremi confini della cristianità, e attraverso le nazioni: i popoli tutti dell’orbe cattolico a lui inneggiano riconoscenti. Nessun neo e nessuna ombra offusca questa gloria: contemporanei e posteri, concordi e senza trepidazione, vanno proclamando: «Fu vera gloria!».

Lo hanno proclamato anzitutto quelle moltitudini devote che trassero alla sua tomba ininterrottamente per tutto questo indimenticabile 1910.

Le statistiche, che furono scrupolosamente raccolte a gloria della fede e della pietà e ad esempio dei posteri, segnano un totale di circa 250 pellegrinaggi: 34 nel solo mese di maggio e 49 in settembre, tutti edificanti per divozione e imponenti per numero.

E non solo della diocesi milanese traevano i pellegrini, ma anche dalle diocesi limitrofe e persino da lontane città. La diocesi di Bergamo inviò ben 27 pellegrinaggi con un totale di 11127 pellegrini; nobili rappresentanze vennero da Ravenna, da Fermo, da Lucerna, da Colonia. Erano associazioni, collegi, pie confraternite, seminaristi: l’otto settembre 10,000 bambini sfilarono dinanzi alla salma venerata di San Carlo, e il primo novembre erano 400 maestre della città, che vi convenivano in una devota affermazione di fede e di cristiano coraggio.

E l’otto settembre, quando l’urna del santo, portata con nobile gara da cardinali e da vescovi, uscì un istante dalla cattedrale, quasi a salutare gli ultimi crepuscoli di un giorno, che rimarrà scritto a caratteri d’oro nella storia della pietà milanese, erano migliaia e migliaia i cittadini, che affollavano non solo il Duomo, che più non bastò quel giorno, ma tutte le adiacenze. Era quella la degna chiusura di un ciclo grandioso di feste: era il commiato di riconoscenza di cinquanta e più fra vescovi, arcivescovi e cardinali, convenuti dalle regioni più lontane d’Italia e d’Europa, prendevano dal Santo arcivescovo, e dalla città, che ne custodisce con nobile orgoglio la salma e la gloria. Era la risposta viva, tranquilla, devota, ma imponente, che i posteri di ben tre secoli davano alla saggia domanda del poeta.

E col popolo ne ha proclamato la gloria anche quella colluvie di pubblicazioni, che pur senza scostarsi dalla più rigorosa esattezza storica, hanno nella loro collettività tessuto il più bel panegirico di San Carlo, lumeggiando tutte le multiformi manifestazioni della sua inesauribile attività e del suo spirito ancora vibrante di zelo in mezzo al suo popolo.

Proclamarono la gloria di San Carlo tutti i convegni, le accademie letterarie, i congressi, che in suo onore, o fregiandosi almeno del suo nome, per più di un anno si succedettero, intrecciandosi mirabilmente ai pellegrinaggi, alle funzioni religiose, alle pubblicazioni.

Sembrò per un momento, che a Milano nessuna manifestazione di pietà o di carità fosse possibile, se non ispirata dal ricordo e in omaggio al nome del Borromeo; e al tripudio di Milano faceva eco costante l’Italia, l’Europa, tutto l’orbe cattolico. Così Iddio esalta i suoi servi, così la chiesa glorifica i suoi santi!

E ora che questi posteri con mirabile concordia e senza titubanze hanno pronunciato così il loro verdetto, ora che il ciclo glorioso delle feste centenarie si è chiuso e la salma venerata è ridiscesa nella devota tranquillità del suo prezioso sepolcro, ciò che più importa è che la imagine del santo Arcivescovo rimanga veramente scolpita nel cuore di tutti. A questo miravano anzitutto queste centenarie onoranze.

31 dicembre 1910.


UNA LINEA DELLA FISIONOMIA SPIRITUALE DI S. CARLO1

Ritrarre la fisionomia di un Santo è sempre stato un tormento per l’artista, poichè la tavolozza o la creta in questo lavoro devono assorgere fino alla dignità di rappresentare un bello umano trasfigurato dalla azione più alta della grazia e quasi indiato. Anche nel lato solo della natura ci sono certe angoscie e certe gioie, certi lampi di genio e certe soavemente placide contemplazioni che portano agli occhi delle luci, mettono alle labbra delle movenze che nessuno riprodusse nè riprodurrà mai perchè l’unica tavolozza per quelle tinte, la stempra il nostro sangue e l’unica terra che ammetta simili solchi è il nostro corpo plasmato dallo spirito immortale.

