Il buon cuore - Anno X, n. 41 - 7 ottobre 1911/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 41 - 7 ottobre 1911 Religione
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ANTONIO STOPPANI

IN UN SUO EPISTOLARIO INTIMO

Quando la storia, le opere, la fama d’un grande ingegno ed il tempo elevano l’uomo al disopra della folla, come il gigante della favola che tocca solo con un piede il terreno e col capo spazia nell’infinito, l’ammirazione nostra devota ed intensa verso di lui, è amareggiata da un senso ineffabile che ha in sè lo spasimo della nostalgia. Ci sembra ch’egli sfugga alle leggi della vita normale ed umana, che non abbia nulla in comune con noi, e che perciò non potremo mai comprenderlo pienamente. Il letterato, lo scienziato, il filosofo, l’artista mettono quasi sempre nell’ombra l’uomo e la coscienza chiara di questa distanza diviene, per noi, cruda e dolorosa. Ecco perchè interessano profondamente le lettere intime che non furono scritte per tutti, che sono la rivelazione sincera dell’anima ad uno solo, che mettono a nudo le sue luci e le ombre, i dolori e le gioie, i dubbi e le speranze, gli scoraggiamenti e le audacie, a cui nessuna creatura umana sfugge e che sono anzi il nimbo di luce ove gli spiriti eccelsi ed umili palpitano, accomunandosi nel grande dramma unico della vita. Esse, riavvicinando a noi le grandi creature, le afiratellano al resto dell’umanità pur conservandone intatta la grandezza e quasi sempre accrescendola di nuovi elementi necessari.

Nel XX anniversario della morte di Antonio Stoppani, Angelo Maria Cornelio e Giuseppe Morando pubblicano le lettere che il grande scienziato e l’ardente patriotta scrisse all’amico suo, il Padre Cesare Maggioni, nell’intimità più che fraterna che concede l’amicizia1. A parte l’interesse che esse destano per la questione rosminiana di quei tempi drammatici, non si sfugge ad un’attrazione spirituale caratteristica, di religiosa simpatia verso la veneranda figura d’un uomo che amò la verità, l’ideale e l’Italia, non solo con la frigida ammirazione della mente acuta e severa dello scienziato e d’un’anima retta, ma col calore dell’entusiasmo e della dolcezza.

La testa bellissima che abbiamo conosciuto fin da bambini sulla prima pagina del Bel Paese, libro meraviglioso che ci svelò, per il primo, bellezze e tesori sconosciuti della nostra terra e specialmente dei luoghi cari a Manzoni, delle Alpi boscose, dei picchi eccelsi, dei dirupi fantastici, dei ghiacci azzurri, eterne fonti di fiumi e di torrenti, dei colli fioriti, dei laghi ridenti; si anima di tutte le espressioni più intime, dì tutti gli affetti più commossi ed il viso aperto, i capelli candidi, la fronte intelligente e franca, gli occhi luminosi e dolci ringiovaniscono al fuoco gagliardo di un’anima battagliera e generosa, ferrea e sensibilissima, d’un carattere fiero e dolce insieme, rimasto integro dopo bufere terribili d’ingiustizie e di dolori. L’abbandono sincero nell’amico, la gajezza limpida che anche negli affanni sboccia improvvisa ed affettuosa sul labbro, come un zampillo d’acqua purificatrice, l’evidenza trasparente dello stile, per cui tra rigo e rigo e nei segni convenzionali delle parole s’intravvedono le profondità [p. 322 modifica]dell’anima limpidamente, come stelle nel turchino del cielo; la spigliatezza pittorica del linguaggio vivace ed immediato, ne fanno un’opera psicologica e letteraria di vero valore; avvicinando qua e là, per sprazzi di luce, sfumature di colori, lampi di sorriso ed acutezza di bonomia, sui giudizi del mondo e degli avvenimenti umani, l’anima del grande Lecchese a quella di Alessandro Manzoni.

