Il buon cuore - Anno X, n. 21 - 20 maggio 1911/Educazione ed Istruzione

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LEVERRIER, LO SCOPRITORE DI NETTUNO


Uno Scienziato credente


Ricorreva giorni sono il centenario della nascita di Urbano Gian Giuseppe Leverrier, la massima gloria dell’Osservatorio di Parigi, uno fra i maggiori astronomi del secolo XIX, sulla memoria del quale s’intrecciano, mirabilmente, luce di scienza e splendore di fede. Nella piccola corte d’ingresso dell’Osservatorio che fu suo c’è ora una bella statua marmorea che era destinata a una delle piazze della metropoli e che il municipio di Parigi volle invece relegata nel suo santuario. Al Leverrier non bastava di essere stato lo scopritore di Nettuno, di aver custodito e alimentato straordinariamente le gloriose tradizioni dell’astronomia francese: una colpa non perdonabile lo rendeva indegno, secondo gli amministratori parigini, dí sostare nella libera e sonante strada della città moderna e profana: egli era cattolico e cattolico fervente, senza paure, senza infingimenti, con una grande fierezza della sua fede, anzi.

E il Municipio volle relegarlo, eloquentemente, nell’Osservatorio che fu suo e che egli tramutò in santuario di scienza e di fede: nel gabinetto di osservazione e di lavoro, nel quale fino a poco tempo prima aveva studiato e meditato l’Arago, Urbano Leverrier volle porre, religiosamente, il Crocifisso. E due cose egli si compiaceva di additare con orgoglio, nella sua piccola fortezza celeste, il grande telescopio a rifrazione — il migliore del mondo — e l’immagine di Cristo.

Egli succedeva all’Arago, un grande scienziato che non ebbe la fede ma che della fede serbò la nostalgia infinita: prossimo a morire, aveva risposto, a chi gli chiedeva dei supremi destini: — Il problema dell’infinito mi ha sempre spaventato! — ; e quando l’Accademia delle Scienze aveva tentato l’ostracismo contro un altro celebre astronomo, l’Abbadie, accusato,... d’essere cattolico, egli aveva parlato eloquentemente in favore della sua ammissione, affermando che non era competenza degli accademici discutere e valutare le opinioni religiose del candidato: in quanto a me — aveva concluso l’Arago — io invidio coloro che credono!

A questo agnostico succedette un uomo di fede viva, il Leverrier, che doveva illuminare colla sua coscienza cristiana una lunga operosità assidua e vittoriosa.

Leverrier era nato l’11 marzo 1811 in Saint Lò, e dopo gli studi preparatori nel suo paese nativo e poi a Caen, entrava nella Scuola Politecnica di Parigi nel 1831. Sempre fra i primi del suo corso, si distingueva per la svegliatezza dell’ingegno e per la franchezza adamantina del carattere. La sua vocazione all’astronomia si manifestò solo quando accettò di essere ripetitore di questa disciplina nella Scuola Politecnica; ma fin dai primi passi egli si rivelò per un vero genio. Le sue prime ricerche ebbero per oggetto la stabilità del nostro sistema solare, che egli completando studi anteriori, dimostrò assicurata. Anche il barone Cauchy sommo matematico e cattolico fervente si occupò di questa ricerca, ma sotto un altro aspetto. Si sarebbe detto che l’uno e l’altro cercassero in questa stabilità una prova di una Mente creatrice e ordinatrice. Queste ricerche condussero Leverrier a concepire il disegno di un immenso lavoro, quello della teoria dei pianeti principali, opera alla quale ei consacrò si può dire tutta la sua carriera, giungendo ad innalzare un monumento che forma l’ammirazione degli astronomi, sopratutto ove si rifletta che egli lavorò quasi sempre da solo, perfino nei particolari dei calcoli.

