Il buon cuore - Anno X, n. 29 - 15 luglio 1911/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Pio IX padrino di Maria Pia

Due lettere di Vittorio Emanuele II al Papa

La rosa d’oro alla duchessa di Savoia

Maria Pia di Savoia nei Braganza ebbe a padrino di battesimo Pio IX. L’accettazione del Sommo Pontefice, in cui s’appuntavan le speranze dell’Italia, di levare al sacro fonte il figliuolo che stava per nascere al principe ereditario, Vittorio Emanuele duca di Savoia, fu partecipata a Re Carlo Alberto da monsignor Corboli-Bussi inviato dal Santo Padre a Firenze prima e poi a Torino per ottenere da quelle due corti l’assenso alla progettata lega doganale. E Vittorio Emanuele così ne esprimeva al Papa la sua riconoscenza, con lettera data da Torino, 16 settembre 1847: «Beatissimo Padre: Il re, mio carissimo padre, venendomi di dare la consolante notizia che Vostra Santità si degnava di esser padrino del figlio che deve nascermi fra breve; colmi di gioia, mia moglie ed io, ci facciamo una gran premura di porre ai piedi di Vostra Santità i nostri ringraziamenti per un sì esimio favore; favore che, son certo, farà scendere le benedizioni del Cielo su quel figlio e sopra questa casa tutta, che da secoli è così devota alla Santa Chiesa, che nutre così rispettoso affetto per lei, Santo Padre. Degnisi, beatissimo Padre ecc.».

Pio IX rispondeva il 9 ottobre seguente:

«Con molta soddisfazione dell’animo nostro abbiamo assunto l’ufficio di padrino del figlio nascituro di V. A. e dell’augusta sua consorte. Questo vincolo spirituale stringerà sempre più la unione fra la Santa Sede e la piissima casa di Savoia, che si è sempre distinta pel suo filiale affetto verso i romani pontefici».

La figliuola, nata il 16 ottobre 1847, venne tenuta al battesimo; in nome di Pio IX, dal Nunzio pontificio in Torino. Quel giorno stesso il principe ereditario duca di Savoia scriveva al Sommo Pontefice una nuova lettera di ringraziamento che chiudeva così: «Permetta, Santo Padre, che uno dei figli più affezionati che abbia la causa di Santa Chiesa, per cui darei non una ma mille vite, se le avessi, abbia la fortuna di baciarle il sacro piede».

Pio IX inviava poi all’augusta puerpera, la duchessa Maria Adelaide figlia dell’arciduca Ranieri d’Austria, la rosa d’oro — l’ultima conferita ad una principessa di casa Savoia — e la consorte di Vittorio Emanuele ne rendeva grazie il 12 dicembre 1847 nei termini seguenti:

«Mi permetta di deporre ai piedi della Santità Vostra i più umili rispettosi sensi della divozione che nutro verso di lei, Santo Padre, unitamente a quelli della più sentita, più viva riconoscenza, per l’insigne favore che la S. V. degnossi. concedermi, nel mandarmi, pegno sì distinto della di Lei bontà. La Rosa d’oro, rimessami quest’oggi da monsignor Santucci; mi sarà sempre preziosissima memoria della di lei benevolenza, Santo Padre, ed a noi tutti nuovo eternamente caro pegno della di lei bontà, sicura che sarà pure sorgente di benedizioni a questa casa tutta, ai nostri figli, ai quali sarà sempre di caro ricordo di quel favore sì grande, che noi tutti colmò di gioia, allorchè degnossi, Santo Padre, tenere al sacro fonte la bambina che Iddio, nella sua misericordia, ci ha data. Sarà mia cura, Santo Padre, cercare di educarla, colla sorella e i fratelli, in quei sentimenti che sempre più renderanno la nostra famiglia devota di cuore alla Santa Sede».

La parola fu mantenuta. Cresciuta alla scuola della genitrice, continuata poi dalla sorella maggiore Maria Clotilde che al letto di morte di Maria Adelaide aveva promesso formalmente di far da madre ai fratellini ed alle sorelline, Maria Pia cercò di mantenersi fedele alle tradizioni avite. Essa sbarcò appena appena quindicenne, a Lisbona l’indomani, si può dire, delle energiche rimostranze fatte da Pio IX, con una memoranda enciclica ai vescovi portoghesi per le condizioni miserrime in cui trovavasi in quel regno la Chiesa per la nessuna opposizione fatta alle prepotenze parlamentari e governative; di lì a non molto però s’ebbe qualche miglioramento, sebbene di gran lunga insufficiente; a tale miglioramento, insieme col ricuperato vigore dell’episcopato concorse anche l’influenza della sovrana.

