Il buon cuore - Anno X, n. 20 - 13 maggio 1911/Educazione ed Istruzione
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Educazione ed Istruzione
DON BOSCO, MANZONI E ROSMINI
Il 16 settembre 1850 don Bosco avviavasi per la seconda volta a Stresa. Ve lo traeva, non tanto la conoscenza fatta con l’abate Rosmini, quanto il desiderio di conoscere meglio il regolamento e il metodo disciplinare di quella casa che era la casa madre dell’Istituto di carità, fiso ornai com’era di dar egli principio ad una Società ecclesiastica.
Giunto a Santhià verso mezzanotte, confessava il conducente della diligenza; quindi, toccato Vercelli e Novara, scendeva ad Arona. Aveva fatto disegno di recarsi a Stresa sul battello, ma all’ufficio della diligenza trovò il marchese Arconati suo amico e benefattore, il quale gli propose di lasciare la via per acqua e di salire sulla propria carrozza, e nello stesso tempo di fare una visita ad Alessandro Manzoni. Don Bosco accettò il cordiale invito; ed attaccati i cavalli in brev’ora giunsero a Lesa, ove il Manzoni si trovava in villeggiatura. Accolti con ogni cortesia, fecero il dejeuné col grande romanziere, il quale tra l’altro non mancò di mostrare al servo di Dio i suoi manoscritti infarciti di correzioni. Don Bosco non ebbe altro contatto col celebre scrittore fuori di questo, ma gli bastò perchè si persuadesse sempre più esser la semplicità nello scrivere frutto di lunghi studi.
A Stresa venne accolto con mille feste dal Rosmini e dai suoi religiosi, e vi dimorò alcuni giorni, avendo lunghi trattenimenti coll’abate, il quale nei disegni della Divina Provvidenza doveva essere uno dei suoi primi benefattori.
Verso la fine del 1850 si recò a Milano. Il Sommo Pontefice Pio IX aveva pubblicato uno straordinario giubileo per riparare i danni cagionati dagli odii, dalle guerre e dalle ribellioni, e D. Serafino Allievi, direttore dell’Oratorio di S. Luigi a Milano, aveva invitato don Bosco a predicarlo ai suoi giovani. L’invito era stato fatto d’accordo coll’arcivescovo mons. Romilli; ed anche il prevosto di S. Simpliciano, chiesa parrocchiale dell’Oratorio di S. Luigi, non solo aveva approvato quella deliberazione, ma con vive istanze da parte sua ne aveva rinnovato l’invito a don Bosco sperando di servirsi del suo ministero a bene della popolazione.
Il servo di Dio partì dunque da Torino il 28 novembre alle 2 pomeridiane e con viaggio non interrotto, passando per Novara e Magenta, giungeva a Milano all’indomani, alle 11 antimeridiane, dopo di aver molto sofferto pel moto della vettura.
I tempi correvano difficilissimi. Milano, dopo le famose giornate, sembrava sedesse sopra un vulcano ancora acceso. I liberali e le sètte avevan sempre rivolti i loro disegni alla Lombardia, aspettando e cercando l’occasione di scacciarne i tedeschi; i quali per altro spiavano i disegni dei congiurati; e di quando in quando gli arresti e le gravissime condanne per delitto di lesa maestà incutevano terrore ai cittadini. La polizia vegliava anche sul clero e sui predicatori, temendo che dal pergamo si facessero allusioni alla insurrezione di recente domata. Per questo i parroci esitavano a dar principio alle sacre missioni in preparazione all’acquisto del giubileo; e non c’era chi si azzardasse di salire in pulpito.
In queste circostanze don Bosco prendeva alloggio presso don Allievi ed annunziava al prevosto di San Simpliciano che era pronto a cominciare la predicazione in parrocchia. Ma questi, per suggestione forse di timidi consiglieri, aveva mutato parere, e gli osservò come altra cosa fosse predicare nell’interno di un Oratorio ed altra il predicare ad una gran folla in pubblica chiesa; per cui dichiarò di non poter permettere che si incominciasse quella missione senza prima parlare coll’arcivescovo.
— Oh, in quanto a questo ci penso io! — rispose don Bosco; e senz’altro si recò da mons. Romilli a chiedere la licenza.
Il prelato, che era ben accetto alla corte di Vienna, non gliela negò, sebbene cercasse sul principio di dissuaderlo. Vedendo come il servo di Dio fosse pieno di coraggio:
— Signor abate — gli disse — io non ho nulla in contrario, ma predicate sulla vostra responsabilità. Se vi accade disgrazia io non c’entro. Voi sapete che viviamo in tempi pericolosi.
