Il buon cuore - Anno X, n. 03 - 14 gennaio 1911/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
La donna e la formazione del carattere
nella relazione della principessa Giustiniani-Bandini.
Sul tema prescelto dall’«Unione fra le donne cattoliche d’Italia»: responsabilità della donna nella formazione del carattere individuale fondamento d’ogni religiosa e civile educazione, la illustre presidente generale dell’Unione, principessa Giustiniani Bandini, viene alle seguenti conclusioni:
I. La nostra Patria non sarà mai grande, nè civilmente, nè religiosamente, se non avrà forti coscienze e bene temperati caratteri individuali.
Vanteremo tutte le apparenze d’una grande nazione, ma non la sostanza; conteremo molti milioni d’italiani invadenti l’antico e il nuovo mondo, ma poche anime veramente italiane.
Potremo spiegare una forte azione elettorale e quando saremo riusciti a mandare alla Camera un rilevante numero di deputati onesti e sicuri, non per questo saremo convinti che una volta raggiunto il loro scopo, una volta arrivati, non siano degli arrivisti, e non si lascino trascinare dalla corrente e piegare a considerazioni di un’opportunità che ne mascheri la pochezza dell’animo, se non la viltà.
Potremo svolgere un’intensa azione economica, ma se quest’azione economica non avrà insieme la forza di una vigile azione morale, tutte le nostre conquiste rappresenteranno soltanto la miglior carta che il socialismo ha per il suo giuoco.
Applaudiamo di gran cuore al vagheggiato centro di coltura nazionale e ci proponiamo indirizzarvi le nostre migliori speranze, i giovani delle scuole universitarie e tutta la gioventù maschile ricca di promesse per una forte azione religiosa e sociale, ma se non sapremo indirizzarvi coscienze granitiche, palpitanti di vita cristiana, raccoglieremo numerose defezioni, e la scienza raggiunta da pochi, non sarà di nessuna efficacia pel bene comune.
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II. In questo lavoro di educazione la donna ha la sua parte di responsabilità.
Non tutta, perchè da quando le tolsero a forza i figli per mandarli, bambini ancora, alla scuola e quando l’ingerenza dello Stato avrà financo profanato l’insegnamento primario e violati i primordiali diritti della famiglia e del comune, questa sua responsabilità è stata e sarà sempre più menomata. Ma quei diritti son sacri ed inviolabili; noi non dobbiamo impunemente lasciarceli strappare; e così risorge più grave la nostra responsabilità. V’è poi una parte di responsabilità della quale le leggi umane non potranno mai esonerarci, perchè è inerente alla stessa natura femminile: la responsabilità che ci viene dallo stesso fascino che la donna esercita sull’animo dell’uomo, dall’influenza sensibilissima che esercita su tutto l’ambiente sociale. Non si sopprime la madre, non si respinge la donna; e la madre fa i costumi e la donna domina le leggi.
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III. La donna deve però essere educata, nel più profondo senso della parola, per potere educare.
Non s’improvvisa quella educazione che fa buone madri e vere educatrici e purtroppo non sempre l’educazione che la donna riceve è pari al compito che le appartiene. L’educazione qual’è data oggi alla donna la spinge verso nuovi orizzonti, non scevri da pericoli. Si vuole per lei una maggiore coltura e l’avviano verso le aule universitarie e i salotti intellettualistici dove, se non armata di molta e profonda coltura religiosa, perde spesso quel fascino muliebre, superiore ad ogni altro, quella pietà squisitamente cristiana fattasi da secoli natura della donna italiana, senza la quale l’anima sua ha qualche cosa di mostruoso e di ripugnante. Certo non è alla donna conteso di spaziare, ove ne abbia la forza, nei nuovi orizzonti aperti dal moderno progresso, ma s’inoltri con umiltà nel santuario della scienza dopo essersi nutrita di sicuri studi religiosi, diretti ad arricchirne e fruttificarne lo spirito e non a soddisfarne le velleità intellettualistiche.