Quanto alla rosa d’oro, se non erriamo, l’ultima da Leone XIII conferita fu alla regina Amelia di Braganza-Orléans, nuora di Maria Pia: fin qui sotto Pio X non v’ebbe una occasione a simile onorificenza.

Il matrimonio di Maria Pia con Luigi I di Portogallo rappresentato dal principe di Savoia Carignano — nella cappella del palazzo dell’arcivescovo di Genova mons. Charvaz — già precettore di Vittorio Emanuele II assistito dai vescovi di Biella, di Pinerolo, di Alife e di Cremona. Era quest’ultimo mons. Novasconi, nominato senatore del regno. Prima di lasciare Torino Maria Pia aveva ritenuto suo dovere di partecipare le sue nozze al Papa Pio IX e spedì a Roma, latore di sua lettera, l’abate Stellardi. Il 19 settembre lo Stellardi era già di ritorno recante un dono consistente in un album coperto di pietre preziose, il quale nel primo foglio aveva un autografo del Papa e due stupende incisioni, rappresentanti, l’una la Vergine, l’altra un Ecce Homo.

Nel febbraio del 1873 la corte dei Braganza aveva ospitato per alcuni giorni, a Lisbona, una famiglia reale, in volontario esilio innanzi la rivoluzione, o per meglio dire, rientrante in patria. La famiglia di Amedeo di Savoia, fratello di Maria Pia, il quale per pochi mesi aveva cinto la corona di Spagna. Al fianco di Amedeo era allora una principessa dal cuore magnanimo, la cui memoria perdura tuttavia in venerazione: Maria Vittoria della Cisterna, la madre degli attuali duca d’Aosta, conte di Torino e duca degli Abruzzi. [p. 228 modifica]

IL DUCA DEL MONFERRATO


Con Maria Pia son scesi nel sepolcro tutti i cinque figli di Re Vittorio Emanuele e di Maria Adelaide arciduchessa d’Austria. Di Re Umberto, di Amedeo e delle due principesse teste defunte il pubblico ricorda la carriera e le doti; non così del priicipe Oddone ch’era il terzo genito dei figli maschi, nato in Torino l'11 luglio 1846, morto nel palazzo reale di Genova la notte del 21 al 22 gennaio 1866. Egli era religiosissimo di mente e di cuore; di costumi illibati: «quanto a pietà e carità cristiana — così un periodico dell’epoca (Civ. Catt. del 3 febbraio 1866) — continuava, può dirsi, a vivere in lui la sua madre Maria Adelaide». D’indole molto mite, d’ingegno perspicace, amantissimo dello studio, coltivando accuratamente le scienze e in ispecie le matematiche, appassionato per la marina in cui rivestiva il grado di ufficiale, favoriva a tutto potere le arti belle, era tutto carità per i poveri. Aveva divisato di fondare nella villa di Cornigliano una casa destinata ad accogliere, pei bagni di mare, gli scrofolosi indigenti. La gente sua lo chiamava a la gemma di casa Savoia a. Commoventissima è la pastorale con cui l’arcivescovo di Genova mons. Charvaz, ordinando pubblici suffragi, ne commentava le virtù cristiane esercitate, «in mezzo a gravi e lunghe opere che fecero della sua vita quasi intera un continuo martirio».

Nel libro, nel nostro giornale già sovente citato, del sacerdote conte Nicolis di Robilant, sulle memorie del canonico Gazelli, ex elemosiniere di corte, è detto del principe Oddone, che «erede del rachitismo dei Lorena, introdotto da Maria Teresa (la consorte di Carlo Alberto, nella casa di Savoia, era pure il principale erede delle virtù di Maria Adelaide; la scuola del dolore e la corrispondenza alla grazia aumentarono in lui le doti naturali, sì che sotto la guida del Gazelli salì ad altissima perfezione».

Re Vittorio amava il figlio gobbetto d’amore sviscerato. Morto, lo pianse a lungo. Ed a qualunque povero incontrasse per strada che nelle membra disgraziate ricordasse il figliolo prediletto, largiva elemosina generosa.

Anche la salma del principe Oddone riposa a Superga.