Ma questo grande astronomo è celebre sopratutto per la scoperta del pianeta Nettuno, fatta da lui non col canocchiale, ma coi calcoli. Da un pezzo gli astronomi constatavano che non era possibile elaborare una teoria dell’ultimo dei pianeti allora conosciuti, Urano (scoperto da Guglielmo Herschel) perchè le osservazioni contraddicevano ai dati teorici. Più d’uno sospettava che queste anomalie fossero dovute ad un altro pianeta più lontano da noi e ancora ignoto. Qualcuno aveva cominciate ricerche per tentare di assegnare il posto dove questo perturbatore doveva probabilmente trovarsi. Un giovane astronomo inglese, l’Adams, aveva perfino abbozzati gli elementi dell’orbita di questo pianeta ignoto, ma le sue ricerche erano state accolte con diffidenza e non videro la luce. Finalmente Leverrier il 18 settembre 1846 scriveva all’astronomo tedesco Galle, celebre osservatore di pianeti, indicandogli la posizione dove, secondo lui, avrebbe dovuto trovarsi il pianeta ignoto. Galle il 23 settembre, giorno in cui gli giunse la lettera di Leverrier, rinveniva effettivamente in cielo, nel posto indicato, un nuovo astro dotato di moto proprio, era il lontano pianeta Nettuno. La divergenza fra il luogo teorico di Leverrier e il posto effettivo del pianeta era di solo 52 minuti di arco. Perfino il diametro apparente era vicino a quello indicato da quel profeta dell’astronomia.

Ma la conquista di Nettuno che per la sua singolarità del procedimento matematico valse all’astronomo una rapida e grandissima fama facilmente apprezzabile anche dai profani, non è secondo i competenti — la maggiore conquista assicurata da lui al progresso delle scienze: poichè si deve a lui, al suo eccezionale temperamento di matematico e di lavoratore, la nozione esatta della teorica di tutti i vecchi pianeti.

Fin dal 1839 egli inizia la serie dei computi astronomici col calcolo numerico delle perturbazioni delle orbite planetarie da centomila anni avanti Cristo a centomila anni dopo; negli anni 44-47 dopo le celeberrime indagini attorno ad Urano e la conseguente scoperta di Nettuno, condusse a termine lo studio di alcune comete circolanti intorno al sole tracciandone la storia, per mezzo di calcoli enormi, e delineandone, anticipatamente, il segno delle orbite; nel ’49 annunciò di rivedere tutte le tavole il “progetto gigantesco” di rivedere tutte le tavole planetarie e di rinvenirne i sottili errori che ne alteravano i calcoli: e solo le revisioni matematiche di [p. 166 modifica]Mercurio, di Venere, della Terra e di Marte gli costarono venti anni di lavoro.

Una mole così colossale di fatiche, voleva una fibra eccezionale e una energia singolare: e Urbano Leverrier, infatti, lavorava quotidianamente fino a notte alta; l’alba appena gli concedeva brevi riposi.

E il lavoro lo fiaccò: la salute ne ebbe a risentire conseguenze gravissime, ed una dolorosa irritabilità gli corrose l’anima e i nervi. Preposto alla direzione dell’Osservatorio, non apparve la persona più adatta a questo ufficio: e cogli inferiori, coi superiori, col governo, con tutti, talvolta, si addimostrò di una strana, inesplicabile asprezza. Quando Mac Mahon gli mandò a dire un giorno di preparare l’Osservatorio ad una visita dello Scià di Persia egli rispose, causticamente, con un rifiuto apodittico: — Maresciallo, rispose, la scienza non fa lume ai selvaggi!!!

Morì nel 1877, non vecchio, colla forte fibra spezzata dal lavoro ciclopico: «In lui — disse il Tresca all’Accademia delle Scienze — sulla morte di lui si vedrà non senza commozione che lo studio del cielo e la fede scientifica non avevano fatto che consolidare la fede viva del cristiano.»

Il 5 giugno del ’76 Leverrier mandò all’Accademia l’ultimo fascicolo della sua grande opera con le tavole di Giove e Saturno: «Durante questa lunga impresa perseguita per trentacinque anni — egli disse — ci fu necessario sostegno una delle più grandi opere della creazione e il pensiero che essa veniva confermando in noi le verità imperiture della filosofia spiritualista.»

Fu il suo commiato: il saluto della sua fede e della sua vita operosa. Di lui potè dire un altro grande scienziato spiritualista, segretario, allora, dell’Accademia scientifica, il Dumas: «Egli, scrivendo l’ultima parola dell’ultima pagina della sua opera immortale, potè all’ultima ora di sua vita, mormorare piamente: Nunc dimittis servum tuum, Domino

ALLA MOSTRA DI CASTEL S. ANGELO


(Continuazione e fine, vedi n. 19).


— Vedano, questa è la carcere del Cellini, che essendo esso grande artista gli fu concessa anche un’altra camera dove disegnava. Quì c’è luce; perché queste carceri non sono sotterranei essendo il loro livello più alto dello stradale....

Il borghese visitatore respira....

— Ma questa è la peggiore carcere di Castello; è quella dei condannati a morte; ha una specialità: ci manca l’aria e la luce. Era un silos, cioè un granaio, ma nel 600 fu ridotta a prigione; ci rinchiusero Stefano Porcari....