Per educare deve educarsi; deve cioè conoscere i problemi morali e sociali dell’epoca in cui vive, ma è a fianco di quella che è Madre e maestra universale, la Chiesa di Cristo, che deve seguire da vicino quel movimento di civiltà che si chiama progresso. V’è poi una parte femminile che riceve e non dà, quasi passiva di fronte alla vigile fatica e al generoso sforzo di tanti campioni del bene; forse per un’esagerata fedeltà a consuetudini e trepida forse per i pericoli che un indirizzo di libertà sfrenata minacciano, si disinteressa di quel movimento.
Non ci consente l’animo di approvare la completa astensione, la noncuranza, l’inerzia. L’uomo deve avere al suo fianco un essere capace d’intenderlo; la donna deve riservarsi gelosamente nella vita dell’uomo quel compito d’ispiratrice e d’illuminatrice così bene personificato dal nostro divino poeta in Beatrice.
E se la donna dovrà compiere tutta la sua missione educatrice che va fino a ispirare e consigliare l’uomo adulto e non si limita alla prima educazione del fanciullo e non termina quando questi abbia raggiunto gli anni della adolescenza e della gioventù — dovrà essere colta e intelligente, perchè l’influenza morale che essa potrà esercitare non deve emanare soltanto dalla sua mitezza e affettuosità, ma anche più dalla sua sapienza della vita. Apparirà agli occhi dell’uomo bella di quella bellezza morale che si raggiunge coll’educazione data al proprio carattere e va raggiunta ad ogni costo, subordinando ad essa armoniosamente tutti gli altri valori che elevano il decoro ed il prestigio muliebre.
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IV. Come raggiungere questa ideale perfezione della donna cattolica in Italia?
Il solo svolgimento delle facoltà intellettuali non può rendere la donna idonea a compiere completamente e perfettamente la propria missione educatrice.
L’educazione importa la creazione di personalità coscienti e perciò il progressivo sviluppo di una notevole somma di quelle qualità d’ordine morale che preservino l’individuo dalle malsane influenze dell’ambiente in cui vive, lo preservino sopratutto da quelle debolezze per cui l’umana natura si degrada e si deprava e ne risveglino le buone energie generosamente conquistatrici.
L’educazione deve raggiungere queste due finalità:
- 1. dare all’individuo un concetto esatto della propria dignità umana rivendicata del cristianesimo;
- 2. indirizzarlo a esercitare saviamente la propria volontà, cioè il suo libero arbitrio, conforme alla Divina Legge.
1. Non v’ha quindi possibile educazione che non poggi sulla verità e dobbiamo bandire dai nostri metodi educativi tutto quello che non corrisponde a questo bisogno di luce e di verità innato nell’animo del fanciullo, dell’adolescente e del giovane.
I caratteri forti sono il risultato di un lavoro coscienzioso di verità, ed ecco perchè, nonostante grandi virtù (spesso forse più apparenti che reali) troviamo negli antichi filosofi e nei grandi uomini del mondo pagano grandi imperfezioni e deficienze morali, e corre immensa distanza fra la perfezione morale da essi raggiunta e quella raggiunta dai patriarchi e dai profeti dell’antico testamento e dai filosofi e dai santi dell’èra cristiana.
2. Colla coscienza del libero arbitrio, che è in noi, assumiamo la responsabilità così grave e pur così nobile di noi stessi.
Siamo quindi moralmente obbligati:
- a) di rispettare in noi stessi questa facoltà di liberamente determinarci; e questo rispetto dovrà muoverci a sciegliere sempre ciò che il Vangelo e la Chiesa propongono come più alto grado di perfezione morale;
- b) dovremo anche esigere che questa facoltà sia dagli altri rispettata in noi, ciò che darà al nostro carattere quella fermezza e indipendenza che sono fra le preclare sue doti.
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V. Questa educazione completa dell’individuo richiede che egli non si limiti a volere solo per sè una educazione fondata sulla verità e sul sentimento della propria dignità, sulla coscienza del sua libero arbitrio da rispettare e da far rispettare — ma egli deve volerla anche per il suo popolo, per la sua nazione, per la generalità umana.