Ma quando queste ore o questi stati di gioia e di pace, quando questi fremiti e questi lampi sono purificati e sublimati dalla santità, allora più che il sangue e il corpo, più anche dell’anima, c’è Dio che lavora, c’è un qualche cosa di cielo che si manifesta, sicchè riprodurre la creatura investita e penetrata così, risponde a riprodurre qualche cosa dell’infinito che è Dio. Orbene, è questo infinito che lascia la disperazione all’artista perchè anche dopo lo studio più accurato del vero, manca sempre alla riproduzione fedele qualche cosa, qualche cosa che c’è, che si sente, ma che sfugge, o Dio, sfugge agli uomini che lo vogliono afferrare e si ritira in Voi sua sorgente.

Allora si getta il pennello o si batte la mazza sul marmo e si dice: Dio non si ritrae.

[p. 11 modifica]Ed io vorrei non solo fare un ritratto, ma riprodurvi la fisionomia spirituale d’un’anima di santo? fotografare cioè tutti quei sacri incontri del sopranaturale col naturale, di Dio con lo spirito umano, della grazia con la natura, della santità con la virtù, che in S. Carlo formarono lo spettacolo degli angeli e affascinano da tre secoli il mondo cattolico?

Non una fisionomia dunque, ma una linea sola di essa io m’arrischio a portare, perchè almeno qualche cosa di Lui discorra la mia anima con la vostra che l’amano e lo vogliono imitare. E scelgo quella linea sulla quale possiamo formare la nostra fisonomia spirituale, facile allo studio, cara alla imitazione, causa d’ogni altra bellezza come in S. Carlo lo fu: il suo pregare.

O madri, i vostri figli sono un prolungamento della vostra esistenza. Aspettati dai vostri sogni, intraveduti framezzo alle immagini più belle e più pure, venuti finalmente a bere alle vostre vene per lungo tempo e poi presi dalle vostre pie mani e compressi sul vostro cuore, perchè in altra forma ancora, del vostro sangue si nutrano, voi li vedete crescere con la vostra sostanza e poichè lo spirito che ha loro dato Iddio forma persona con quel corpo che è vostro, i vostri affetti, i vostri pensieri, la vostra anima insomma per le vie dei sensi e per quell’arcana, ma reale comunicazione che esiste in noi tra la materia e lo spirito, influisce sul loro spirito, sull’anima loro.

Dammi, o Italia mia, delle madri grandi ed io ti assicuro dei grandi cittadini; dammi le madri sante e la Chiesa finirà di versare lagrime su tombe di figli perduti per sempre. Sieno sante le culle e le tombe si muteranno in altari.

La Contessa Margherita dei Medici si preparò a diventare la madre di S. Carlo con queste divine grandezze di santità, tra le quali emerse il suo spirito di preghiera. Usciva ogni mattina per udire la messa e il suo passeggio del pomeriggio finiva presso qualche chiesa claustrale dove intrecciava le sue alle preghiere delle vergini dei tabernacoli.

Ella era degna compagna del Conte Giberto che amava rinchiudersi a far orazione, vestito di sacco, in una cappelletta fabbricata a guisa di grotta nella Rocca d’Arona.

Da queste luci di santità venne lo spirito di preghiera in S. Carlo, che lo doveva accompagnare tutta la vita e diventare come il respiro de’ suoi polmoni e la luce delle sue pupille. Forse a indicare questo splendore di anima, Iddio distese la gran fascia di luce sul cielo del suo castello la notte in cui nacque quel mercoledì 2 ottobre 1538.

Nella camera dei tre laghi, così chiamata perchè aperta a guardare con ampie finestre, come con occhi incantati da tre parti il lago, la cuna di S. Carlo dondolava soavemente sotto la preghiera della madre come la barca fuori e a basso nella canzone del pescatore.

