Il buon cuore - Anno X, n. 36 - 2 settembre 1911/Educazione ed Istruzione

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Dall’Alta Valtellina

Sondrio, 27.

Rovine e rimedî — Il Poggio della Giustizia — Un trasbordo degno di cinematografo — Mons. Vescovo di Como sui luoghi dei disastri.

Il lungo, straordinario periodo di siccità e i conseguenti calori canicolari hanno suscitato la reazione della natura sempre bisognosa d’equilibrio. Il cielo, inesorabilmente sereno da un mese, si è oscurato, il sole ha dovuto cedere alle nubi, che, tra spaventevoli scariche elettriche, si sono sciolte in tempeste e in pioggie torrenziali. I ruscelli son divenuti torrenti impetuosi, e i torrenti si sono trosformati in vorticosi fiumi. I ghiacciai si sono scossi dal loro letargo e hanno dato pure largo contributo alle arterie zampillanti, conduttrici delle acque dal monte al piano.

Questo vi scrivo dopo una fortunosa discesa dai Bagni Nuovi di Bormio, e vi scrivo da Sondrio, dove, dopo una notte di terrore, si respira e si pensa a riparare danni incalcolabili e anche a ridare la luce elettrica, la cui soppressione ha costretto tutti a ritornare ai primi onori le lucerne e i candelieri quasi preistorici.

La colonia milanese, sparsa a S. Caterina e ai Bagni Nuovi e Vecchi di Bormio non potrà mai dimenticare questi giorni. Al mattino di quella notte spaventevole, si constatò subito con meraviglia che il magnifico parco dei Bagni non aveva avuto il minimo danno; ma ogni comunicazione era interrotta e dai valligiani giungevano notizie impressionanti di frane, di smottamenti, d’inondazioni e di sventure. Un torrentello aveva intercettato la comunicazione tra i Bagni e Bormio, trasportando sullo stradone un mucchio immane di materiale da cui emergevano macigni tali da richiedere la dinamite nelle operazioni di sgombero. Notisi che il torrentello, disseccato da gran tempo, si era ridestato non solo per intercettare lo stradone provinciale, ma altresì per trascinare giù giù dei mucchi di limo alluvionale sulla sottoposta strada comunale parallela, fino al Poggio della Giustizia. Ma che giustizia? Giustizia di tempi barbari, dei tempi del dominio dei Bernesi, che processavano specialmente povere donne imputate di stregoneria e le condannavano al rogo su quel poggio segnalato ancor oggi con terrore. E non solo la tradizione attesta quanto scrivo: nell’Archivio di Bormio, insieme a preziosi cimeli, a pergamene e a volumi antichi d’inestimabile valore, si trovano centinaja di sentenze che furono eseguite sul Poggio della Giustizia.

Non è il caso di deplorare ora l’abbandono in cui è lasciato quell’Archivio, che contiene materiale interessantissimo. Pel momento voglio solo informarvi succintamente di sventure appena accennate, e debbo dirvi che ben più gravi erano le notizie pervenute subito dopo da S. Caterina: la colonia tutta era seriamente bloccata, specialmente per la caduta dell’antico ponte che metteva al famoso stabilimento. Più tardi, da un procaccia, si veniva anche a sapere che metà dell’alta valle rimaneva pure bloccata da un’enorme frana, la quale aveva fatto temere nientemeno che la distruzione di Bolladore.