La nostra religione c’impone questo desiderio di bene altruistico e universale, ma purtroppo dobbiamo riconoscere che il livello morale della nostra nazione è basso, perchè mancano generalmente forti coscienze e bene temprati caratteri che ispirino le magnanime proteste e le legali resistenze alle leggi che, come in Italia, vietassero le libertà della Chiesa, delle associazioni e manifestazioni religiose e la libertà d’insegnamento.
Il parlamento che dovrebbe rispecchiare l’anima d’una nazione cattolica, non la rispecchia perchè composto di molti elementi che vi giunsero più per forza di partiti essenzialmente materialistici nella concezione della vita che non portati dal libero voto di liberi elettori, ed è così che la nostra legislazione non corrisponde alla volontà della maggioranza degli italiani, volontà ancor più moralmente sana che non apparisca quando per la prepotenza di vili settari sono sancite leggi che, oppressive delle libertà individuali segnano un regresso, non già un progresso. Queste legislazioni a lungo andare pervertono le masse popolari e rendono a quei partiti una sincerità terribile, la realtà prepotente d’un generale pervertimento.
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VI. La donna cattolica deve influire sull’anima della nazione creando forti caratteri, e solo per mezzo di un nuovo soffio di fede, animante lo studio delle questioni morali e sociali otterrà il nuovo intento.
Supremo dovere quindi della Unione delle donne cattoliche d’Italia è di promuovere questa educazione razionale del fanciullo, della gioventù, delle donne stesse per dare alla Chiesa e alla Patria uomini di alto valore morale perchè di salda e inconcussa coscienza religiosa e civile.
Cristina Giustiniani Bandini.
UNA LINEA DELLA FISIONOMIA SPIRITUALE DI S. CARLO
(Continuazione e fine, vedi numero 1).
Dopo i gravi lavori del Concilio, a soddisfare i bisogni della sua profonda pietà, egli otteneva dal Pontefice che oltre alla composizione del Catechismo romano e alla correzione delle opere dei Santi Padri, interpolate e depravate nelle loro edizioni da tristi intelligenze, si provvedesse a riformare il Breviario e il Messale, i due libri delle sublimi preghiere sacerdotali.
Obbligato a trattenersi ancora per qualche tempo a Roma per conforto del Pontefice zio, egli sapeva trovar posto per la contemplazione in mezzo ai disbrighi di affari la cui importanza interessava il mondo cattolico, e più volte l’ultimo sole di Roma lo salutò pregante in quel romito oratorio ch’egli aveva adattato per sè sopra una piccola altura ombreggiata di faggi.
Ma la diocesi di Milano a cui era destinato, formava il fascino dell’anima sua; erano troppi i bisogni delle anime che lo chiamavano ed egli non si accontentò più di mandarvi il Vicario generale e il Vescovo Girolamo Ferragata. Cuore di madre, egli non poteva più star lontano dai figli che soffrivano e lo chiamavano nei loro dolori.
Il papa finalmente cedette e il Borromeo entrava in Milano per porta Ticinese il 23 settembre 1565 accompagnato da un corteo di anime grandi, degne di lui, perchè scelte dal suo ingegno e dal suo cuore. Da S. Eustorgio alla Metropolitana la sua cavalcata fu un trionfo. In Duomo aperse il cuore ed esordi il suo discorso di saluto con le parole di Gesù Cristo: «desiderio desideravi hoc pascha manducai e vobiscum» ed il popolo avrebbe potuto rispondere: tu sarai come l’Eucaristia per noi perchè ci dar ai il tuo corpo, il tuo sangue, la tua anima, la tua santità.
Eccolo finalmente tuo o Milano questo uomo che i secoli distingueranno chiamandolo il gran santo.
Voi che sapete la storia milanese di quell’epoca, richiamatene il quadro alla memoria con tutte le sue ombre che avevano assalito perfino i chiostri e gli altari ed erano montate su come un’onda di lava a soffocare quasi i santi tabernacoli.
Mio Dio, qual campo di lavoro per un vescovo!