— Ed io predicherò — rispose don Bosco — come si usava predicare cinquecent’anni fa.
— Siete in libertà, vi replico! — concluse l’arcivescovo. — Se vi sentite l’ardire, andate pure e predicate! Io nè ve lo comando, nè ve lo consiglio, ma ve lo permetto di buon grado. Ricordatevi però che la vostra prudenza, per quanto grande, non sarà mai troppa.
E don Bosco cominciò a predicare a S. Simpliciano. Fin dalla prima predica la folla accorse con una curiosità ed ansietà da non potersi descrivere. In mezzo a quelle febbri rivoluzionarie sembrava impossibile che uno potesse mostrarsi indifferente in politica. Ma che? Don Bosco predicava nè più nè meno di come avrebbe fatto un sacro oratore più secoli addietro. Con franchezza ed affetto invitava i peccatori a penitenza; ciò che era da dire per la riforma dei costumi lo esponeva senza ambagi, non badando a nessuno; ma quanto a quello che bolliva nel cuore del popolo e teneva desta la risoluta vigilanza del governo, non fece il minimo accenno e schivò qualunque paragone o fatto, pure antico, che avesse potuto essere giudicato, anche alla lontana, allusivo alle circostanze presenti. Si comportò insomma come se non esistesse nessuna questione politica e non fosse mai esistita.
Nessuna delle autorità ebbe a fargli la minima osservazione; chè tutti gli uditori trovarono nelle sue parole null’altro che la meditazione dei novissimi e le istruzioni sul modo di confessarsi e di comunicarsi. Milano fu meravigliata di un tal modo di predicare, a quel tempo.
Non aveva ancor finito questo triduo di due prediche al giorno in S. Simpliciano, che il 2 dicembre, lunedì dopo la prima domenica di Avvento, incominciava ad ore diverse gli esercizi spirituali nell’Oratorio di S. Luigi, che dovevano pur durare tre giorni. D. Serafino aveva raccolti a centinaia i suoi giovani, e don Bosco che tante meraviglie operava a Valdocco, egualmente attirava a sè i giovani di Milano. D. Serafino Allievi molti anni dopo ne faceva, noi presenti, cara testimonianza.
In quel frattempo vari rettori di chiese, assicurati che la predicazione del prete di Torino non solo non aveva dato il minimo pretesto, nè a disordini nè a violenze, ma era riuscita con gran frutto per le anime, lo invitarono alle loro chiese. E don Bosco acconsentì e predicò in S. Maria Nuova, in S. Carlo, e in Sant’Eustorgio, come ci affermò don Luigi Rocca che ne udì parlare dai suoi parenti e concittadini milanesi. Talora predicò una sola volta al giorno in alcuna delle chiese suddette, e tal’altra fece fino a cinque prediche al giorno in chiese diverse. Infatti, mentre predicava un triduo a S. Rocco, ebbe invito dai padri Barnabiti, di andare a dettare un corso di esercizi spirituali a Monza. Allora tra Milano e Monza vi era la unica ferrovia che si avesse nelle terre lombarde; e don Bosco partiva da Milano alle 10 e mezzo antimeridiane, predicava a Monza, e ad un’ora pomeridiana era già a Milano per la predica a S. Rocco. Grandissimo, ovunque, era il numero di coloro che correvano a confessarsi.
(Dall’Unione)
UN PO’ D’INFINITO
Con questo titolo, per cura del Circolo Sant’Alessandro M., si è pubblicato uno scritto giovanile del rimpianto e diciamo anche venerato prof. Contardo Ferrini.
Lo scritto — veramente prezioso — fu dedicato dal Ferrini: A Gerolamo e Paolo Mapelli — amici sempre più cari — coi quali ho diviso e divido — le gioie e i dolori di questa vita — e le speranze della futura. Porta la data del 1883 e contiene i tesori di un’anima santa. È diviso in cinque capitoletti, preceduti dai cenni biografici e dal ritratto dell’autore. In appendice trovasi una lettera per la prima comunione della sorella.
Sono pagine che suscitano nel lettore le migliori considerazioni sull’infinito, ravvivando le speranze nella vita futura.
Dal cap. II — L’attinenza delle creature intelligenti coll’infinito — spicchiamo la seguente pagina:
Ah! quante volte la povera vecchierella della mia montagna «che apprese a creder nel Figliuol del fabro ed ha conforto e lume in quella fede» potrebbe insegnare a voi e dire meravigliata le parole evangeliche: «Come! tu sei maestro in Israele e ignori queste cose?»