Guardo spaventato il custode: sta bene.... Ma la luce ne sospinge: ed è luce di primavera romana, fuori, in alto: c’è un ampio cerchio di meraviglie che cinge il castello: un giro di loggie e di loggiati corona la massa romana e medioevale della fortificazione, attorno al maschio, salutato dall’angelo; il corpo ciclopico della mole s’ingentilisce in alto, in un ricamo squisito di Rinascimento; le feritoie, gli spiragli si spalancano, inarcandosi, in loggie, in balconi, in terrazzi, su Roma, sul cielo di Roma....

È una visione magnifica: il loggiato di Pio IV è la più meravigliosa mostra del mondo: una fuga di archi ci spezza e ci ricompone il panorama dell’Urbe in una mirabile vicenda di trittici congiunti in giro, nell’ambulacro: il Quirinale, il Pantheon, il Campidoglio, un trittico che non ha confronti. E poi, ancora, più lontano, in archi spezzati, due trionfali cupole romane, S. Agnese, S. Andrea: due trionfi in una sola cornice; e più lontano, una fascia d’arco, appena, su cui domina un cielo d’oro, e un verde cupo, acceso: il Gianicolo.

Le salette erano nè più nè meno che prigioni colle volte in chiave, decorate: oggi raccolgono piccole mostre di ceramiche, di cristalli, di disegni pinelliani, di piccola scultura napoletana: sono collezioni elementari, non sono materiali sufficienti per una esposizione vera propria: sono la suppellettile del Castello di Roma: niente altro.

Perchè la grande e mirabile esposizione è qui, in questa mole che fu tomba e fortezza, restituita — grazie al lungo ed operoso affetto del colonnello Borgatti, ideale e perfetto castellano moderno — alla purezza delle sue linee, alla squisita nudità delle sue fibre. La sommità del maschio, che è il diadema finissimo del Castello, era fino a poco tempo fa circondata di casette di casupole lietamente godute da caporali e da soldati in riposo.... Perché Castel Sant’Angelo è rimasto fino al 1905 caserma, galera e prigione militare.

Negli appartamenti pontifici che occupano il piano superiore del maschio, si raccolgono luci e silenzi regali: il contrasto vi conduce da una prigione oscura ad un loggiato severo ad una vicenda di sale sontuose: la furia delle armi e degli armati dava tregua, di tanto in tanto, alle delizie dell’arte; e non ci fu artefice, ospite di papi generosi, che non deponesse, passando, fiori di bellezza su questo ferreo cuore di Roma: Nicolò V, con Rosellino, Callisto III col Coccola, Innocenzo VIII e Sisto IV con Baccio Castelli, Alessandro VI con Sangallo il Vecchio, Giulio II con Bramante, Leone X e Clemente VII con Michelangelo, Paolo II con Castriota e con Sangallo il Giovine, Paolo IV con Orsini e Sarvegnano, Urbano VIII con Rossi, con Bernini: l’ingegneria militare s’intreccia all’architettura aulica, alla decorazione sontuosa, alle morbide tessiture damascate.

Hanno disposto quassù una collezione d’armi, di stoffe bizantine ed umbre, una magnifica sala michelangiolesca: con abbozzi, ricordi, documenti di scuola dell’artista grandissimo: sulla sommità della mole, i ricordi del colosso; e dalle finestre, il miracolo di lui, la cupola di San Pietro.

Due ultime stanze, ancora, di Paolo III: un gran nitore di marmi e d’oro, una solennità regale nell’altezza della volta grande a cassettoni romani: e siamo sulla estrema torretta di un castello, di una fortezza, di un sepolcro, di una galera!...

[p. 167 modifica]Pochi gradini, infatti, conducono sul grande loggiato superiore e l’apoteosi della mole secolare e della sua Roma: la vastità varia e sinfonica della visione romana la si percepisce di lassù, in tutta la sua viva e colorita immediatezza: il panorama non appare lontano, non si perde nell’evanescenza dell’azzurro iridato; voi siete in alto, sulla città, ma nella città, ancora; sorgete dalle membra vive di lei: e riguardando giù, il ponte Sant’Angelo che sbocca nel cuore della vecchia Roma affollata, voi vedete la saliente vicenda di angioli che, ascendendo, sembra congiungersi lassù, al maggiore fratello maggiore trionfatore, all’Arcangelo bronzeo coronante il mausoleo.

