Il buon cuore - Anno X, n. 05 - 28 gennaio 1911/Educazione ed Istruzione

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UNA PIETOSA AVVENTURA DEL POETA MILLEVOYE


(Continuazione e fine, vedi n. 4).


Il racconto del custode del cimitero impressionò vivamente Millevoye che giurò di adoprarsi a lenire quel così eccezionale dolore, a qualunque costo. La giovane madre era troppo degna di pietà e inspirava al poeta troppo ardente simpatia perchè dovesse passar oltre senza tentare di consolarla.

Pensò a lungo; e fecondo di trovate e di risorse, non tardò a trovare di che formare il suo piano. Convenne col custode che lo assecondasse, dietro un giusto compenso, nel tentativo di ricondurre quella sventurata alla ragione e ad una relativa pace; indi si mise all’opera.

Dal racconto del custode aveva rilevato come la dolente non solo chiamasse con voce lamentevole e straziante il suo morto, ma altresì che nelle aberrazioni del suo immenso dolore si illudeva che il morto poteva, doveva rispondere al suo appello di madre; beata se d’oltretomba le fosse arrivato anche un solo accento del suo Alfredo. E allora, di intesa col suo complice, Millevoye fece il primo passo.

La mattina seguente al primo schiarirsi dell’alba la donna entra come di consueto nel cimitero, s’inginocchia, si china sul tumulo per raccogliere i fiori appassiti del dl innanzi e sostituirli con altri fiori freschi e recenti che portava con sè, quando lo sguardo è attratto e si arresta su qualcosa che biancheggia, che si disegna tra i fiori del dì innanzi; stende la mano, e raccoglie il più leggiadro, elegante cartoncino, con tracciate a caratteri regolari, perfetti, misteriose parole. Legge; le par di sognare, sussulta, torna a scorrere quello scritto con visibile commozione; non dubita più; è la risposta di Alfredo agli angosciosi appelli dell’anima e del dolore paterno, per quale misteriosa via del regno oltramondano formulata e spedita non lo sa, ma crede. Era così espressa:

«Quando tu o madre, prevenendo l’aurora, vieni al mio sepolcro recando baci e fiori, io ti vedo, io ti sento; sento i tuoi sospiri, i tuoi gemiti ripercuotersi in dolorosa eco nel freddo avello in cui riposa il tuo Alfredo. E anch’io ti parlo, sai; ma invano! Ah! che l’esile suono della immateriata voce dei morti, ad orecchio mortale più non arriva.»

Appena ebbe pronunciata la promessa consueta «a domani», la donna si tolse frettolosa di là per rifare traverso il bosco la strada del ritorno alla sua casa, beata che alfine si fosse ristabilito tra lei e l’adorato figlio l’antico rapporto della parola viva.

Millevoye, intanto vigilava l’andamento del pietoso stratagemma inteso a stappare una povera madre da imminente pazzia e fors’anche da tragica fine. Appena l’ombra della desolata svanì nel folto della boscaglia, corse al cimitero per sentire dal custode l’effetto prodotto dal finto messaggio ultramondano e dalla relazione di lui prese coraggio a tentare un secondo passo.

Il poeta, profondo conoscitore del cuore umano, sapeva come un dolore muto, ostinato, ribelle ad ogni conforto, uccida; ma se si arriva ad alleggerire il cuore dall’immane peso che lo schiaccia, per lo meno la catastrofe è scongiurata. Se si potesse intenerire quel cuore impietrito dalla sventura, se si potesse provocare uno sfogo di pianto, l’intento sarebbe raggiunto. Pensò come ottenerlo; e creduto di avere divinato il mezzo più convincente a quello scopo, si rimise all’opera col concorso indispensabile del custode del cimitero. E quando la povera madre, indi a qualche mattina di delusa aspettazione d’altri messaggi dell’adorato figlio, già ricadeva nel disperato suo dolore, ecco che al suo arrivo alla tomba del suo Alfredo trova un secondo biglietto, elegante e scritto in caratteri perfetti come il primo, e così concepito:

«Mai fiori più leggiadri dei tuoi, o madre mia, mai fiori più olezzanti vide o accolse questa terra di pianto prima che tuo figlio fosse qui sospinto dal barbaro voler della morte. E godo sotto questo gentile panno mortuario, composto dalle tue mani, da te rinnovato ogni mattina. Ma ahimè! questi fiori presto avvizziscono e dissecano sotto l’ardente sole. Se tu, o madre, li irrorassi delle tue lagrime ogni mattina, oh, che essi conserverebbero tutto il dì una freschezza che invano tenta donargli rugiada di ciel od acqua della terra, ed al tuo figlio verrebbe protratto il refrigerio, il gioire.»

Questo secondo biglietto colpì anche più la mesta genitrice; ma prima ancora di potersi dar conto più preciso di ciò che l’affannosa parola del figlio perduto implorava da lei, una crisi di pianto l’aveva già assalita e calde lacrime cadevano a bagnare quella tomba amata, quei fiori.

Millevoye, tosto informato dell’accaduto: — Se ha pianto — disse — allora essa è salva.