Le calunnie e le ingiustizie, avvelenate dalla passione e dai contrasti, rombarono su lui con suono cupo ed ira di turbine; ma l’anima, amareggiata e sdegnosa, non piegò un istante e rispose all’accanimento ed alle maledizioni dei nemici, colla forza magnifica del carattere; le parole dolenti dette all’amico nell’ora più angosciosa della solitudine e del vilipendio, sono lo sfogo umano di chi soffre, la ribellione naturale d’uno spirito retto ed acuto, che scruta con sicurezza ciò che per gli altri è ancora avvolto nella nebbia dell’ignoranza e della passione; sono l’invocazione accorata che ognuno di noi che abbia sofferto, ha lanciato nello scoraggiamento e nella prostrazione morale a chi sapeva comprenderci e confortarci; il nobile grido di rivolta contro ogni espressione di male ed anche contro le proprie angustie e debolezze. Tutte queste lettere, perciò, pur essendo l’eco fedele d’un periodo turbinoso per avvenimenti e dissensi filosofici, politici e religiosi nella nostra Patria e quindi pagine vige di storia, accolgono in sè il calore d’un dramma psicologico interessantissimo, senza finzioni ed impurità e sono il documento più prezioso per giudicare ed apprezzare l’anima d’uno dei migliori figli d’Italia. Le sue «peripezie d’animo — com’egli le chiama — le disillusioni, le battaglie» che, venendogli in ispecial modo da vecchi amici, lo addolorarono e sdegnarono maggiormente, ci rivelano, in maniera più compiuta ed in una luce di bellezza ideale lo spirito del grande Italiano, nella cui anima ardente, la verità della scienza, la purezza della religione, l’amore fervido per la patria si fusero in tale armonia meravigliosa che i suoi contemporanei, offuscati dal presente, non potevano comprendere, ma che noi dobbiamo ammirare intensamente.

Nella guerra mossa in questi tempi contro il Rosmini, ch’egli venerava, fu cavaliere leale e senza paura; le calunnie, gli assalti, lo scherno lo accompagnarono, sì, come ombre cupe; ma l’apostolo battagliero dell’idea non tremò, nè si ritrasse; egli pioniere di nuovi tempi, sentì la santità dell’opera e nessuna minaccia potè togliergli la tranquillità e l’impavida fermezza della coscienza e dell’azione. Oggi in cui la figura del grande filosofo di Rovereto s’eleva magnifica nella coscienza d’ogni italiano, l’eco della dolorosa guerra è fortunatamente spenta; ma non deve spegnersi quella della voce di Antonio Stoppani il quale vagheggiò ed amò il suo bel paese con anima di scienziato, di artista e di patriotta.

Nel 1848, durante i prodigi delle Cinque Giornate di Milano, egli convertì un dormitorio del Seminario in una fabbrica di palloni destinati a portare il fuoco dell’insurrezione fuori della città ai parroci ed alla gente della campagna e prendeva parte, coi compagni all’episodio memorabile della eroica città. Più tardi partì, come volontario per l’assistenza dei feriti nella campagna del 1848; finchè nel 1853, al ritorno degli austriaci venne espulso dal Seminario di San Pietro Martire ove insegnava grammatica latina, ebbe preclusa dal Governo austriaco la via, non solo dell’insegnamento pubblico, ma anche di quello negli Istituti privati, sicchè dovette andare come precettore presso il conte Francesco Porro di Como, mentre, giovanissimo ancora, continuava, nelle ore libere, ad occuparsi con fervore sempre crescente delle ricerche e degli studi scientifici prediletti.

Nel 1859, allorchè gli austriaci furono finalmente scacciati dai nostri, egli potè ottenere, senza esami, dal Governo di Torino, l’autorizzazione all’insegnamento della storia naturale, mentre l’esultanza patriottica gli dettava un ispiratissimo inno sugli avvenimenti fortunati svoltisi dal 59 al 61: l’Addio all’armata francese. Nel 1866 interruppe opere e studi per seguire l’esercito italiano, nella guerra contro l’Austria nelle provincie venete e si arruolò nelle ambulanze milanesi sotto l’insegna della Croce Rossa e sempre s’adoprò per la grande opera dell’Italia stretta, nella sua unità indipendente, a Roma eterna; finchè nel 1876 fu sollecitato dai concittadini che lo veneravano, ad accettare il mandato di rappresentare il collegio di Lecco al Parlamento Nazionale.