Il Borromeo osservò, studiò e pianse; ma non pianse lagrime sterili; erano lagrime scottanti che venivano dal suo cuore deciso di immolarsi pur di sanare la sua Chiesa. Come sempre, egli cercò prima sua forza nella preghiera e tanto la sua vita privata, quanto la sua vita apostolica trasse di là le nuove luci della sua santità.
Se giovane studente e cardinale di Roma egli ricorreva ai sacramenti con frequenza, ora tutti i giorni egli sente il bisogno di salire all’altare per il sacrificio dopo d’aver chinato il capo sotto l’assoluzione del confessore. Le sale dell’episcopio mancano per lui di attrattiva; la sua casa fa difetto di una cella in cui raccogliersi come l’aquila nella fenditura della estrema roccia del monte per guardare di là gli immensi cieli in cui a ogni nuova aurora slanciarsi a volo. Egli costruisce una cameretta sul tetto dell’episcopio e quando Milano, dopo le faticose giornate del suo lavoro, cerca a sera tarda un punto in cui fissarsi quasi a mandargli il saluto riconoscente, lassù, dove non arrivano ad arrampicarsi i fantasmi della vita mondana, s’apre una finestrola pallidamente illuminata come a dire: — Figliuoli riposate, il mio cuore veglia, io prego. —
Qui a S. Barnaba si custodisce una palla di piombo grossa come un arancio, che il santo arcivescovo teneva in una mano di notte quando dopo parecchie ore di preghiera la natura voleva finalmente un tributo di riposo. Quella palla cadendo, allorchè s’infiacchiva il suo corpo, lo svegliava ed egli ripigliava a pregare fino a che, affranto, cadeva tra le braccia degli angeli che ammiravano il suo riposo.
Della vita interiore egli ebbe sempre somma considerazione, quindi lo spirito di pietà che ne è l’essenza fu la linea più marcata della sua fisionomia. Due volte all’anno si chiudeva in sacro ritiro per dare più libero sfogo al suo pregare ed ogni sera egli voleva intorno a sè i suoi famigliari perchè ogni giornata finisse con la orazione. Quando il Farina vorrà ucciderlo, saprà bene dove sorprenderlo, come Giuda sapeva bene il luogo dove il Maestro di notte si ritirava a pregare. E la sua preghiera lo portava spesso fino all’assorbimento completo delle sue potenze in Dio.
Più volte in coro, scrive lo storico, era necessario scuoterlo come da un’estasi, perchè i canonici aspettavano la sua parte d’ufficio: la bocca socchiusa, lo sguardo fisso come di vetro, una pace divina diffusa su tutto il suo volto, lo rendevano allora, come non lo dipinsero mai, bello. Finito il coro egli discendeva solitamente nella cripta che oggi, prolungata, è sua tomba gloriosa e là passava ore silenziose e deliziose di preghiera che poi raccoglieva in punti sopra taccuini, alcuni dei quali conserva la nostra biblioteca ambrosiana come parte dell’anima sua fermatasi in mezzo di noi. Queste lunghe e profonde preghiere avevano dato alla sua persona una espressione di abituale raccoglimento, cosicchè in avvicinarlo si sentiva Dio che abitava in lui ed egli stesso aveva nelle sue azioni come nelle sue parole e ne’ suoi sguardi, qualche cosa che non si sa bene definire, ma che obbligava tutta l’anima a dire: è un santo, è un santo.
Oh, ma dov’è il forte S. Carlo, l’austero riformatore dei costumi, il vescovo ardente che è divorato dallo zelo del Signore? Noi non lo abbiam preso a studiare così; ma se alla sua grande attività vogliamo dare uno sguardo e ricordare il suo apostolato, in fondo troveremo sempre la nostra linea, la fiamma prima che illumina la sua mitra e la sua croce cosicchè, sia che lo si consideri privato o che si notino le sue giornate di lavoro episcopale, una cosa sola appare sempre come ispiratrice della sua virtù e delle sue opere grandiose, lo spirito di pietà. Ciascun’anima, come ciascuna sinfonia, ha una sua nota di richiamo spirituale, un «leit motif» a guisa di una nostalgia per cui si volge sempre da quella parte; come avviene d’un vaso sacro, diremmo così, in cui dopo che un balsamo prezioso e di forte essenza vi è penetrato, tutto ciò che vi si getta va a profumarsi e ne viene poi a spandere sempre un ricordo del nardo primiero.