Restava però un ultimo ostacolo da rimuovere. La continua veglia, l’agitazione incessante avrebbero finito collo spezzare anche le fibre più resistenti; consumate le poche provviste che ancor restavano immagazzinate, [p. 37 modifica]l’opera deleteria avrebbe presto attaccato le parti vitali; bisognava un ristoratore. E il nostro poeta faceva mettere un terzo biglietto del tenore seguente:

«Lungo la negra notte, quando ogni vita è spenta, il tuo Alfredo o madre, non dorme già, ma veglia e affretta col desiderio e pregusta la tua offerta di baci e fiori. Guai se un dì avessi a restare senza quel gentile tributo del materno cuore! Eppur lo pavento, al veder che ti consumi ogni dì più nell’affanno e nel pianto. Ah! se un giorno tu, vinta dal duolo, restassi misera preda di morte, dimmi o madre, chi verrebbe ancora alla mia tomba a recar baci e fiori? La promessa «a domani» che mi rinnovi ogni mattina, non tolga alla madre mia il ristoro di riposo e di sonno che la serbi più a lungo al pietoso pellegrinaggio alla tomba del tanto lacrimato suo figlio.»

L’ammonimento era dato e dall’unica parte d’onde solo sarebbe stato accolto e osservato. Ma non lo fu che in parte. La povera donna, persuasa che il pietoso voto di visitare ogni giorno il tumulo del suo Alfredo non potesse compierlo che all’alba, e temendo di mancarvi, sorpresa dal sonno, se mai cedesse al bisogno di dormire, mai si coricava da un mese. E questo terribile trattamento inflitto ad un corpo delicato e troppo bisognoso di assoluto riposo, certo poteva essere fatale.

Il buon cuore di Millevoye vi pensa, ed è tutto in moto per trovare un espediente che valga a indurre la povera madre a concedersi un sonno riparatore. E dopo qualche giorno, fa deporre un quarto biglietto sul tumulo di Alfredo, redatto nei termini seguenti:

«Lo sconsolato dolor in cui si strugge la fiorente tua giovinezza e beltà, tu dici, o madre mia, sarebbe alleviato se a quando a quando potessi tu vedere le amate sembianze del tuo Alfredo. Ma disperi o mai che l’occhio tuo, e dì e notte affogato in amaro pianto, possa bearsi ancor nella vision del caro volto d’un figlio disperatamente lacrimato. No, madre mia, non è così; e se ti concedessi il natural riposo, come gli altri mortali lungo la negra notte, io ti apparirei in sogno».

Pietosamente ingannata anche questa volta, la sventurata cede; ma ecco che realmente quella prima notte di sonno, dopo tanta ostinata veglia rotta soltanto da brevi assopimenti scontati poi nel modo più duro, l’immaginazione vivamente impressionata dall’idea che avrebbe riveduto suo figlio, le recò innanzi, su uno sfondo di cerulea luce la calma, diafana, vanescente figura del suo Alfredo, tutto ridente e gioioso.

E il sonno si protrasse assai quella prima notte di riposo. Evidentemente la natura troppo duramente provata, questa volta volle rifarsi di tante sottrazioni. Cosicchè si svegliò, quando già il sole, di molto alzato sull’orizzonte, versava nella sua stanza flotti di luce festosa. Atterrita d’aver mancato all’appuntamento datosi col figlio là nel piccolo cimitero di Nogent, si alzò e corse a precipizio, trafelata, in sussulto nervoso, convulso alla tomba d’Alfredo.

Millevoye che stava in attesa, dall’inconsueto ritardo potè subito rilevare che il colpo fosse riuscito; e n’ebbe conferma dal guardiano; ma coll’aggiunta che la sventurata donna non sapeva darsi pace del suo ritardo e riempiva l’aria di lamenti, ed era in agitazione e affanno da far pietà.

Un ultimo passo era indispensabile a colmare quelle ansie, a rendere più ragionevole quella misera; che avrebbe giovato quanto erasi così facilmente ottenuto se, nel più bello lo si comprometteva?

La seguente mattina, dopo una notte di sonno agitato per tema di lasciarsi sorprendere e non poter giungere più al cimitero innanzi allo spuntare del sole, la donna è già al suo posto di convegno. Ma quando getta il primo sguardo incerto sul tumulo tutto sparso di fiori rugiadosi, ecco notare l’amato candore d’un altro dei biglietti d’oltretomba. Con ansia trepida lo raccoglie e vi legge:

«Ai teneri accenti del tuo cuore, o madre mia, perchè oggi si mesce desolante senso, come di rimorso, e volgi in mente che fu colpa il ritardo a venir alla mia tomba col consueto tributo tuo di baci e fiori? Che importa l’ora, se al primo albeggiar, od al sorgere della rosata aurora, oppur quando sia già inoltrato il die? Il voto di quotidiano pellegrinaggio doloroso alla mia tomba, non era impegnativo di nessuna determinata ora. Purchè tu venga!...»

La donna si rialzò rasserenata, alleggerita; e prendendo frettolosa come sempre i perduti sentieri della boscaglia folta, si restituì alla sua casa.