Le ire dei nemici, le lettere di disapprovazione e le accuse di ambizione amareggiarono allora lo Stoppani, venerando per età, per dottrina, per carattere, per religione, per patriottismo; ma egli resistè nobilmente, risoluto a fare ad ogni costo quanto la coscienza giudicava lecito, nonostante il giudizio degli uomini. «Quando fossi certo d’essere giustificato davanti a Dio, affronterei tutto coraggiosamente nella speranza di bene per la Chiesa e per la Patria» confidava egli all’amico carissimo il 25 ottobre di quell’anno; ma il destino non volle e quattro giorni dopo egli scriveva ancora al Maggioni poche parole tristi: «Mi trovo qui a Milano quasi in esilio, venutoci ieri, dopo aver rinunciato alla mia candidatura. Tu già capisci il resto. Ho conosciuto un pezzo di mondo di più: ma anche questo pezzo l’ho trovato assai brutto e cangrenoso. Sono tranquillissimo, non avendo nulla da rimproverarmi in tutto questo scompiglio». Nelle ore dolorose l’amicizia, la purezza della coscienza, la fede e gli splendori della sua terra ne sostenevano lo spirito; per cui dopo brani tristissimi nei quali l’abbandono e lo smarrimento hanno accenti accorati d’angoscia, la poesia dell’anima, purificata dalla sofferenza, riapre le ali e s’innalza fervida ancora, ancora giovanile, fino a lambire le vette eccelse dei ghiacciai alpini ed a sciogliere, dopo il tocco rigeneratore, l’inno dell’entusiasmo alle bellezze d’Italia che gli erano note come a nessun altro. «Quante volte, nella solitudine della mia stanza, sento il richiamo a’ miei monti, e parmi di esser portato a volo su quelle cime! È un richiamo febbrile, tuna fantasia crudele, un fremito, una sensazione nervosa, indefinita che mi ammala. La nostalgia [p. 323 modifica]dev’essere qualcosa di così fatto. Vorreste volar là... là... e intanto spingete lo sguardo dalla finestra e fate una corsa al bastione, a passare in rivista quelle cime, quelle nevi lontane. Il vostro sguardo si ferma con predilezione sulle vette da voi già salite e aguzzate la pupilla per iscoprire, nelle ombre e nelle lumeggiature di quei rilievi, la traccia invisibile dei sentieri percorsi». E, divenuto poeta, lanciava al suo Resegone e ai suoi laghi l’addio commosso che richiama giustamente ad Angelo Maria Cornelio quello di Lucia: «Addio, Alpi sublimi, indorate dai raggi del sole nascente, incoronate di nevi eterne, da cui si staccano, strisciando, come azzurri serpenti, i ghiacciai! Addio sorgenti perenni di torrenti e di fiumi che si appianano a pie’ dei monti in limpidi specchi, usi a riflettere nel loro azzurro una delle più belle porzioni della terra e del cielo!

Graziella Monachesi




La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.




Ancora sull’isolamento

della Basilica Ambrosiana

— A quando la realizzazione della luminosa idea? — A che punto si trovano i lavori? — Cosa si fa al presente? etc. ci si domanda da cento parti, con interesse, con insistenza e con maliziose insinuazioni anche. Qualcuno un po’ più ardito ci prospetta le proverbiali calende greche.

Ecco, la realtà delle cose nell’ora presente si presterebbe purtroppo ad insinuazioni ingenerose e peggio. Si è abbattuto molto di quelle turpi catapecchie sorte come un’immonda fungaia attorno al mio bel Sant’Ambrogio. Dal lato destro di chi guarda la Basilica è già sorto il locale dell’Oratorio maschile; e l’isolamento, se non la vista a distanza, è già un fatto compiuto; ma verso la piazza e la caserma, dopo l’opera febbrile di demolizione, si è lì colle mani sulle anche, in attesa di ordini sul da farsi per le abitazioni del Clero della Basilica Ambrosiana.