Egli istituisce Seminari, ma badate la nota di fondo che vi domina: la confessione, la comunione, la meditazione.
Le sue visite pastorali, specialmente quelle montane, sono un prodigio di attività e di energia di volontà: esamina i registri parrocchiali, detta norme per il clero e per il popolo, consacra chiese, finisce inesorabilmente abusi inveterati, ma la divina passione del suo cuore come un fuoco arcano muta in oro quello che senza di essa sarebbe stato solamente acciaio o scheggia di ferro. Egli passa le ore della notte davanti al tabernacolo e si addormenta col capo stanco reclinato sulle reliquie dei martiri.
Egli riforma ordini religiosi, suscita in anime ribelli tempeste infernali che urlano vendetta, scomunica anche il governatore di Milano; non si piega il forte, è imperterrito; ma seguitelo nel ritorno: in casa si butta in ginocchio e prega per chi l’odia, e spesso ha la gioia di vedersi tra le braccia pentiti quei che una fredda volontà avrebbe condannati per sempre alla ribellione. Chi non sa la guerra mossagli dai canonici della Scala? ma chi non piange di consolazione ricordando con quanta contrizione gli chiesero perdono?
I suoi sei Concilii provinciali vinsero difficoltà che parevano insuperabili, ma tutte le vergini sacre e tutte le anime più belle erano supplicate prima da lui, che rendessero piane le vie con la preghiera.
Quando egli va a Roma per gli interessi della sua diocesi o di tutta la Chiesa, fissa nel suo itinerario certe soste volute dalla sua pietà. In Camaldoli passa alcuni giorni in un cremo; su l’Alvernia ricopia gli slanci di S. Francesco; a Loreto ricorda la sua divozione di fanciullo a Maria. Per questo, allorchè i cardinali lo vedono entrare in Roma, notano sul suo viso un certo fuoco che li obbliga a guardarsi esterefatti come per la venuta di un essere celeste.
Chi non sa delle sue peregrinazioni a Torino per visitarvi la santa Sindone? de’ suoi viaggi per onorare reliquie di santi?
Certe volte la sua preghiera lo assorbiva così che le redini della cavalcatura gli cadevano dalle mani le quali si congiungevano come per istinto naturale e si appuntavano sotto il mento, mentre il capo si sollevava per un’ondata di divino amore che pareva più non contenerglisi nel petto. Da Milano a Cassano, depose Mons. Speciano, vescovo di Cremona, lo si vide cadere insieme con la mula, e da Como a Milano un’altra sera verso la festa d’ognissanti, rimase lungo tempo in un fossato dove i servi lo rinvennero sorridente e in preghiera.
Milano conosceva bene lo spirito del suo arcivescovo e quando l’abbaino del suo palazzo non mandava luce, si sapeva che egli era a passare la notte sulla tomba di S. Ambrogio, come in Roma vegliava nelle catacombe con le mani intrecciate su i sarcofaghi dei martiri. Si leggano le sue lettere ai Papi, ai Vescovi, ai Re, alle Regine e specialmente a qualcuna di esse molto infelice, ai principi, e si vedrà come palesemente o velato tra riga e riga il suo cuore non invitasse sempre al divino commercio dell’uomo con Dio mediante la preghiera.
Quando i Turchi minacciano l’Italia e le acque di Lepanto riflettono sinistramente la mezzaluna che agogna sostituirsi alla croce, il Papa si rivolge alle preghiere di Carlo: pregate, pregate, egli dice con una espressione che lacera il cuore. E Carlo sale il pergamo, chiama Milano alla orazione, discende, si mette a capo di processioni per la città, di giorno, di notte, finchè la storia deve segnare: la mezzaluna è andata in fondo al mare.