Carlo, non tardò a manifestare questo spirito d’orazione bevuto col latte. I suoi occhi si rivolgevano spesso al cielo come si solleva naturalmente e si apre la corolla del fiore al sole. I suoi trastulli furono piccoli arredi sacri e piccole suppellettili d’altare come per Napoleone dovevano essere soldati di stagno e cannoni di sambuco. I grandi hanno questa nota: la loro infanzia disegna lo spirito della loro vita futura. S. Ambrogio faceva baciare le mani ai bambini suoi compagni e metteva mitre di carta dicendo: io sono il vostro vescovo.

Vestito prestissimo l’abito ecclesiastico, quasi volesse Iddio compiacersi di vedere onorato per lunghi anni in lui la nobile divisa dalla sua Chiesa, allora nella Diocesi di Milano, portata da molti senza troppo decoro, egli amò l’orazione come suo sostegno in mezzo ai grandi pericoli che già si presentavano alla sua tenera infanzia; e poichè sapeva bene fino da allora che pregare è unirsi a Dio e che l’unione con Dio ha suo inizio e suo incremento dalla purificazione della coscienza, decise e mantenne di confessarsi ogni otto giorni, ed ogni domenica lo si vedeva col conte suo padre inginocchiato alla balaustra con lo sguardo acceso, col petto ansante, nel sospiro della Comunione sacramentale.

Fanciulli e fanciulle, al primo aprirsi della vostra ragione provate ad avvicinarvi a queste balaustrate al di là delle quali c’è il mare dell’infinito divino e sulle onde del quale viene a voi il Creatore degli astri e dei cuori. Incorporati con lui mediante questo atto supremo della preghiera, voi affronterete coraggiosi la vostra gioventù.

S. Carlo doveva sentire la tempesta della tentazione ma doveva gustare la gioia del trionfo.

Dai 16 ai 18 anni, quando la vita ormai ha aperto i suoi abissi e vi fa guardar dentro, quando tutto si com. move il cuore a ogni raggio di bellezza e s’infiamma d’entusiasmo ad ogni grandezza, quando le albe e i tramonti, il lago e la campagna, i fiori del cielo e le stelline dei prati dicono una poesia non sentita mai prima, quando, dopo certe prime ore di meditazione, vengono su dall’animo quelle vergini lagrime di cui Bossuet diceva: si piange, si piange, e non si sa il perchè; allora il nemico che crebbe con gli anni e fuori e dentro il cuore, affila le sue armi e tenta la prima piaga. Guai allora se si cade. La giovinezza diventa il triste ricordo di tutta la vita.

Si tentò così con Carlo. Egli aveva lasciato la casa di Arona alcuni anni prima di questa età. Si era stabilito in Milano per gli studi d’umanità. I compagni l’avevano osservato, non avevano ottenuto nulla da lui che sentisse della loro precoce corruzione, egli s’era attaccato con una divozione tenera e profonda a Maria Santissima, che nell’anima dei puri è vaghezza attraente e dolce poesia di paradiso. La Chiesa del Castello e il Santuario di S. Celso, avevano spesso raccolte le sue fervide preghiere e da’ suoi venerati simulacri gli aveva sorriso la Vergine degli Angeli. Egli camminava con la sua mano in quella di lei e sentiva arrivargli fino al cuore la casta influenza della sua protezione.

Da Milano era passato a Pavia per laurearsi in diritto. D’un tratto una sciagura, forse la più grande di una casa, lo getta nel lutto. Il Conte Giberto scende nella tomba ed egli è richiamato per amministrare il [p. 12 modifica]colossale patrimonio di famiglia. Fu allora che Satana tentò rapire Carlo alla Chiesa. A ora tarda, si introduce nella sua camera l’infelice scelta per la tentazione e si spera. Carlo sorgeva allora dalla preghiera; aveva forse sentita tutta la dolcezza della sua austera virtù; aveva compiuto dei voli per l’infinito con l’angelo vegliante nella notte su Arona. L’immenso silenzio del lago, le linee dei monti disegnati nel cielo come grandi figure umane oranti in silenzio, l’avevano tenuto nella più profonda meditazione.

L’urto di Satana fu terribile, ed io fremo tutto ricordando quella scena e risentendo quel grido che il Giussano nella sua storia ha ricordato: Carlo gridò, dice lo storico, e giù per gli scaloni della rocca, fuggì. Dove andò, se non a pregare e a immergersi nuovamente in Dio? Come un forte e avveduto esploratore delle vette che sopra una cresta alpina vede dall’abisso salire la nebbia che lo vorrebbe avvolgere e perdere, gira a salti l’abisso e ritorna a un’altra cima squassando il capo nel sole.