Intanto le colonie sparse nei posti più alti trascorrevano ore indicibili, perchè le linee telegrafiche non funzionavano e più tardi veniva a mancare anche ogni comunicazione postale. Indescrivibile l’agitazione delle madri, che attendevano notizie famigliari o di cari malati, e d’altronde faceva contrasto la preoccupazione per i viveri, il timore di far la fine del conte Ugolino. Non mancavano i filosofi, e tra questi è da notarsi il distinto e venerando Mons. Antonio Ceruti, il quale, ai Bagni Nuovi, fiero dei suoi ottant’anni, dei suoi 58 anni di sacerdozio e del suo prossimo cinquantenario di dottorato alla biblioteca Ambrosiana, sorrideva a tutti e a tutti faceva coraggio con barzellette spiritose, confortando anche colle notizie raccolte nelle sue rapide esplorazioni verso la prima frana intercettante l’accesso a Bormio. Sono da notarsi altri personaggi che discutevano animatamente sul da farsi, e rammento l’ [p. 284 modifica]onorevola Della Porta, il comm. Tomaso Bertarelli, il commendator Massimo De Vecchi, il cav. ing. Carlo Carloni, l’avv. Peregrini, il cav. Panighi, il cav. Monneret, il commendatore prof. Baldo Rossi, l’assessore ing. Giachi, il cav. ing. De Capitani, il nob. cav. Alessandro Perego. A tutti pesava la mancanza della posta come in tempo di guerra, e naturalmente, come succede tra compagni di sventura, non conoscendo l’entità dei disastri ai quali si doveva provvedere, si facevano commenti a proposito e a sproposito.

Ma il peggio era, com’è tuttavia, a S. Caterina, veramente segregata dal mondo. Eppure di là son venute due ardite signore, le quali, non potendo tollerare blocco, avevano affrontato il monte prospiciente la voragine, trionfando coi piedi e anche colle mani.

I Bagni Nuovi, affatto inalterati perfino nella splendida illuminazione elettrica, parevano un Eden, ma tutti si sentivano sospinti alla partenza da cause diverse eppur tutte prepotenti. Ma in quale maniera e per quale via aperta? Reso possibile il trasbordo verso Bolladore, si prendeva qualche risoluzione, e jeri una grossa comitiva partiva con due automobili capaci di trenta persone, mentre altri bloccati si rassegnavano a partire in alcune carrozze.

Si giunge egregiamente al principio del luogo della rovina. Quale disastro! Il torrente che dapprima sempre tranquillo e innocuo scendeva dalla montagna per gettarsi nell’Adda, fattosi ad un tratto rigurgitante e furente come nessuno potrebbe ricordare, aveva trascinato seco dall’alto al basso una immane quantità di macigni d’ogni dimensione, portando nell’Adda vorticosa la vecchia strada provinciale per un tratto di circa ottocento metri. La frana è immensa e all’occhio esterrefatto dei passanti si presenta in forma di grandissisimo triangolo colla punta rivolta verso la sorgente del torrente traditore.

Non è il momento propizio per fare considerazioni, perchè il cielo diventa ancora minaccioso, mentre un drappello di portatrici e di portatori improvvisati si impadronisce dei bauli, delle valigie e dei batuffoli dei viaggiatori disgraziati che devono percorrere più di un chilometro tra le pietre o sopra morene ancor verdeggianti. Si forma un lungo svariato corteo, degno di un cinematografo. Da lontano spicca la figura eretta di Mons. Ceruti, colle sue robuste gambe in calza nera e colla larga tesa del cappello che sfida i venti, la pioggia e la tempesta. Si distingue anche perchè tiene gelosamente, malgrado il disagio, un grosso rotolo costituito da duecento pergamene antiche con altrettante copie interpretative eseguite ai Bagni Nuovi. Ha ceduto le valigie ai portatori e cederebbe anche il portafoglio, ma a nessun patto vorrebbe affidare ad altri quelle pergamene spettanti al Santuario di Tirano, nè quelle copie promesse all’Archivio Storico di Como. Dinanzi alla frana, il forte vegliardo vorrebbe fare delle riflessioni geologiche e paleontologiche; ma il suo primo tentativo è interrotto dal tuono che si ripete con lampi sinistri. Il comm. De Vecchi, l’ing. De Capitani, altri signori e alcune signore precedono la comitiva e sono in buon punto per scansare la pioggia, ma i gitanti in coda devono ripararsi alla meglio e salire o scendere a seconda delle accidentalità della via improvvisata.