Ma dove trovare uno spettacolo più grande e una prova più bella e più forte dell’esistenza di questa divina passione dominante in San Carlo, che nei dì neri neri della carestia e della peste che flagellarono la nostra Milano? È vero, la carità del santo pare a prima vista che sia stato il rimedio di tanta sciagura. Io oso dire che fu invece la sua preghiera. Ah vi sono sventure che l’uomo per quanto grande, non saprà mai sanare. Il principato d’Oria passava nelle mani dei poveri; gli accattoni vestivano giubbe fatte con le cortine di seta e con la porpora dell’arcivescovo; una fodera di materasso era la coperta del Conte Cardinale; il Lazzaretto era diventato l’episcopio del santo; egli non dormiva più, non mangiava quasi più nemmeno i pochi lupini e il tozzo di pane ammollito nell’acqua che aveva formato la sua mensa consueta; egli aveva scongiurato i generosi a sacrificarsi, s’era votato egli stesso alla morte; ma, o mio Dio, che è mai anche questa serie incalzante d’eroismi, se il cuore che li fa non se ne serve per rendere più cara a Voi la preghiera? Chi può cessare il flagello, maturare i grani e chiudere le piaghe? S. Carlo lo sapeva e poichè il momento era estremo, la preghiera doveva assorgere all’ultima sua efficacia, doveva mutarsi in sacrificio. Vedetelo, vedetelo il santo a piedi nudi, con un sacco indosso, con una fune al collo a guisa di una vittima che cerchi l’altare su cui immolarsi; egli porta con le mani coni mosse la croce del suo duomo ed è diventato l’incarnazione della preghiera. In ogni piazza, a ogni crocicchio delle vie fa innalzare un altare. Milano è diventata un tempio.
Dio non può resistere a queste scene. Dio pregato viene; e là, dove le lagrime più desolate bagnavano la terra mutata in giaciglio, l’estate seguente fa mietere le spighe e l’autunno vendemmiare le uve che i sana ti portano a Cristo e al suo vescovo per farne specie per l’Eucaristia che li aveva nutriti e pane e vino pei poveri tra i quali un giorno essi erano annoverati.
Ma la vittima doveva essere veramente immolata. Cristo, non fu mai tanto nostra preghiera, come quando morì sulla croce poichè fu più propriamente di là che venne la redenzione.
Era il 1584. S. Carlo aveva fatto i suoi esercizi spirituali in una cella sul monte sacro di Varano; la sua pietà ve l’aveva tenuto per otto giorni nelle più belle contemplazioni, come la sua austerità nella più dura penitenza; vi aveva fatto la sua confessione generale sentendo vicina la fine de’ suoi giorni; vi si era anche ammalato e di là era stato trasportato a Milano. Si era vicini al novembre, a questa stagione così mesta e così piena di richiami per il cielo, con le sue foglie ingiallite che cadono, co’ suoi pallidi tramonti velati di nebbia, come cadono dai rami della nostra vita le disillusioni come si vela per sconforto il cuore. Il lago aveva sentito scivolar via la barca che portava il santo, quasi incamminata a lidi eterni, il Duomo l’aveva visto passare in lettiga affranto come un soldato ferito a morte in battaglia e presso a morire sotto la sua tenda.
Il corpo del santo ormai non reggeva più all’ardore dell’anima; s’era fatto un velo troppo esile, la penitenza che aveva preparato l’olocausto del corpo, aspettava l’ultima preghiera dell’anima per vibrare il colpo e formare la vittima.
La camera del santo, ormai non era che una chiesa con due altari: quello dell’Eucaristia che egli aveva voluto erigere, e il suo giaciglio su cui egli moriva, se pure tutti e due non erano che un altare solo.
Aveva voluto il santo un’immagine grande in quadro di Gesù agonizzante nell’orto, e un’altra di Gesù morto deposto dalla croce. Non potendo più parlare, egli vi dava sguardi infuocati. Faceva l’ultima preghiera. Al lume di una lampada lo si vide reclinare il capo, quietamente morire. Erano le tre ore di notte del tre novembre 1584. S. Carlo era vissuto nella preghiera 46 anni, un mese e un giorno.
Sul cereo suo volto rimase quella linea che forse abbiamo ritratto. L’anima santa che ve l’aveva solcata continua a pregare per noi nel cielo.