Accomodati gli affari in Arona, ritornò a Pavia dove la Università lo aspettava per conferirgli nel 1559 la laurea di dottore in leggi civili e canoniche. Aveva allora 22 anni; Paolo IV era morto in quell’anno e, mentre il santo prendeva l’anello di dottore, i cardinali entravano in Conclave per la elezione del nuovo Pontefice. Ne usciva papa Angelo de’ Medici, patrizio di Milano, zio del Borromeo, col nome di Pio IV, che chiamava il nipote presso di sè e gli imponeva i pesi maggiori del governo pontificio con l’amministrazione e il reggimento dello stato ecclesiastico. Fatto prima protonotario partecipante, poi Referendario, l’ultimo di Gennaio 1560 veniva creato Cardinale e all’8 del mese dopo il papa gli conferiva il titolo di Arcivescovo di Milano.

Conte, dottore, cardinale, arcivescovo, nipote di papa, la vanità poteva mettere le vertigini alla sua mente di non ancora 23 anni. Ma l’uomo dedito alla preghiera sente il peso della responsabilità de’ suoi onori; l’autorità viene da Dio, e più essa investe una creatura, più la creatura deve mostrarsi riconoscente al divino donatore. Se fino allora quindi S. Carlo amò la preghiera, da quel dì essa crebbe con le sue dignità. Ogni giorno verso il tramonto lo si vedeva fare in ginocchio la scala Santa, visitare i sepolcri degli Apostoli e dei martiri e sulle rovine della antica Roma pagana, viaggiare meditando i trionfi della croce che vi era piantata sopra come bandiera di gloria. Alle notti infami, egli sostituiva le sue celebri notti Vaticane. Fu in questo suo soggiorno a Roma Che una notte, trovandosi in una villa di un principe suo parente, gli si ripetè l’assalto di Arona. Tre ore prima dell’alba, Carlo fuggiva da quella casa e le ossa dei martiri dormienti nella Roma sotterranea sentivano passar sopra correndo il giovine cardinale che li invocava e piangeva.

Pio IV lo vedeva trasfigurarsi ogni giorno, ne era rapito. Lo fece gran camerlengo per la morte del Cardinale Santa Fiore, poi Sommo penitenziere e Carlo si trovò, con la mano casta riposantesi sul cuore stesso della Chiesa di Gesù Cristo. Gli onori gli piovevano sul capo e l’amore a Dio, alla sua Chiesa lo ardeva nell’anima. Fatto Legato di Bologna, della Romagna, della Marca Anconitana, protettore del Regno del Portogallo, della Germania inferiore e dei Cantoni svizzeri cattolici, protettore supremo degli ordini di S. Francesco, dei Carmelitani, degli Umiliati, dei canonici regolari di Santa Croce di Coimbra, dei sacri cavalieri gerosolimitani e della croce di Cristo del Portogallo, poteva dire che gloria più grande non avrebbe potuto incoronarlo.

Allora, ed è così che avviene alle anime grandi, Iddio lo toccò col dolore e volle provare la tempra del suo amore per lui. Il conte Federico, suo unico fratello, moriva il novembre di quell’anno 1562. La famiglia dei Borromei guardava al cardinale, unico rimasto che potesse conservare la famiglia. Secondo le usanze dei tempi, Carlo non aveva ancora ricevuta la consacrazione sacerdotale. Egli era libero, era unico erede della casa, signore di molti castelli e domini ricchissimi; le nozze si presentavano quasi come una necessità e il Papa stesso vi pensò.

O grandezze nascoste dei santi, ore di lotta che il mondo non conosce, momenti della santità in conflitto con la natura!

S. Carlo, dice il Giussano, la notte stessa della morte del fratello tracciò una regola austera di vita di cui tutta la fiamma e tutto il profumo era l’orazione; e quando gli fu fatta la proposta di matrimonio, rispose: domando l’ordinazione di prete.