Quale trasbordo! Sullo stradone rimasto ancora praticabile non si trovano mezzi di trasporto, e giunti a Bolladore, si devono attendere quasi due ore le automobili promesse con tanta sicurezza! Si ammirano gli ingegneri provinciali che, coi loro assistenti, lavorano impavidi sul posto di battaglia per effettuare un progetto di strada in linea più elevata di quella per sempre distrutta. E la lunga, impaziente attesa è interrotta da una grossa comitiva che sopraggiunge pure per trasbordo da Bormio sotto una pioggia torrenziale. Ahimè! Vi sono signore e signorine in tali condizioni d’inzuppamento da esser costrette a togliersi gli abiti per asciugarli dinanzi ad una grande fiammata di un provvidenziale rifugio.

Mentre il giovane conte Sertoli narra con parola interessante le fasi della notte disastrosa e i primi provvedimenti, elogiando particolarmente una squadra di operai diretti dal valente ing. Mina, giungono tre grandi automobili.

Si parte per Tirano, e là la comitiva si divide a seconda delle inclinazioni, alcuni preferendo tentare la strada dell’Aprica, di Edolo e Brescia, altri preferendo invece affrontare il trasbordo alla ferrovia di Sondrio, nel così detto disgraziato Pian di Spagna, devastato dall’Adda, dal Bitto e dal Masino.

Impressionante la scomparsa di un gran ponte ferroviario, trasportato appunto dal Bitto alle ore 3 di notte giù alla distanza di 200 metri. E lo stradone di Chiesa distrutto per quasi un chilometro? E lo stradone di Masino? E il povero paesello di Fusine rimasto colla sua chiesetta e poche casupole pericolanti? E i laghi improvvisati, divenuti melmosi e pestilenziali per le esalazioni causate da mucche, da buoi e da grossi pesci affogati nel fango? E chi ha potuto finora contare le vittime umane? E i campi dapprima verdeggianti, ed ora, dalla sera al mattino, in una notte di terrore, coperti da un alto strato di fango?

Quali e quanti danni e quante vittime, quante miserie!

S. E. Mons. Archi, Vescovo della Diocesi di Como, dov’è compresa tutta questa immensa valle di lacrime, si è portato sui luoghi maggiormente colpiti per lenire possibilmente i più grandi dolori.

I Valtellinesi sperano, e non a torto, nell’appoggio degli onorevoli Credaro e Marcora. Infatti il ministro valtellinese trovasi qui al suo Montagna e dà prove di affettuosa sollecitudine, e l’on. Marcora è riuscito a sbloccarsi dal Masino e fa il possibile per la Valle diletta. Molto, anzi moltissimo, faranno, come in tutte le più dolorose circostanze, i nostri bravi soldati.

Come tutto passa, anche questa valanga passerà, lasciando nella storia una pagina dolorosa. Dopo la guerra, la pace, dopo la tempesta il cielo sereno. Così è delle grandi calamità che sembrano irrimediabili. Ma anche questa rovina, benchè dovuta alla straordinaria furia degli elementi, deve servire di ammaestramento per le costruzioni future e anche per il tanto invocato rinboschimento a vantaggio delle future generazioni.

A. M. Cornelio.


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LA SANTA CAPPELLA


STUDII STORICI


(Continuazione e fine).

Poi si ritirò bruscamente nella parte più intima della cella tirando i cortinaggi bianchi e senza rispondere alle parole di saluto che Pietro gli indirizzava....

Sei anni dopo, la costruzione della Santa Cappella era terminata e non restava che dar l’ultima mano a talune parti di dettaglio che potevansi curare a tutto agio e che non dovevano ritardare per nulla l’inaugurazione dell’edifizio.