E noi, curvi sulla sua tomba gloriosa a pensare, impariamo e speriamo.
La NONNA è un capolavoro di una freschezza di una originalità assoluta.
LA MORALITÀ NEL TEATRO
Stavamo per esprimere l’indignazione suscitata in molte anime oneste dall’indecente Cleopatra, inqualificabile ballo che si è dato e si continua a dare al Teatro della Scala, quando ci giunse in buon punto la protesta inviata ad alcuni giornali cittadini dal nob. avv. Pier Emilio De Francisci, solerte membro del Consiglio per la Moralità Pubblica.
Facciamo nostro il grido dell’egregio avvocato, che ha trovato accoglienza soltanto nell’Unione, avendo gli altri giornali preferito il silenzio, forse per non turbare il successo industriale dello spettacolo inverecondo. Noi siamo ingenui come il giovane avv. De Francisci; ma siamo sicuri d’interpretare il sentimento di mc Iti timidi, che non osano opporsi a ciò che si fa per convenzionalismo ed anche per assecondare il gusto corrotto nel teatro, come pur troppo si fa per la stampa.
«Milano, li 7 gennaio 1911.
- «Egregio signor direttore,
«Le sarei vivamente grato, se l’ottimo suo giornale volesse accogliere queste poche righe di protesta e di indignazione per le belle novità introdotte nel nostro maggior teatro col cosidetto ballo di Cleopatra. So che le mie parole susciteranno da parte di alcuni un riso, quasi di compassione, per la mia dabbenaggine, ma io a certe risa rispondo con una scrollatina di spalle, il che non esclude che io possa anche essere un ingenuo. Ma, appunto per questo, io mi domando, se proprio oggi, in cui il presidente del Consiglio dei ministri si dà tanta e lodevole pena per combattere la pornografia, debba essere permessa, sul palcoscenico della Scala, questa rappresentazione sfacciata del più volgare erotismo. Io domando, perchè debba usarsi, col povero, forse analfabeta rivenditore di giornali, che viene processato per la vendita di uno stampato, il cui contenuto gli è sicuramente ignoto, una misura diversa da quella applicata a chi ha la bontà di offrire al pubblico queste esibizioni di lascivia, che si vogliono gabellare quali innovazioni geniali, frutto di nuove concezioni estetich2. E domando ancora, per quale privilegio debba essere possibile alla Scala uno spettacolo, che, probabilmente, la prefettura e l’autorità di P. S. avrebbero vietato, se avesse costituito solamente un numero di un qualsiasi caffè-concerto.
Del lesto io so che la maggior parte del pubblico è stata ed è del mio parere, e ha, timidamente, come suole la gente dabbene, disapprovato. Pochi gli applausi, che non era difficile scorgere da qual parte venissero. Nè io voglio discutete sul valore di questo preteso rinnovamento dell’arte della danza: osservo solamente che il nome di arte è usato molto impropriamente, ove essa si limiti ad esprimere le manifestazioni più basse della bestialità umana ed ove risvegli unicamente gli entusiasmi di giovani decadenti infrolliti e di certi vecchi, che trovano nello spettacolo un surrogato agli usati eccitanti. Io non credo che la Scala, questa istituzione cittadina della quale vogliamo andare orgogliosi, debba assumere questa nuova funzione: tuttavia potrei anche sbagliarmi, perchè forse io sono un ingenuo.
«Mi perdoni, egregio direttore, questo sfogo sincero e mi creda
«il suo P. De Francisci.»
Ricordatevi di comperare il 24.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che uscì nella scorsa settimana.
I BACHI DA SETA
L’allevamento dei bachi da seta merita di essere diffuso dovunque, ed in conseguenza deve essere estesa la coltivazione del gelso anche in quelle regioni dove — come nell’Italia meridionale e nelle due maggiori isole — è poco diffusa. Un libretto piccolo di mole, ma grande di importanza, si presta mirabilmente alla propaganda per la bacologia e per la gelsicoltura. stato pubblicato ed è scritto in modo accessibile all’intelligenza di tutti dal cav. Amelio Frignani, capitano nel 58 reggimento fanteria, di residenza a Padova. Il suo autore lo pone in vendita a soli 30 cent., perchè non vuole certamente far commercio librario, ma solo della buona propaganda agraria.