L’Eroe di S. Quintino


In quest’anno fatidico in cui il cuore d’ogni italiano esulta di una gioia comune, in cui il bel ciclo d’Italia vibra d’una stessa nota, in cui l’eco delle manifestazioni patriottiche echeggia per ogni dove... ho pensato di rammemorare alla mente dei cortesi lettori un personaggio che colla sua nobiltà d’intendimenti, di propositi, di saviezza, di consigli, forza di braccia, prodezza d’animo, seppe far sorgere in Piemonte una milizia che accresciuta dai suoi successori fu poi il fondamento della grandezza della gentile e magnanima dinastia di Savoia e del nazionale risorgimento.

L’alba dell’8 luglio 1528 fu salutata dai cittadini di Chambéry con cento colpi di cannone, mentre le campane suonavano a festa per il felice evento della nascita di Emanuele Filiberto primogenito del Duca Carlo III e della Principessa Beatrice di Portogallo.

Dal padre non ebbe in eredità, si può dire, altro che il nome di Principe, poichè tutti i suoi Stati ad eccezione di alcune città, erano in possesso degli stranieri. Di forme alquanto delicate, Emanuele Filiberto, aveva però uno spirito energico e guerriero, per cui venutegli presto a noia gli studi tranquilli ai quali veniva indirizzato, e vedendo in quali misere sorti versava il Piemonte e chiaramente comprendendo come le erano chiuse tutte le porte per potersi distinguere, abbandonò all’età di diciotto anni la patria per arruolarsi nell’esercito di Carlo V suo zio, dove ben presto si distinse, per le sue prodezze.

Con vera energia e prudenza diede opera a riordinare le sue schiere e ricondurre la disciplina nei soldati, ed in breve seppe cattivarsi l’animo di tutti quanti, nè i vecchi soldati di Carlo V sdegnavano di obbedire ai comandamenti di un generalissimo che da poco aveva trascorsi cinque lustri di vita.

Indi a poco, avendo la Spagna mossa guerra alla Francia, venne affidato al Sabaudo guerriero il comando di tutte le truppe raccolte nelle Fiandre, che formavano un poderoso esercito di 70.000 combattenti circa.

Dopo aver debellate parecchie città, Emanuele Filiberto poneva il campo davanti a S. Quintino per stringerla d’assedio, ma essendo corso il Contestabile Montmorency col fior fiore delle milizie francesi, ebbe luogo la celebre battaglia di S. Quintino, che per l’intrepido valore del Duca e per la somma sua valentia, animando le truppe col suo proverbiale coraggio, fruttò alle armi Spagnole la più splendida vittoria e al supremo comandante il titolo glorioso di Eroe di S. Quintino. Quella di Gravellino che le tenne subito dietro, indusse Arrigo II Re di Francia a conchiuder la pace e fu lo stesso Contestabile di Montmorency, prigioniero, che negoziò l’accordo e col trattato di Castel-Cambresy si stab lì che il vittorioso generale oltrechè andare in possesso di tutti i suoi aviti domini, impalmasse Margherita di Francia, dai poeti chiamata per le spiccate sue doti la più preziosa delle gemme e il più vago dei fiori.

La penna non può descrivere con quanta esultanza venisse accolto l’esule volontario che rientrava, mercè il valore del suo braccio, nel totale possesso dei suoi Stati.

Desolante era la pubblica miseria per le fami e le epidemie, squallide e deserte le campagne, grande la scissura degli animi, esausto l’erario, inaridite tutte le vene della pubblica e privata felicità. Ma l’eroe della sua età e il rifondatore della dinastia Sabauda, con insolita moderazione, rimise dentro alla guaina quella spada che aveva saputo usare con tanta temerarietà e si diede al riordinamento del suo paese colla stessa alacrità colla quale aveva condotto la guerra. Ebbe cura speciale negli ordinamenti militari ch’erano ai suoi occhi strumento di giustizia ed arra di pace, costituì la Camera dei Conti per le cose finanziarie, abolì gli ultimi avanzi della servitù, rendendo gli uomini padroni di sè stessi e delle loro fatiche, introdusse la coltivazione del gelso e l’arte della seta e volle che i suoi sudditi vestissero stoffe nazionali; fortificò la Savoia edificando la fortezza di Mommelliano, quindi le cittadelle di Torino, Vercelli e Mondovì.

Si spense serenamente all’età di 58 anni e venne sepolto nella chiesa metropolitana.