Donde tanto lume di Dio nelle anime sante, umili e semplici e senza farina di mondo, senza ingombro di libri — donde tanto sentimento di Lui? Quante volte stanco d’una lunga giornata di cammino sui monti, assiso all’ombra d’un abete che mi difendeva dal sole cadente, ho ragionato col pastore delle Alpi, colla povera donna, figlia della montagna! E ogni volta fui meravigliato e confuso: tanta era la sapienza della vita, tanto il senso della Provvidenza divina, tanto bassa la stima delle cose terrene, tanta la pace intima e il gaudio d’una vita intemerata!
Dio parla loro dalla cima nebbiosa del monte, dal fragore del torrente montano, dall’orrore della rupe scoscesa, dal candore delle nevi perpetue, dal sole che investe la chioma dell’abete vetusto e la natura vive animata dal soffio onnipossente di Lui, sorride del gaudio di Lui, s’oscura per l’ira di Lui, in mezzo alle mille vicende giovane ancora, com’è perennemente giovane il sorriso di Dio. È giovane lo spirito che vive per Lui per l’ardore della carità, la forza de’ propositi, la non turbata letizia....
Quanto infinito in quella vita che si nasconde in quella mal composta capanna, fra quelle candide greggie, fra quelle cime solitarie di monti.
Quanto infinito in quella madre solerte che educa le generazioni venture e perpetua l’opera di Dio, onoranda per un sacerdozio nobile ed efficace — in quella venerabile canizie che narra ai nepoti le uniformi vicende di una vita lunga e povera, ma degna e intemerata, in quel pudico rossore di volto della giovane sposa che sale al santuario della sua montagna e trepida invoca Maria l Oh! lasciatemi ripetere quella gioconda parola! Quanto bene che c’è nel mondo, quanto il Signore ha prediletto gli umili tra i figli suoi È terribile verità, quella scienza che parrebbe la strada all’infinito non lo scorge, se non è fondata nella più semplice umiltà, ma travia e delira. Se alcuno de’ nostri grandi ha inteso e sentito Dio, guardate se fu nell’arido studio di astruse questioni o fu piuttosto in un’ora mattutina davanti agli altari di Dio — o al tramonto quando l’ultimo raggio di sole o il pio raggio della sorgente luna cadeva sulla mite imagine di Maria e un uomo prostrato in dolce e confidente preghiera.
Quando lessi ne’ volumi del grande Roveretano così eccelse e nuove verità, ne ho ringraziato il Signore: l’eremo di Domodossola, il cilicio e la cella di Rovereto, la chiesuola di Stresa, m’hanno rivelato l’arcano. Ond’è che fu pio e gentile e verace pensiero quello del nostro Vela che la soave effigie di lui scolpì in quell’attitudine abituale di raccolta e dolce preghiera — e il pellegrino che sale il monte di Stresa ammira commosso quella nobile scoltura che gli parla così solennemente e benevolmente di Dio.
E così in quella solitudine stresiana si compendia il poema della scienza e della fede, della filosofia e della carità: e fu pietosa idea de’ figli memori l’erigere sì cospicuo monumento che quel poema ricordi ai venturi.... onde sempre le anime generose sappiano trarne conforto ed ammaestramento. E mite par sorridere il sole a quel sacro recinto — e il vento che investe la selva vicina, e il mormorio dell’onda del lago paion ripetere al peregrino: Sursum corda!... Felice quella riva del lago testimone degli intimi colloqui di quel sommo con Alessandro Manzoni, anima benedetta di mille benedizioni! Oh! chi mi ridice alcuna di quelle preziose parole di quei due supremi intelletti, i più grandi dell’evo moderno! Ricordo un letto di morte e sorridente il volto del moribondo — «sono nelle mani di Dio, dunque sto bene»; così l’animo virgineo del grande filosofo al sommo poeta, mentre la mano che dettava la Teosofia stringeva quella che aveva scritto gli inni sacri!