Un’ascensione d’angeli si leva su Roma grande: i sette colli, I’ Esquilino lanciante in alto le torri di Santa Maria Maggiore, il Campidoglio che lascia sorprendere il candore di una mole novissima, il Celio umile e superbo nel cupo verde annoso, il Palatino coi ruderi imperiali, il Gianicolo silente, ospite fiorito dei tramonti romani di primavera: e sui tetti, sui comignoli bassi, sui colli, la grazia delle nostre cupole, deposte come diademi votivi. A sinistra, sola, sul cielo, e color di cielo, la cupola di San Pietro.

L’Arcangelo bronzeo, l’ultimo di una avventurosa serie di predecessori, commemorante la tradizionale visione che a Gregorio Magno rivelò sul cielo della fortezza romana, la tregua desiderata di una fiera pestilenza, appare finalmente, bello e grande nella sua drammatica concitazione: egli, d’un gesto rapido e forte, ricaccia la spada vendicatrice nella vagina di bronzo....

Un tramonto primaverile? Lo attendevo da tanto tempo, ma le pigrizie e gli sdegni di questa capricciosa primavera romana e.... cinquantenaria sono davvero singolari, quest’anno....

Una fuga di cirri d’argento solcava, contro ponente, il nostro cielo; un dramma di luce s’era adempiuto lentamente nel pomeriggio incostante: i colossali stendardi fiammanti della città leonina non avevano dato fervori di saluto al vento vittorioso; non un pavese, non un vessillo, sulle antenne: ma il cielo purissimo sulla torre alta che il bel latino dell’alto medio evo chiamò «torre fra i cieli», Turris inter coelos....

Un trionfo di primavera, sul tramonto romano: e il trionfo salutato dal gesto magnifico dell’Arcangelo cavaliere che sulla dolcezza incomparabile spezza la spada adamantina di una iracondia divina.

Egilberto Martire.


ECHI E LETTURE



Il maestro elementare non è invenzione moderna; e non sono neanche recenti le lagrimevoli istorie del suo stato civile ed economico! Anzi, a sentire i ricordi del passato c’è da sorridere di consolazione. Perchè non era una sinecura l’essere maestri di scuola in Francia ai tempi dell’ancien régime. L’intermédiaire des chercheurs et des curieux pubblica il contratto col quale un certo Hyves accettava nel 1764 il posto di maestro di scuola a Lavilledieu. Egli s’obbligava a recarsi «pronto e diligente a tutti gli uffici divini, in modo che il signor curato e i parrocchiani non ne rimangano malcontenti.» E doveva risponder messa al curato e agli altri preti uffizianti nella parrocchiale; suonar l’«Angelus» tre volte al giorno e la campana per la tempesta appena le nubi grandinifere comparissero all’orizzonte; curare la manutenzione della chiesa e spazzarla ogni sabato e tutte vigilie delle feste comandate; rimontare l’orologio del campanile e finalmente occuparsi dell’istruzione dei giovani. Nel 1810 Antonio Arnu diventava maestro di Chevigney-surl’Ognon, obbligandosi oltre che a tutti i servizi religiosi, anche ad impedire ai cani di entrare in chiesa e al bestiame di brucar l’erba nel cimitero, a scavar le fosse e seppellire i morti. In compenso e a patto di procurarsi un locale conveniente per l’istruzione, doveva avere sei soldi per ogni allievo al quale avesse insegnato a leggere, otto soldi per la lettura e la scrittura, dieci per la lettura, la scrittura e l’aritmetica.

Ego sum hos campi1



A mio fratello ACHILLE.


La celeste visione
che viva balenava al tuo pensiero,
con quale suggestione
e dell’arte superbo magistero,
amato mio fratello,
sulla tela ritrasse il tuo pennello!
mirando quella scena
sente l’anima mia farsi serena:


Sotto ridente cielo
della Vergine-Madre la figura
söavemente pura,
coperta il capo d’un azzurro velo,
come tra i gigli un giglio
appare in mezzo a un prato
di fiori candidissimi smaltato.
Sovra dell’erba assisa,
tiene sulle ginocchia il divin figlio
e la pupilla lisa
beatamente ell’ha nel suo poppante.
Prostrata a lei dinante
sta d’angeli vaghissimi una schiera;
chi in atto di preghiera
chi d’estasi infinita
della dolce Madonna al casto volto
il guardo tien rivolto;
e, quale strano incanto!
dalle angeliche labbra non più udita
mi sembra esca celeste melodia,
un armonioso canto
che dice: Ave Maria.

Oreste Beltrame.

  1. Quadro del pittore Achille Beltrame all’«Esposizione triennale di Belle arti», in Milano.