Tutto era finito per il mondo. Quella sovrumana fisionomia che aveva imparato a guardare e ad amare fanciullo, quel volto divino pel quale a Pavia, ad Arona, a Milano e ultimamente a Roma si era sentito rapito, in quella ora egli aveva messo in cima a ogni volto umano. Cristo solamente poteva appagare le brame dell’anima sua e disse col gesto che ha l’anima dei santi: tutto è vanità e te solo per sempre io seguo. E Cristo rispose: andiamo insieme a Milano.

Voi vedete, io passo a volo sui fatti gloriosi della vita del nostro Santo. Io non vi dico nemmeno del Concilio di Trento di cui egli fu l’anima e che condusse a termine con una abilità e santità che tutti i secoli ammireranno.

(Continua) D. Pietro Gorla.

L’aviazione nei sogni


Tutti sanno che i sogni più comuni, specialmente nell’età giovanile, sono quelli in cui il dormiente pare di sollevarsi in aria e di volare. I sogni di questo genere hanno colpito le menti umane fin dall’antichità: se ne trova menzione perfino negli scritti di Cicerone, di S. Girolamo e del vescovo Sinesio. E sono sogni che lasciano vivamente convinto e persuaso il soggetto, il quale anche dopo il risveglio continua per un certo tempo a credere di aver veramente volato. Il famoso pittore francese Raffaelli, che spesso fa di questi sogni, confessa che più volte, svegliatosi ha fatto dei tentativi [p. 13 modifica]per sollevarsi in aria; naturalmente senza riuscirvi. Herbert Spencer parla pure di casi analoghi e negli annali della psicologia ha ricordato il caso di una signora francese, la quale era fermamente persuasa di essere riuscita una volta a sostenersi in aria per qualche istante. L’affermazione non può far ridere nessuno di coloro che qualche volta hanno sognato di volare.

Nel sogno — dice il prof. Havelock Hellis in un articolo in «Atlantic Manthly» riassunto da Minerva — il dormiente, non ha quasi mai l’illusione di sollevarsi a grandi altezze, ma a poca altezza dal suolo, e a grandi salti lungo ciascuno da dieci a venti metri, provando una piacevole impressione di leggerezza e di scioltezza nei movimenti, e non raramente anche la soddisfazione di essere arrivato a risolvere il problema della locomozione aerea unicamente per la superiorità della sua struttura organica.

Come si spiegano i sogni di tal genere? Vi sono varie teorie. Alcuni studiosi di occultismo hanno sostenuto che i sogni di voli non sono altro che rappresentazioni di escursioni, realmente verificatesi, del così detto «corpo astrale».

Il francese de Verme, contro questa teoria, osserva invece che la sensazione del volo aereo durante il sogno è soltanto un fenomeno di origine esclusivamente fisiologica, e non contiene alcuna prova dell’esistenza di un corpo astrale.

Secondo l’A. non è necessario ricorrere a ipotesi ardite per trovare una spiegazione soddisfacente. A suo credere la spiegazione è data dalle speciali condizioni in cui si trova l’organismo durante il sonno. I sogni in questione non sarebbero prodotti che da sensazioni aventi la loro origine nella funzione respiratoria. Quando siamo sdraiati, le pareti del torace si alzano e si abbassano alternativamente, compiendo una serie di oscillazioni che alle loro estremità sono limitate dall’aria. L’impressione del movimento nell’aria che caratterizza i sogni di volo non sarebbe che una obbiettivazione di tali movimenti. E che la funzione respiratoria abbia una parte importante, lo dimostra anche il fatto dell’oppressione al petto che si avverte svegliandosi. Un’altra prova si ha in ciò: che i sogni di voli nell’aria sono molto spesso, e specialmente negli individui giovani, associati con la rappresentazione di scale. Ora la salita e la discesa delle scale costituiscono le cause più frequenti di stimolazione delle funzioni respiratorie e cardiache, e ciò in particolar modo nei ragazzi, che sogliono salire e discendere di corsa. Tali impressioni facilmente sfuggono all’attenzione dell’individuo sano, ma sono ricordate inconsciamente, e cosi possono essere utilizzate dall’attività psichica nel sonno.