La bella città dai Romani chiamata Julia Augusta Taurinorum volle ricordare il valoroso Testa di Ferro erigendogli un superbo monumento in piazza S. Carlo. Il Duca armato, frenando un magnifico destriero, ripone la spada nel fodero: felice allusione alla pace e alla prosperità ridonata al paese.

Longhi Giovanni.


La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.



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LE DONNE AVIATRICI

in un libello del secolo XVIII


Chi vi abbia assistito più non dimentica la spettacolo suggestivo che presentava la folla irrompente e acclamante l’aviatore Beaumont quando scese col suo snello monoplano sullo spazio verde dell’aerodromo dei Parioli. E se v’è alcuno che abbia avuto in quel momento la forza e la calma di stornare lo sguardo dal giovane vittorioso, per guardare quel cerchio vivente che gridava la vittoria di lui, forse non dimentica più, oltre il momento emozionante e solenne, neppure l’espressione profonda di passionato entusiasmo di qualche bel volto femmineo più degli altri proteso nell’ansia di veder bene il fortunato aviatore, e la sua viva macchina fremente che aveva filato con vertiginosa rapidità fra i due specchi azzurri del mare e del cielo italico, per giungere fino alla radiosa città. Attimi fugaci di bellezza, di oblio quelli degli entusiasmi della gente che rimanendo ben ferma e sicura sulla terra festeggia e saluta quelli che batton le vie del cielo, ma attimi di vera complessa e meravigliosa bellezza. Ogni egoismo e ogni pusillanimità è in quegli istanti travolto o miracolosamente trasformato e il desiderio delle gesta che par sempre così eroica, abbenchè si abbia ormai pressochè la consuetudine di simili eroismi, brilla come un fulgido rapido barbaglio d’oro entro lo sguardo di tutti; ma sopratutto nelle vive pupille delle giovani spettatrici.

In esse forse quel cupido lampo guizzante è più intenso perchè è più raramente consentito alle donne sfidare l’aereo pericolo; forse esse non colgono che il lato poetico quasi fantastico della nuovissima conquista; o forse, chi sa? — palpita nelle pupille commosse un sentimento di tenerezza per le spose, per le madri, per le sorelle degli aviatori che veggono la loro vita intessuta di aspettazioni ansiose e di gioie prodigiose; di agonie dolorose e di bagliori trionfali. Certo io vidi fra gli aspettanti ansiosi dell’Aerodromo mani guantate di donna strappare i papaveri ai prati, le vitalbe alle siepi per gettarle intorno al vincitore e alla macchina snella che è in qualche modo parte integrale della personalità dell’aviatore; vidi porpuree labbra tremare, e lacrime solcare guancie pallide di emozione; e udii una signora che con le mani ancora tutte ingombre di fiori di campo retrocedeva un poco — forse schiva di quell’incomposto tumulto del momento — dal folto gruppo acclamante, mormorare assorta come lontana da tutto e da tutti: — Oh! felice la tua sposa in quest’ora!

La frase soave sussurrata da labbra che non sapevano di essere ascoltate, quel delicato senso di fratellanza femminina sorgente dall’invocazione leggiadra, quell’impulsività muliebre fatta di slancio subitaneo e di tenerezza delicata, pronta, desiderosa anzi, di riversarsi con abbondanza non rattenuta su quanto suscita l’ammirazione, tutto riunito stranamente con il riconoscimento e la glorificazione di una meraviglia scientifica essenzialmente moderna mi fece pensare a una nuova anima di donna quale i nostri tempi si dice l’abbiano foggiata, e quale le donne di un secolo, di cinquanta anni fa, forse, non saprebbero più comprendere.

Capisco che per arrivare a questa conclusione non era proprio necessario assistere all’emozionante arrivo di Beaumont, vedere i papaveri e le margherite recisi da mani femminee intorno all’eroe dell’ora radiosa, udire una frase benedicente! Ma è certo che tutto ciò contribuì in quel momento memorabile a farmi ripetere mentalmente uno dei luoghi comuni più abusati in tutti i discorsi, che toccano, da presso o da lontano, qualche questione femminile.