Il capitano Frignani, che ha conseguito la medaglia d’oro al merito agrario del ministero di agricoltura, è uno di quei pochi ufficiali del R. Esercito che hanno dedicato le ore dei loro ozi all’insegnamento agrario pratico ai soldati. Essi sono dei benemeriti del nostro progresso agrario, perchè ne spargono il germe che viene fecondato e diffuso per le campagne di tutta Italia, quando i soldati ritornano al paese natio a fare gli agricoltori.
Il libretto del cap. Frignani è un vero trattatello popolare di gelsicoltura e di bacologia, ed è illustrato da nitide e pratiche incisioni. Vi si parla della semina del gelso, della sua piantagione, del suo allevamento in siepi, a ceppaia, ad alberello e ad albero, nonchè della diaspis che affligge questa pianta tanto utile. Vi si parla altresì delle diverse fasi dell’allevamento del baco da seta e si danno delle norme precise e razionali a cominciare dall’incubazione del seme e dai requisiti che deve avere la bigattiera, fino alla raccolta dei bozzoli. Un capitolo veramente nuovo, e che non è in alcun trattato di bacologia, è quello che riguarda l’allevamento dei bachi da seta in capanne, ossia tilimbar all’uso persiano.
In altre Cronache agrarie abbiamo parlato di questo economico sistema di allevamento del baco da seta che il prof. Quajati della R. Stazione bacologica di Padova ha di recente raccomandato per l’Italia meridionale e per le nostre isole. Il cap. Frignani ha esperimentato l’allevamento in capanne nel clima di Padova, che non è certo raccomandabile per un simile allevamento, e ne è stato contento. Egli così ne scrive nel suo libretto: «Una baracca per mezz’oncia di seme si fa così. Si piantano mezzo metro dentro terra ed in fila, a 2 metri uno dall’altro, 4 pali lunghi circa 8 metri e grossi come un buon polso. A 3 metri circa dalla fila di pali si piantano altri 4 pali come i primi, così avremo un rettangolo di pali lungo 6 metri e largo 3. Ad un metro mezzo da terra, si assicurano orizzontalmente tutto intorno ai pali, altri pali più leggeri e si uniscono fra loro con rami di gelso, canne od altro in modo di fare come una stuoia o graticcio, che avrà le dimensioni del rettangolo, cioè della lunghezza di metri 6 per 3 di larghezza. Tale graticcio sarà poi il letto dei bachi. A mezzo metro al di sopra del graticcio si costruisce un tetto e doppio piovente; tanto largo che sporga alquanto fuori dei pali di impianto. Il tetto si può fare di paglia, di grano, o di riso o di segale ed è forse la cosa più difficile a costruirsi, ma non è questione che di buona volontà e di averci pensato a tempo.»
DELLE CATTIVE LETTURE
- Certi libri, che sono altro che santi,
- Sono zeppi talvolta d’eresie,
- E sotto certi titoli galanti,
- Nascondono il veleno, o donne mie,
- Che da voi, nè da molti altri ignoranti
- Non si conosce, e che per mille vie
- Nel cuor celatamente e nelle vene
- Di chi li legge a insinuar si viene.
- E tanto più s’insinua facilmente
- Il velino letal quant’è più dolce,
- Mentre lo stile lor soavemente
- Il vostro core e i vostri orecchi molte....
- Io piuttosto vorrei, Dio mel perdoni,
- Che foste cieche e non leggeste mai;
- Leggete, ma leggete libri buoni,
- Che ve ne son di questi pur assai;
- E i libri, che da certe regioni
- Vengon portati, in cui vi son de’ guai
- E in cui con troppa libertà si scrive,
- A leggerli non siate sì corrive.
- E quel ch’io dico a voi, donne, s’intende
- Detto agli uomini ancor, che fanno male
- A legger tuttodì certe leggende
- Impure, o qualche libro ereticale....
(Dal «Cicerone», c. VIII)