Ma nel problema di questi sogni occorre tener conto anche di un altro fattore: le condizioni della sensibilità tattile, poichè l’attività respiratoria da sola non potrebbe produrre la sensazione del volo, se le sensazioni tattili continuassero a ricordarci che siamo sempre a contatto con la terra. Invece quando un individuo è a letto, la sensazione di movimento determinata dall’attività respiratoria non è accompagnata dal senso di pressione prodotto dalle calzature, nè da quello che deriva dal contatto dei piedi col suolo. Di più avviene spesso che nella parte su cui il dormiente è appoggiato diminuisca, per effetto della pressione, la sensibilità in modo da favorire l’impressione di completo distacco del corpo dal suolo.

DEI CATTIVI DISCORSI

Certe parole che ridir non osa
Per non farvi arrossir, la lingua mia,
Certi discorsi che hanno sempre ascosa
Qualche non troppo oscura allegoria,
Certi racconti fatti in verso o in prosa
Che vi turbano poi la fantasia,
Degni, o donne, non son di vostre orecchie,
Principalmente se non siete vecchie.


Pur questi son que’ tai ragionamenti
Che s’odon volentier nel conversare,
E voi tenete lor gli orecchi attenti
Per somma bontà vostra, e il favellare
Di cose sode, ovvero indifferenti,
Semplicitade, anzi sciocchezza or pare;
Ed un che nel parlar sia ritenuto
O scrupoloso, o satrapo è creduto.


Meglio saria per voi filar la rocca
Che udir certe novelle, o sia discorsi
Che han tanti e tanti a tutto pasto in bocca
Onde il velen bevete a sorsi a sorsi....
In confidenza, donne mie, vi dico,
Che l’ascoltar quello che non dovete
Vi fa passar per quello che non siete.


E se non altro, crederà taluno
Che siate larghe assai di coscienza;
E voi sapete che a’ dì nostri ognuno
Vuol giudicar secondo l’apparenza;
Massime se si tratta d’una o d’uno
Di cui non s’abbia troppo conoscenza;
Direte voi che l’apparenza inganna,
Ma l’apparenza intanto vi condanna....


Ma taluna di voi mi par che dica:
L’udir parlare è sempre stato in uso,
Ed io non deggio, per parer pudica,
Quando altri parla raggrinzare il muso....
E se v’è uno sboccato, a me non tocca
Cacciarlo via, nè chiudergli la bocca.


Donne, nè men io son di quest’avviso;
Mi basta sol che se un discorso indegno
Di voi si fa, voi con applauso e riso
Di piacere non diate espresso segno;
Che un onesto rossor vi nasca in viso;
Basti sol che mostriate un finto sdegno,
Che il parlatore cangerà linguaggio,
E in avvenir sarà più cauto e saggio.

(Dal «Cicerone», c. VII).


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ECHI E LETTURE


Anche le signorine giapponesi conoscono quell’amabile preoccupazione o problema o inquietudine o disgrazia che sia, che si chiama il corredo. E il corredo delle spose giapponesi è ancora più... disgraziato e complicato di quello delle nostre; basti dire che ce ne vuole uno per ogni mese e che i mesi non sono meno di dodici, come per noi: e si comincia coi gelsomini e si finisce nè più nè meno con ghiacciuoli e colla cammomilla! Questo benedetto corredo si compone di lunghi abiti che servono per la toeletta, ed uno specchio, di seta, di stole, di coperte, di guanti, di tappeti, di cinture e di asciugamani. In tutto questo nulla vi è di veramente straordinario, ma vi si aggiunge un sacco contenente un miscuglio di frumento, di crusca e di erbe secche, una scatoletta contenente dei medicamenti ed un pacco di stuzzicadenti. Dodici abiti formano parte indispensabile del corredo e sono destinati ad essere portati ognuno durante ciascun mese dell’anno con ordine invariabile. Nel primo mese la giovane sposa indossa una veste azzurra tutta cosparsa di gelsomini e di ramoscelli di bambù. Il secondo mese essa porta un abito a quadretti ricamato a fiori di ciliegio. Il terzo mese veste un abito rosso chiaro con rami di salice. Il gris-perle è il colore del quarto mese: la veste è adorna di caratteri e geroglifici rappresentanti l’uccello cucù, che nel Giappone è di buon augurio pel matrimonio. La veste del quinto mese è di color giallopallido, con ricami che imitano le foglie dell’iride e di piante acquatiche. Pel sesto mese l’abito è di color arancio con cocomeri ricamati, il che significa che a quell’epoca comincia la stagione delle pioggie. Nel settimo mese la veste della sposa è bianca e seminata di fiorellini rossi, detti kammatis, che hanno una certa virtù medicinale. L’abito dell’ottavo mese è rosso e ricamato di foglie di mimosa. La veste del nono mese è violetta, sparsa di fiori di camomilla. Nel decimo mese è oliva, ed un bizzarro paesaggio, composto di campi coperti di spighe recise, attraversati da sentieri e da strade, si dilegua nelle sue pieghe. L’abito dell’undicesimo mese è nero, ricamato a ghiacciuoli: è la veste del mese in cui cominciano i grandi freddi. Gli stessi emblemi — conclude il Tit Bits — vengono ripetuti sul dodicesimo abito, che però è verde, e raffigurano i rigori dell’inverno.