Da allora, pur sempre fedele alla sostanza del suo voto, con un regime di vita più ragionevole, cominciò anche a riparare ai disastri patiti dalla sua salute. La natura, l’età, il tempo, che è buon medico, fecero il resto; cosicchè in breve volger di giorni venne a trovarsi pienamente ristabilita. Ma nonchè conoscere, mai venne tampoco a sospettare a chi doveva il miracolo della sua guarigione.

Dal canto suo Millevoye, non l’avrebbe giammai rivelato, nè per leggerezza o vanità, o per avanzare dei titoli di riconoscenza d’una giovane ed avvenente signora; bastavagli la soddisfazione del successo ottenuto, la consapevolezza di aver compiuto una buona azione.

Anzi, dacchè egli pure aveva riacquistato la sua salute, e da tempo e Parigi e gli amici e il lavoro lo aspettavano invano, decise di lasciare Vincennes per restituirsi alla capitale.


IL Prof. MERCALLI

Direttore dell’Osservatorio vesuviano

«Con regio decreto in data del 17 è stato nominato direttore dell’Osservatorio vesuviano, il professore don Giuseppe Mercalli, nostro concittadino, l’insigne vulcanologo, illustrazione della scienza europea.

«Vari erano stati i dibattiti nella commissione se dovesse prevalere il criterio di preporre al nostro istituto uno scienziato versato in fisica terrestre, piuttosto che in vulcanologia e mineralogia, ma infine ha trionfato il parere dei più che, dando il primato, senza [p. 38 modifica]graduatoria alcuna, nel concorso al prof. Mercalli, lo prepone a quell’ufficio a cui egli è più che ogni altro adatto.

«Il prof. Giuseppe Mercalli è nato in Milano nel 1850, studiò nei nostri seminari diocesani e, ordinato sacerdote, passò insegnante di scienze naturali nel seminario di Monza. Venne in seguito nominato professore nel liceo di Reggio Calabria e da molti anni copre la cattedra di storia naturale nel liceo Vittorio Emanuele in Napoli. Pur abbracciando con la sua mente acuta i vari rami delle scienze riguardanti la natura, in contatto frequente coi fenomeni vesuviani, egli si è specializzato in vulcanologia, di cui ha ottenuto la libera docenza nella Università di Napoli. Per incarico dell’accademia dei Lincei egli condusse con rigorosità di metodo ricerche interessantissime sui terremoti della Liguria e dell’Andalusia, raccogliendo una folla di dati scientifici e deducendone leggi che valsero a dare indirizzo più certo e più positivo allo studio dell’importante fenomeno tellurico.

«La scala per la misurazione grafica della intensità ed estensione dei terremoti, è una sua invenzione e si intitola da lui. Oltre alle pregevoli pubblicazioni d’indole scolastica egli ha dato alla stampa volumi di fama mondiale, tra i quali l’ultimo, edito dal nostro Hoepli, I vulcani attivi, e parecchie monografie interessantissime.

«Al concittadino nostro che tanto onora la scienza e il sacerdozio cristiano, le nostre vivissime congratulazioni, che volentieri estendiamo all’ottimo fratello don Gaetano Mercalli, prevosto di S. Maria Incoronata».

Fin qui l’ottima Unione e sta bene. Ma noi riteniamo opportuno aggiungere qualche nota caratteristica sulla carriera di don Giuseppe Mercalli, che fu nostro amico fin dalla giovinezza.

Egli, come l’illustre Taramelli, divenne geologo e vulcanologo sotto gli insegnamenti dell’abate Antonio Stoppani, il quale ebbe per questi suoi due distinti discepoli un affetto paterno.

Don Giuseppe Mercalli fu infatti professore nel Seminario Arcivescovile milanese, e lo fu in tempi difficili, quando ferveva gran lotta intorno al nome e alle dottrine del santo filosofo Antonio Rosmini. Il Mercalli, come lo Stoppani, era cultore e ammiratore profondo del grande Roveretano, e non esitò a dare pubblicamente il suo nome e la sua offerta per erigergli in Milano quel ricordo monumentale tanto contrastato. Allora avvenne ciò che in questi giorni, con quell’aura di pace che spira nei seminari milanesi, non succederebbe certamente: il prof. Mercalli, invitato a disdire la sua adesione rosminiana, si dichiarò solidale col suo amato maestro don Antonio Stoppani e venne dimesso dal seminario.

Tale espulsione dipese esclusivamente dal rettore Cassina, nome già noto per altri licenziamenti di altri chiari professori che si distinsero da seminaristi durante le famose Cinque Giornate.

«Il Rosmini — si diceva al Mercalli — ti porterà fortuna». E così fu. Sbalzato sulla strada da un giorno all’altro per una intransigenza, di cui oggi non si ha idea, Don Giuseppe Mercalli, mentre avrebbe potuto divenire una gloria dei nostri seminari con grandi vantaggi per il nostro clero, divenne il grande geologo e vulcanologo celebrato in tutto il mondo scientifico.


L’Enciclopedia dei Ragazzi spiega e insegna tutto divertendo.