Benchè questa inaugurazione non fosse ancora stata fatta, la Santa Cappella interessava egualmente la curiosità di tutta Parigi, e già se ne dicevano le meraviglie ling nelle provincie più lontane della Francia. Si pretendeva che l’architetto avesse dovuto ricorrere a mezzi sopranaturali per lanciare tutte quelle freccie tant’alto da sembrare quasi impossibile fossero costruite in pietra. Si era aspettato con impazienza il giorno in cui venissero tolte le impalcature di sostegno alle sculture, credendosi che una volta levati i ponti, quelle ardite colonnette, quelle prominenze crollerebbero trascinando con sè una parte dell’edifizio; ma Pietro di Montreuil trionfò di questa prima prova, ed i suoi nemici più gelosi e più accaniti non ebbero altra risorsa che accusare il diavolo d’aver prestato mano alla costruzione della Santa Cappella.

In realtà, questa Chiesa è un capo d’opera inaudito di grazia e di leggerezza; gli storici di tutti i tempi la citano con ammirazione, testimonio il Morain (Histoire de la Sainte Chapelle royale de Paris, un vol. in 4°).

«La Chiesa della Santa Cappella (dice egli), è una delle più ardite e delle più ammirabili. Essa non è di una grande ampiezza; ma a considerare tutte le sue parti, ha la regolarità e l’eleganza che può esigere l’architettura gotica più corretta e meglio intesa. Sembra non poggi che sopra deboli colonne, la volta è di una arditezza sorprendente, non essendo sostenuta da nessun pilastro sottoposto, benchè il vaso sia profondo assai e ci abbia due chiese l’una sopra l’altra.

L’armatura passa per una delle più belle e più ardite di Parigi; la copertura ha quaranta piedi d’altezza; la torre è una delle più alte di Parigi, rimarchevole per la sua struttura e delicatezza....

Checchè ne sia di molti monumenti di pietà, non ce n’ha di più belli e più magnifici della Santa Cappella di Parigi.

Il signor Ogier nei suoi Panegirici dice che la Santa Cappella è il capo d’opera di tutti i templi fatti costruire da S. Luigi. Questo buon re avendo fatto ricerca con infinite cure e spese considerevoli degli stromenti della Passione di Nostro Signore, delle armi della sua vittoria e del suo trionfo, volle erigere un trofeo degno di quel combattimento e delle gloriose spoglie tolte ai nemici. Occorre riconoscere che la pietà di S. Luigi è stata felicemente assecondata dal talento degli architetti. Si può dire anche come abbiano sorpassato la portata del loro secolo, poichè quest’opera forma sempre l’ammirazione dei conoscitori presenti. Sembra pure che qualche mano sovra terrena abbia contribuito all’erezione di questo superbo monumento.

Dopo aver percorso l’edificio della Santa Cappella dal lato architettonico, ogni fine osservatore si arresterà alle figure della facciata. Caricata di geroglifici, dominata da statue di angeli, del Signore benedicente, di profeti, di stemmi di Castiglia per allusione a Bianca madre del fondatore. L’interno non è meno curioso; tutto è illuminato da invetriate, di tono chiaroscuro e dipinte in tutti i colori come nelle nostre antiche cattedrali, vivaci, scintillanti, d’una bellezza eccezionale. Vi sono rappresentati dei tratti della Storia dell’Antico Testamento e del Nuovo con tale arte e potenza di tinte da resistere alle ingiurie di molti secoli».

Intanto, per eseguire quest’opera ammirabile, il giovane Pietro non andò una sol volta a bussare alla porta di frate Antonio per richiederlo di schiarimenti. Egli avea preferito lottare con perseveranza contro gli ostacoli che si presentavano, piuttosto che associare il suo benefattore al proprio lavoro. Grazie all’inaudita sua vocazione per l’architettura, grazie a molte notti passate allo studio, era giunto a trionfare di tutti questi ostacoli e a far tacere i molti gelosi che non mancarono al giovane incaricato d’una missione di tale importanza.