Senonchè una serie di combinazioni mi porta oggi sott’occhio un vecchio libretto ingiallito, salvato dallo smarrimento da un colto collezionista di antiche memorie e di stampe antiche concernenti sopratutto la storia e la vita umbra. Il libello interessante porta infatti come luogo di stampa il nome di Perugia, e come data il 1784. Si tratta di una commediola di un solo atto, donata a un tal Vincenzo Cherubini dall’autore Annibale Mariotti (il cui nome non compare nel frontespizio ma risulta da una piccola interessante nota manoscritta), mentre questi riuniva memorie ed aneddoti intorno alle origini del civico teatro perugino, da lui stesso ideato.

Mente chiara e geniale, doveva avere il Mariotti (abbenchè non mostri nel vecchio libretto grandi doti di commediografo), se riuscì a un’impresa così geniale quale la creazione dello squisito teatro Morlacchi e se volle scegliere come soggetto del suo breve lavoro un fatto che doveva interessare sopratutto gli scienziati e i più audaci progressisti del tempo.

Si celebrava allora in Francia il sensazionale esperimento dei Fratelli Montgolfier, e al Mariotti parve utile e piacevole istruire il popolo della sua città sull’importanza e sulla ragione della nuovissima scoperta, riportando sulla scena in un brillante dialogo sceneggiato episodi e commenti che accompagnarono la prima prova dei due valorosi meccanici inventori.

Ove si pensi che l’invenzione della Mongolfiera fu il primo sforzo vittorioso dell’ingegno umano messo a conflitto con le forze fino allora invincibili dello spazio aereo, non è difficile il supporre come la sorpresa, l’ammirazione delle genti fosse, dinanzi a quella prova fortunata, maggiore forse e più fervida di quella, pur così viva, che in noi destarono e destano tuttor alle meraviglie dell’aviazione; per quanto le due cose siano poggiate sopra principi scientifici affatto diversi, e il ricordo della mongolfiera ci faccia ora sorridere, come quello di un pallido dagherrotipo, di fronte a una delle mirabili fotografie moderne. Ma la psicologia degli spettatori delle Tuileries di quasi un secolo e mezzo fa, non era e non poteva essere molto dissimile nel rapimento e nell’ebrietà dell’entusiasmo di quel che possa essere oggi dinanzi a qualche brillante gara di aviazione.

L’audace frase che appare oggi rigorosamente esatta: L’uomo è giunto a volare! non pareva impropria neppure agli ammiratori dei primi areostati. E il bozzetto [p. 230 modifica]del Mariotti è di quella frase orgogliosa ed ebra di vittoria pervaso da cima a fondo. Null’altro che la potenza del volo conquistato dall’uomo vedeva il popolo nell’apparecchio dei fratelli inventori; e la fantasia collettiva era eccitata da questa idea, ed era essa, non il valore o le deficienze dell’apparecchio, ciò che suggestionava e preoccupava le masse, che suscitava i commenti, che alimentava le critiche scettiche... dei ben pensanti del tempo forse più numerosi che non ai nostri giorni.

Il piccolo prezioso lavoro del Mariotti di cui non resta ormai che una sola unica copia, salvato come abbiamo detto poc’anzi dalla bibliofilia di un colto collezionista, Alessandro Piceller, non vale certo gran che come opera teatrale, ma è evidentemente vero in molti suoi particolari. È una pagana di cronaca sceneggiata della seconda metà del secolo XVIII; e come tale è vivamente interessante. I preparativi, le ansie dei primi volatori (cui dapprima un divieto regale aveva proibito di tentare la prova che pareva follemente pericolosa), gli entusiasmi del ritorno, i dialoghi degli spettatori, la descrizione stessa dell’apparecchio non poteva essere studiata che sul vero. E d’altra parte il Mariotti null’altro si era proposto col suo lavoro, che d’informare della novissima verità i suoi buoni perugini. L’intonazione molto discreta, rispondente a certe esigenze teatrali del tempo, le disposizioni convenzionali delle parti, si animano, a malgrado della volontà dell’autore, che evidentemente non voleva apparire troppo audace, nè urtare alcuno, di un vivo soffio di verità che anima sopratutto... indovinate chi? le figure delle due aspiranti aviatrici, cioè a dire delle due uniche donne del rapido bozzetto teatrale. E notate, non v’è ombra di sarcasmo nella rappresentazione di queste due coraggiose fanciulle che anelano a librarsi anch’esse nell’aria con i valorosi inventori. E questa attitudine dell’autore, che mette anzi il coraggio e l’entusiasmo delle due donzelle, a contrasto del baldanzoso e tronfio scetticismo di un provinciale nobile ed ignorante, dimostra chiaramente come il fondo dell’episodio poetico sentimentale debba avere avuto un riscontro nella realtà. Una delle due fanciulle è sospinta a voler tentare la grande prova da un sentimento di amore verso un aeronauta coraggioso; l’altra vi è mossa da un’ammirazione sincera verso la scoperta novissima, da un sentimento di femminile fierezza che l’induce a dimostrare essa stessa il coraggio che non venne meno alla fanciulla innamorata. E poichè entrambe sono dolcemente respinte dai piloti della mongolfiera, che voglian tentar da soli per la prima volta il pericolo promettendo loro di accontentarle quando sieno di sè stessi più sicuri; esse seguono frementi e palpitanti il volo audace, e l’una trepida per il suo diletto; e l’altra si accende e palpita nell’entusiasmo dell’esperimento trionfale... E questa seconda figura di donna, più dell’altra, dotata di forza singolare, deve pur apparire sulla scena — come apparve certo nella realtà nei verdi prati dei giardini regali, con il ricco vestito dai rigonfi paniers e con lo zendale calato sul volto.