Quel momento fu breve e non lo dimenticheremo mai, e finchè l’onda del Verbano si romperà contro lo scoglio deserto, si parlerà ai nepoti di quel dramma di fede. Tale è dunque la divina economia di questo mistero: la strada all’infinito è l’umiltà, la virtù più accessibile a tutti, ed anzi specialmente a coloro che noi meno stimiamo. Il povero tapino che i laceri cenci non proteggono dal vento invernale, saprà, se virtuoso, innalzarsi a Dio con un’abitudine di santi pensieri e con una vita di umiltà e di rassegnazione. Il colpevole pentito de’ molteplici gravissimi errori, troverà nel suo stesso rimorso la strada a Dio e s’innalzerà tant’alto quanto il giusto superbo della sua giustizia non potrà mai. Ed è questo ben ragionevole. Che cos’è infatti l’umiltà se non la verità, la pura verità, la sola verità? Che altro c’insegna la natura, l’esperienza, la ragione? Come non potrà arrivare al vero non solo speculativo, ma pratico colui che fa regola d’ogni sua azione e d’ogni sua pensiero la verità? Come non s’attirerà la compiacenza di Dio l’anima che si ripone al proprio posto, che trema al pensiero di togliere qualche cosa alla gloria del Creatore, che con una sublime abnegazione di ogni momento respira una giustizia perpetua? Il povero vecchio volge lo sguardo al cielo stellato e il suo pensiero trasvola quelle sfere celesti — la povera vecchia che a stento si salva dalla vettura che mena i gaudenti del mondo, non ha un’imprecazione, non un sentimento d’invidia, forse un senso sublime di pietà — il cieco languente a cui vien negata la tenue moneta avrà la sua preghiera anche pel turpe giovinastro che pasce gli occhi di mille iniquità. A questi il mondo non pensa; eppure questi hanno inteso la vita, perchè hanno come intuito un ordine superiore di Dio, si sono innalzati all’infinito che ha loro spiegato il finito — causa causarum. Che ne sà in confronto il tronfio filosofo? Lui che semina dottrine funeste, gravide di immoralità, di sconforto, di dubbio e di disperazione!
Ell’è antica dottrina: i genii del male dicono forse.
Nella loro superbia fanno sè stessi norma e centro; l’infinito s’annebbia e lo confondono col finito, colla veduta corta d’una spanna chiamano Dio al loro sindacato. Credettero essere sapienti ed erano stolti!
Ad un di costoro cresciuto lassù fra l’orgoglio germanico, parve stupenda idea l’equazione fra sè e l’infinito e sclamò con grande compiacenza: Ho trovato! L’infinito sono io, io son Dio!
Quando la povera vecchierella, che a stento legge il libro di preghiere, implora a Dio la conversione d’un filosofo incredulo, che s’accosta stupidamente, insensibile all’eternità, e chiede a Lui di mandargli il suo spirito di sapienza, quella povera vecchierella commenta senza averlo letto il primo capo dell’Epistola ai Romani! Povera nonna! si parlava a lei di un uomo dottissimo e celeberrimo — ed essa chiedeva se usava alla chiesa. Uno stolto l’avrebbe derisa, ma avrebbe deriso la parola di Paolo: «Se io parlassi le lingue degli uomini e anzi degli angeli e non avessi la carità, io non sarei altro che un bronzo che rimbomba e un cembalo che risuona!» Sia lode pertanto a Dio. E l’infelice deriso e il tapino derelitto si riempiano di gaudio e inneggino a Lui.
Tutto è vanità, spine e rimorsi la vita, tranne che l’elevarsi a Dio, tutto è miseria tranne che il riposarsi nel Signore. Essi sono chiamati i primi a questo regno di giustizia, di pace e di gaudio e vengono con quella grata esultanza che conforta e rasserena, con quel de. siderio all’eternità che compensa tanta cecità di mondo, con quella purezza di cuore che predica l’infinito.
La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.
IL LECCIO
- La fiera lotta contro caldo e gelo
- precoci rughe sul tuo tronco ha impresso;
- tarchiato e saldo sei, ma dritto al cielo
- non vai tu, leccio, come fa il cipresso.
- Ei sale e sale, il lungo crin raccolto,
- del suo trionfo è tutto preoccupato,
- ogni delizia d’ombre all’uomo ha tolto;
- pensando a sè degli altri s’è scordato.
- Ma tu la bruna chioma hai sciolto ai venti,
- verso la terra pieghi i lunghi rami
- perchè temprin del sole i raggi ardenti
- allo stanco viator che sostar brami.
- La folta chioma il tuo vigor contende
- alla cruda stagion, ed essa accoglie
- qualche sperduto augel e lo difende
- fra le piccole, ovali e liscie foglie.
- Lasci cader le ghiande ad una ad una,
- che al mite gregge doneran ristoro
- quando tranquillo al piede tuo s’aduna
- facendoli goder del tuo lavoro.
- A te la pecorella si confida,
- a te palesa col mesto belato
- che gente cruda, insidrosa, infida
- il caro agnel dal fianco le ha strappato.
- In primavera le tue ricche fronde
- del merlo son dimora preferita,
- il suo amore, il suo nido vi nasconde
- e con trilli e gorgheggi a te dà vita.
- Si rallegra il tuo cor, leccio severo,
- quando l’ospite alato fa ritorno:
- diviene il tuo sembiante meno austero
- se: «Bene mio ti vedo» echeggia intorno.
Samarita.
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