Ed in questo egli aveva agito più da artista che da uomo riconoscente; in questo egli aveva ascoltato più il suo amor proprio che i doveri del cuore; poichè dovea saperlo, Frate Antonio aspettava la sua venuta con molta impazienza; frate Antonio, a malgrado del rigore della sua penitenza ed il fervore del suo pentimento, aspettava incessantemente, tra le angustie del dubbio, colui che dovea parlargli della sola cosa che il povero monaco aveva lasciato sulla terra. Oh quante volte, agitato nelle preghiere, il cuore in palpito, l’occhio fiammeggiante, si chinò verso la parte della cella per conoscere se i passi che sentiva nei corridoi del chiostro non fossero quelli di Pietro! Allora, deluso nella sua speranza, ripiegavasi su se stesso chiedendosi se Pietro non fosse morto, lasciando incompiuta l’opera per la quale vivea. — L’ingrato! — diss’egli, — l’ingrato! egli mi dimentica, m’abbandona, mi lascia senza dirmi: la tua chiesa si compie, il tuo pensiero si realizza! Egli compromette la mia salute e mi perde per l’eternità! Io non posso pregare. Oh! perchè i miei voti mi trattengono qua? Perchè ho io giurato di non varcare la soglia di questo convento? perchè una pozza di sangue, il sangue della mia vittima si mette fra me e il mondo? Ora attenderei a costruire un grande edifizio, mentre questo giovane insensato al quale ne confidai sì stoltamente la cura, senza dubbio ha piegato sotto un tal peso! O piuttosto egli è morto, morto coll’opera mia. Mio Dio! abbiate pietà delle mie sofferenze; non permettete che un disgraziato si dibatta tra pensieri così funesti! Santa Maria, Madre di Dio, intercedete per me. La mia opera! la mia opera! Cosa so io di ciò che ne è avvenuto? So io se è perita?.... allora raddoppierei i rigori della penitenza, lacererei il mio corpo mattina e sera sotto [p. 286 modifica]i colpi della disciplina, passerei le notti in preghiera sul pavimento della mia cella. La mia opera! so io se è perita?

Ahimè! che Pietro di Montreuil non veniva a consolare quello sventurato.

E non era solo nei riguardi di lui che si mostrava ingrato. Come obliava il benefattore che l’avea tolto alla condizione di misero artigiano, avea egualmente obliata la fanciulla che tante volte l’avea sostenuto tra i dolori di questa vita di sofferenze; quella che tante volte gli aveva terso il pianto; quella che tante volte avea deviato da Pietro la collera paterna. Ma nella fortuna si dimenticano gli amici che si implorano nella sventura; si respingono, come il prigioniero finalmente libero, rigetta i ferri che ha portato e che gli ricordano come non sempre sia stato libero e felice. Pietro che avea avuto orrore di dir bugia al Re, lasciava intanto fra le lacrime il suo benefattore e l’unico sostegno che avea trovato nel tempo della sua miseria.

Il cuore non mancava di rimproverargli questa doppia ingratitudine, ma la vanità soffocava i suoi rimorsi. — Al monaco, — dicea egli — appartiene la creazione del disegno, ma a me solo l’esecuzione. Quando comparvi davanti al Re non mi appropriai la parte di questo sconosciuto. Ed egli mi lascia oggi la mia, giacchè non mancherà di dire adesso: io fui la testa ed il pensiero, e Pietro di Montreuil non fu che uno strumento! Quanto alla piccola Agnese, deve forse l’architetto reale mantenere la promessa del figlio del pasticciere? Senza dubbio Agnese mi ama ed io le ricambio l’affezione; ma, che direbbero i miei rivali, che direbbero i grandi signori che mi trattano da uguale, vista l’amicizia di cui mi onora il Re e la superiorità del mio talento, se venissero a sapere che io sposo la piccola pasticciera che vende loro le cialde alla insegna di S. Lorenzo? Qui nessuno conosce la mia origine, qui nessuno sa per quali vie misteriose sono arrivato vicino al Re. Andrò io come un insensato a dar pretesti di ridere? mi abbandonerò, legato mani e piedi, ai sarcasmi dei cortigiani ed agli scherni dei rivali? No, per la mia salute. Agnese faccia come fo io, e malgrado ciò che possa costarmi, soffochi il suo amore. Se d’altronde ella mi ama per me, e non per egoismo, se la sua tenerezza è schietta, un tal sacrificio dovrà parerle necessario, indispensabile, inevitabile anche. Ma no; quando mi incontra si dispera, vuol morire, mi si getta ai piedi e mi supplica di non abbandonarla... ed allora mi sento debole anch’io e presso a cedere alla sua disperazione.... Andiamo, andiamo, lungi da me questi pensieri volgari! diamoci tutto alla gioia, alla gloria della grande solennità di domani in cui avrà luogo l’inaugurazione della Santa Cappella; è domani che ella accoglierà le Reliquie venute d’Oriente; è domani che comincia per me la gloria, la gloria che farà passare il mio nome ai secoli più lontani!