La giovane donna coraggiosa aveva bensì tentato di commovere i viaggiatori aerei affinchè la traessero con loro nel campo delle nuvole, ma aveva velato la sua arditezza con la serica benda, che — ella dice — non avrebbe sollevato — neppure quando la navicella avrebbe solcato le vie celesti....

Confesso che le due amabili figure femminee, che appaiono nel libretto del Mariotti, che fu spettatore di quel primo grande trionfo, trionfo scientifioo, mi hanno lasciato un poco pensosa e commossa.

Ricordai allora le belle creature anelanti di entusiasmo nell’aerodromo dei Parioli, rammentai la dolce frase corsa sulle labbra della leggiadra incognita dalle mani ingombre di fiori di campo, e pensai che forse la maggior differenza fra le spettatrici delle Tuileries di un secolo e mezzo fa, e quelle che oggi seguono con acceso sguardo di desiderio le evoluzioni dei velivoli snelli, è sopratutto negli storiati abiti a paniers e nel zendale calato sul viso.

Dalla mia stanza1


Chioma di quercia, che t’innalzi ardita
quasi a toccare il cielo, —
non mi torrai di contemplar la vita,
la dolce speme ascosa in suo bel velo
d’oro fulgente, che d’amor cotanto
Milano onora, sua difesa e vanto.

O Madonnina d’oro
del nostro Duomo, come tu sei bella
quando ti bacia il sol dall’oriente,
e allor che del ponente
la più leggiadra stella
e tutte l’altre in coro
vengono ad ossequiarti lor regina,
come sei bella, o nostra Madonnina!

Ma pur qui tra le palme e rose e gigli,
a cui tanto somigli,
io ti veggo, o Maria, qui ricordando
gli orti del pio Filippo antichi, dove
ei depose di Cristo i forti atleti,
che a te ricorser lieti
nelle gloriose prove,
specchio d’ogni virtù, alma eroina
te invocando dei martiri regina. —

E qui ancor la basilica vetusta
del sommo Ambrogio par ripeta ognora
l’eco mite e robusta
della voce di lui, che scese al core

d’Agostino e il convinse dell’errore, —
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e parmi spesso udire un’altra voce
(da Monica, da Ambrogio supplicata)
che in suo rimorso atroce
colpì Aurelio e qui pianse e in tal dolore
s’arrese al dolce invito del Signore. —

Care e sante memorie, che venite
a confortar la mia solinga cella,
onde mi par più bella, —
oh di Milano pure glorie avite,
perchè in oblìo cadute?
perchè le lingue stan timide e, mute
mentre smarriti i cittadin sen vanno
dietro bugiarde fole
le compre parole?...
Ahi di molti fratelli il turpe inganno,
oh del nostro bel ciel disdoro e danno! —

O Madonnina d’oro,
che di lassù protendi le tue palme
piene di grazia, questo almeno imploro
da te, Madre, che i deboli
figli sorregga, illumini gl’insani,
un sentir coraggioso infonda all’alme,
pietosa allontani
da’ miei concittadin questa sciagura,
che d’esser savi e grandi abbian paura!..

P. Corbella.

  1. In una casa di via Lanzone, che prospetta il giardino piantumato a fianco della Chiesa di S. Ambrogio, in direzione della Madonnina del Duomo, che si vede in lontananza.