UCCELLI LUMINOSI


Gli uccelli luminosi, alati messaggeri di luce e speranze... Ricordate? Le lucciole vive che secondo la leggenda francescana, sono parole d’amore disseminate nel buio del mondo... Ma questa è poesia. E dai cultori scientifici dell’ornitologia, è stato segnalato e discusso il fenomeno singolare presentato da alcuni uccelli, le cui penne appariscono dotate di una fosforescenza che rende l’animale luminoso; e siccome gli uccelli suddetti appartengono in genere ai gufi, ai barbagianni e alle civette, questa strana luminosità acquista agli occhi del volgo un carattere piuttosto misterioso. Gli antichi naturalisti hanno fatto spesso menzione di uccelli fosforescenti nell’oscurità; ma è in particolar modo nelle leggende popolari che siffatta fosforescenza vien di sovente menzionata, attribuendole origini soprannaturali. Anche di recente un cacciatore che si trovava su di un altipiano nei Pirenei, durante una mattinata molto, buia vide nel cielo due luminosità che si spostavano rapidamente, accompagnate da una specie di rombo; l’osservatore credette dapprima ad un passaggio di aeroplani, ma presto si accorse che trattavasi di due grossi uccelli, la cui apparizione era spesso avvertita dai pastori del luogo. Altre osservazioni analoghe fatte più volte in Francia e in Inghilterra provano che si tratta veramente di rapaci notturni, dei quali la presenza in certe epoche e in certe località si palesò qualche volta con una insolita frequenza. Si capisce subito che la luminosità in questione non è propria degli uccelli — afferma la Gazzetta — ma che essa dipende da sostanze attaccate alle penne e che persiste anche dopo la morte dell’animale; bisogna dunque pensare che la materia fosforescente sia prodotta dalla putrefazione del legno e che contro questo legno in via di decomposizione gli uccelli vengano per caso a stropicciarsi. Tuttavia anche sostanze animali decomposte debbono concorrere in certi casi alla luminosità degli uccelli, perchè sono stati segnalati degli aironi fosforescenti, e gli aironi non sogliono frequentare i tronchi d’albero, ma hanno bensì continuo contatto coi pesci, nei quali si sa che la fosforescenza dopo morte apparisce rapidamente. Si deve dunque trattare di batteri luminosi: salvo che la loro per sistenza in alcuni casi sarebbe straordinaria, come nel caso ricordato da Spencer e Purdy, i quali nel Norfolk videro una civetta mantenersi fosforescente per più mesi di seguito. Secondo una spiegazione data dal Pycraft, la luminosità sarebbe invece prodotta da un fungo particolare proprio alle piume; e la luminosità più forte che si osserva sul petto degli uccelli dipenderebbe dall’urto e dalla maggiore ossigenazione dell’aria durante il volo, analogamente a quanto si osserva quando si agita l’acqua che contiene microrganismi fosforescenti.

  1. L’anno degli onori resi a S. Carlo nel Terzo Centenario della sua Canonizzazione è passato. Rimane però ancora il profumo di quel ricordo. Ne è una prova il discorso che pubblichiamo del sac. Pietro Gorla, Canonico di S. Stefano, fatto il novembre scorso a una eletta adunanza di Signore sotto la presidenza di mons. Luigi Marelli, vescovo di Bobbio.