E la consacrazione ebbe luogo veramente l’indomani 25 aprile 1248, Domenica in Albis con una pompa inaudita. Dallo spuntar del giorno, il suono delle campane echeggiante nell’aria colle sue melodiose onde avvertì i fedeli della grande solennità. E dopo i primi rintocchi una folla immensa si raccolse attorno alla Santa Cappella e si vide arrivare tutte le Confraternite nei loro costumi ed a vessilli spiegati. Le prime venute furono quelle di Bezoche, precedute dal loro re, cinta la testa da una corona d’oro; bentosto seguite dall’imperatore di Galilea e dai suoi sudditi, cioè dal capo della comunità dei chierici della corte dei conti. Seguirono poi le diverse scuole, quindi le corporazioni dei mercanti, infine tutti gli ordini di monaci che popolavano i numerosi conventi della città. Questa folla immensa filò lungo la Senna non senza grande tumulto, non senza trasporto d’ammirazione alla vista del sacro edilizio, liberato durante la notte delle ultime impalcature che ne impedivano la vista.

Finalmente allo scoccare delle otto, il Re S. Luigi entrò nella cappella a piedi nudi e portando le insegne reali. Lo segui vano tutti i signori della corte, e la regina Bianca andò a collocarsi in una tribuna accanto alla sposa del re, la regina Margherita.

Allora apparve il vescovo di Frascati Oddone, Legato della. Santa Sede, assistito da molti dignitari ecclesiastici. Il Prelato ricevette da una giovinetta biancovestita le Sacre Reliquie per le quali era stata costruita la Santa Cappella, di cui faceva parte la Corona di Spine. Quindi suoni dell’organo, canti festosi pieni di una maestà impressionante. Il Re estremamente commosso piangeva; battevasi il petto e non rifiniva di render grazie a Dio.

La costruzione della Santa Cappella costò nove milioni di nostra moneta.

La Santa Cappella fu in ogni tempo oggetto di venerazione e liberalità dei re di Francia. Nel 1246 S. Luigi vi stabilì un collegio di ecclesiastici. Filippo IV vi eresse una cappella dedicata a S. Luigi re, di cui nel 1297 ottanea la canonizzazione; sotto il regno di costui la giustizia vi mise piede per impadronirsene totalmente in seguito. Luigi XI arricchì la Santa Cappella di privilegi, doni, reliquie, di ornamenti in lapislazzuli.

Il tesoro della Santa Cappella era d’un valore inestimabile; tra molti oggetti preziosi, vi figurava un’Agata d’immense dimensioni portante inciso l’apoteosi dell’imperatore Augusto.

Nella sua qualità di Parrochia reale la Santa Cappella godeva di tutta la pompa della liturgia e della regalità. Come tutte le Parrocchie, avea le sue feste ordinarie e straordinarie e un cerimoniale speciale. Ad esempio nella festa dei SS. Innocenti i chierichetti svincolati da disciplina, portavano i segni delle più alte dignità, occupavano í primi posti e contraffaceano i loro superiori con tutta la libertà. La festa di Pentecoste, oltre la stoppa accesa, la pioggia di fiori cadente dall’alto, e piccioni candidissimi messi in libertà per annunciare con materiali allegorie la venuta dello Spirito Santo, un angelo, messo in movimento con un meccanismo invisibile, discendea dall’alto della navata e veniva a versare sulle mani del celebrante dell’acqua contenuta in un vaso d’oro. Carlo VIII avendo assistito a questo spettacolo nel 1484, prese tanto piacere da farlo ripetere per due domeniche consecutive. Un’altra particolarità: la notte del venerdi al sabato Santo una folla di malati, [p. 287 modifica]specialmente di mal caduco, andava alla Santa Cappella per esser toccati dalle reliquie. Oggidì, profanata dalla rivoluzione e spogliata del suo tesoro, la Santa Cappella serve come succursale del Palazzo di Giustizia. Tale il destino delle cose umane.

(Trad. di L. Meregalli).

S. Enrico Berthoud.

MICHELE SESSA

Sulla sponda sinistra del Lario, di fronte a Lecco, nel pittoresco paesello di Malgrate, luogo prediletto per concedersi un po’ di riposo estivo, è spirato santamente l’amico nostro Michele Sessa. Scriviamo spirato santamente non per fare una frase comune, ma per esprimere la verità, per dire che gli ultimi momenti del caro amice, furono compimento della vita d’un santo, un santo laborioso, un padre di famiglia esemplare, una mente nobile ed elevata, un cuore eccellente, un’anima sinceramente, profondamente cristiana.

Per tradizioni famigliari, il Sessa appartenne alla classe degli industriali e si appassionò all’industria della seta, assai difficile e spinosa; ma fu pure un appassionato delle arti belle, specie della musica che gustava negli ambienti più seti.

Nelle alterne vicende della vita, nelle delusioni e anche nelle più gravi sventure, Michele Sessa non perdette mai la serenità dello spirito, non pronunciò mai una parola amara, e rivolgendo sempre in alto lo sguardo, dall’alto attinse ognora quella dolce fortezza che a tutti lo rendeva tanto caro.

Ai funerali, celebrati a Malgrate, dove l’amico nostro era ammirato e amato per la sua grande bontà, parteciparono in gran numero i terrieri ed i villeggianti milanesi, sparsi nel territorio lecchese e nella Brianza.

Notammo distinte personalità.

Sulla porta della chiesa parrocchiale si leggeva la seguente epigrafe:

UNA PREGHIERA

O BUON POPOLO DI MALGRATE

PER L’ANIMA

DI

MICHELE SESSA


MARITO PADRE CITTADINO

FU MIRABILE ESEMPIO DI VITA CRISTIANA

TRASFUSA CON IMMENSO AMORE

NELLE NUMEROSE FAMIGLIE DA LUI PROGENITE


CHIAMATO INOPINATAMENTE DA DIO

PREPARATO SEMPRE AL SUO INCONTRO

RIPOSA IN PACE.

Al cimitero, l’amico nostro prof. don Piego Rusconi mise in bella luce le virtù del defunto col discorso che qui riportiamo.

«Crederei di mancare a un dovere, se io, sacerdote e tanto amico della famiglia che oggi piange desolatamente il suo capo, non dicessi almeno una parola dinnanzi a questa cara salma e al vostro cospetto, o buon popolo di Malgrate, che l’avete veduto tornare ripetutamente ospite in mezzo a voi, durante il breve riposo che si concedeva dal diuturno lavoro. Noi siamo dinnanzi alle spoglie mortali di uno che fu davvero mirabile esempio di vita cristiana, come avete potuto leggere sull’epigrafe all’ingresso della Chiesa. Uno di quegli esempi che è bello, è utile, è doveroso presentare a tutti, perchè a tutti può essere richiamo a serie meditazioni, stimolo a risoluzioni salutari.

«Michele Sessa appartenne alla classe dei lavoratori nel campo dell’industria, e vi portò tutta l’alacrità di un ingegno svegliatissimo, tutta l’integrità di un’onestà immacolata, tutta la costanza di una volontà indomita e tenace, che lavorò fino all’ultimo, fino, si può dire, alla vigilia della sua morte, perchè questa vacanza era la prima che poteva chiamare riposo, e non per sua elezione, all’età di 71 anni. Quel suo infaticato lavoro aveva per unico obiettivo la sua diletta famiglia.

«Dio gli aveva concesso una compagna degna di lui: raramente due esistenze si completano in un’armonia di profondo consenso nell’amore del dovere e nel dovere dell’amore, con a base solo il Vangelo di Gesù intimamente vissuto, come avvenne in questa famiglia. Vennero i figli numerosi: crebbero belli e forti, ma sopratutto buoni, di quella bontà che dà l’impronta e l’orientazione a tutta la vita, e che essi attingevano dai Genitori e i Genitori da Dio e dal suo Cristo sentito e vissuto, nelle loro anime.

«E i figli a lor volta ebbero i loro figli, numerosi anch’essi; e nella famiglia di Michele si adempiva e tutt’ora s’adempie la divina Parola: Crescite et multiplicamini; ed egli godeva di trovarsi dintorno a fargli corona sempre più numerosa una turba di figlioli e di nipoti di tutte le età. E la sua era gioia sincera e legittima, perchè nelle famiglie da lui progenite vedeva fedelmente rinnovellarsi e mirabilmente fecondarsi quello spirito cristiano, senza paure e senza meschine transazioni, che fu sempre in cima dei suoi pensieri e che egli aveva largamente seminato con l’esempio e con la parola. Ed era uno spettacolo dolcissimo e commovente vedere il Nonno, nelle poche ore libere dal lavoro, sedere in mezzo ai nipotini, farsi piccolo con essi, partecipare con interesse ai loro giuochi infantili, assumendo egli stesso una cotale amabile ingenuità, che prendeva un rilievo tutto speciale, accostandola al suo ingegno così sveglio e alla sua larga e svariata cultura.

«Ed era codesta sua caratteristica ingenuità che gli faceva vedere della vita solo la parte migliore, che gli prometteva di godere di tutto, anche delle più piccole cose, che dava a tutta la sua vita un’impronta manifesta di gioconda e inturbata serenità. Era questa la rivelazione sicura di un’anima che aveva abitualmente le ineffabili esperienze della pace interiore, che è solo da Dio, ed è il retaggio proprio di una coscienza onesta e pura.

«E con questa coscienza illibata, che sentiva abitualmente Iddio, egli si appressò, senza saperlo, all’ora di morte: e, quasi premio della bontà di sua vita, Dio [p. 288 modifica]non permise che ne provasse il terrore: egli passò placido dalle rinascenti speranze di una convalescenza teri ena, al gaudio della Vita Eterna, e si trovò beato, nelle braccia di quel Dio, che egli aveva sempre fermamente creduto e sperato e amato come Fine ultimo e Bene supremo di tutta la sua vita.

«Rimane la compagna desolata in un dolore che non ha nome; rimangono i figli orbati di un tal padre, i nipoti che invano chiamano ancora il caro Nonno: ed era spettacolo di edificazione e di pietà, che moveva alle lagrime il vedere i figli stretti tutti intorno alla povera Mamma, quasi per attenuarne l’ambascia col dividerla insieme.

«Ma quella fede divina che fu la scorta luminosa e. l’informatrice di tutta la vita del loro caro perdute alla terra, glielo mostra trasfigurato di non terrena bellezza nella pace di Dio, divenuto loro celeste protettore. E questa fede medesima, che da Lui hanno ereditata per la grazia di Dio, sarà a loro, come deve essere per noi tutti, luce e forza divinr a rendere perenne la memoria del loro caro, rinnovellando nella propria la sua vita cristiana intemerata e pura, perchè tutta la sua famiglia terrena sia fatta degna di riadunarsi con Lui nella casa del Padre Celeste».



Ricordatevi di comperare il 32.mo fascicolo dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI che uscì nella scorsa settimana.