Poichè la parte più imbarazzante del progetto è appunto la sostituzione delle abitazioni del Clero condannate a sparire. D’accordo nell’idea che il Clero che presta servizio nella Basilica, debba per comodità sua e dei fedeli abitare vicino alla Basilica stessa, non lo si è del pari sul genere di abitazioni da costruire.

Alcuni, con una fantasia briosa e tutta preoccupata di allegerire la tetra severità e pesantezza della costruzione medioevale, pensarono di far sorgere sull’aerea circostante la Basilica, trasformata in un immenso parterre d’un bel verde tenero, e vellutato e morbido, diversi villini, non so se in stile floreale o liberty od altro, certo però leggeri, trasparenti, diafani come tenui sfumature. L’occhio ne sarebbe soddisfatto, vi riposerebbe cullato nelle più deliziose sensazioni di freschezza, di riposo, di blandizie.

Altri avvisava fosse più savio consiglio completare il così detto portico bramantesco, che gli Sforza, nel maggior fervore di lavoro dovettero lasciare interrotto dopo appena costruito un lato, quello adossato alla Basilica.

Ma quelli dello stile leggero, aereo, vaporoso — così bene intonato colla stagione tropicale che attraversiamo — a protestare che un fabbricato sul genere del portico sforzesco, un castello, un maniero, una fortezza, sarebbe qualche cosa di così opprimente da spaventare: oltre l’altro inconveniente di coprire e chiudere la vista della Basilica invece di metterla in vista ed isolarla.

E le due parti contendenti si affannano a far prevalere le vedute proprie e gli errori altrui, e il dibattito sospende i lavori differendoli sine die. Ma quello che è strano è questo, che sembra che chi dovrebbe imporre una volontà definitiva, pare che la riceva; chi dovrebbe precedere a capeggiare, segue e pare si lasci rimorchiare. Questa apparenza di inversione di parti non suona certamente bene a chi non conosce tutta la questione complessa. Suona certamente male l’inazione e la causa che la produce. Suona malissimo l’incoerenza tra la febbre dei ristauri dell’edilizia medioevale che abbia un pregio, e la disinvoltura con cui si condanna il progetto del portico bramantesco che, se non altro, è senza confronto più serio, più comodo ai reali bisogni del Clero di servizio alla Basilica, più tispondente alla gravità della vetusta chiesa, che non i villini stile svizzero o altro.

E allora col portico bramantesco non si raggiunge la finalità dell’isolamento del Sant’Ambrogio.... Rispondo che non la si raggiungerebbe neppure coi villini svizzeri, floreali o liberty, con tutta la loro trasparenza cristallina; perchè resterebbe sempre ad impedirne la vista, il lato del portico bramantesco esistente e adossato al lato sinistro della Basilica; a meno che quei signori che si sdilinquiscono, che delirano per i villini, con un gesto iconoclasta abbattano anche quel lato di portico spazzando via tutto per mettere in vista la parte esterna della Chiesa tuttora coperta.

Questo in linea d’arte; ma c’è dell’altro anche in linea morale: una sconvenienza enorme. È sconveniente che abitazioni di sacerdoti vengano sparpagliate qua è là ed esposte a tutti gli sguardi indiscreti; è sconveniente che quelle abitazioni abbiano una veste molto poco grave, poco conforme a chi la deve abitare ed invece più adatte ai signori, se non anche a persone equivoche, certo ai raffinati di gusto.... No? Via, a questo mondo si può, anche non volendo, suscitare delle impressioni disgustose; certo quel disgraziato progetto dei villini l’ha suscitate in parecchi che s’interessano al decoro dei monumenti cittadini e un po’ anche del clero.

Preziosillo.




Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.


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Storia breve di un’anima penitente


(Continuazione, vedi n. 40).


Eppure il suo cuore non era pago ancora. La carità è come un oceano dalle sponde dilatabili, che si allargano sempre più, quanto più i fiumi vi portano acque. Ella guardò con la sua penetrante pupilla di santa, al di là della cerchia de’ suoi poveri, tese l’orecchio e colse un immenso sospiro e un immenso lamento venienti dalla società addolorata.

Fu quello un momento solenne nella storia della nostra Santa. Fu un momento di creazione. Dio forma qualche volta, traverso i secoli, certi cuori con tale impronta del suo amore, da farne riconoscere, per quanto è permesso a creatura, la vena inesauribile e infinita. Rinunciando a una paternità e maternità fisica o arrestandosi in essa perchè fermati dal palpito nuovo, divino, che dentro si è loro accesso, pensano a una paternità e maternità spirituale. Figli i più ardenti del loro tempo e della loro patria, i più generosi per la società e per la Chiesa, essi vengono avvicinati tra loro da quella stessa inclinazione e da quel magnete divino che Dio ha loro donato. In una purezza di affetto quanta può venire dal cuore di Gesù Cristo che la crea, dalla mortificazione e dalla santità di cui si nutre, essi diventano quelle sorgenti di vita che noi chiamiamo riverenti, i fondatori di ordine. In queste grandi opere, voi vedete quasi sempre unite le forze di due cuori di santi, e quando uno solo di essi compare, è perchè l’altro si è nascosto e fermato presso i tabernacoli, oppure, dopo di averne disegnate insieme le grandi linee, si è confuso tra le file dei combattenti per la Chiesa, per morire da semplice soldato, felice di sentire su quelle stesse campagne un canto di vittoria che erompe dai petti chiamati da lui più vicini alla bandiera.

I fondatori di ordini religiosi sono una prova della indefettibile santità della Chiesa.

La nostra Santa doveva avere anche questa aureola: manifestò i suoi divisamenti di fondazione al P. Giunta suo confessore. Egli la capì e l’aiutò. Nasceva così l’ordine delle Poverelle, che la Toscana conobbe. Ella non fu paga; gettò le basi della Fraternità della Misericordia, divenuta un’incarnazione della pietà per ogni sorta di sventure. Fondò un’ospedale in Cortona; vi mise le prime sue figlie, alcune convertite a sua imitazione, come la beata Margherita da Siena, altre venienti dalla virtù per ascendere a gradi più alti, come donna Gilia, suor Adriana, la nobile Manentessa. Cavalieri i più illustri e dame le più gentili, come Uguccio Casali e la nobile Diabella, presero a tutela la nuova istituzione e così un forte palpito di benessere e di vita evangelica pulsò nelle vene di Cortona.

Ma non dovevano finir qui le prove della carità della nostra Santa. Guelfi e Ghibellini si rodevano in città. Ella era in pena. Due volte scoppiarono in guerra, che suscitò gridi di spavento per tutta la Toscana. Donna, non potendo uscire tra le spade, vi mandò il Giunta che predicò sulle piazze; santa, lo accompagnò con la preghiera fino a che vide comporsi la pace. Ella guardò ancora più in alto: l’imperatore Rodolfo d’Asburgo e Carlo d’Angiò, Re di Napoli, rovesciavano eserciti nella Romagna. Papa Nicolò III vedeva l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna, in pericolo per questa guerra, scongiurò la pace, crebbe invece l’odio; ma quella fu un’altra ora della nostra Santa. Ella si gettò davanti a Gesù Cristo come una vittima, e pregò, e pianse, e infieri contro se stessa con la penitenza in modo che il cuore di Dio ne fu tocco. Così si venne alla pace.

E ciò che più commove è che in mezzo a queste sovrane carità fatte a popoli e a nazioni, ella amava aggirarsi per le più miserabili stamberghe e per le corsie dell’ospedale a raccogliere tutti i gridi, tutte le lagrime, a confortare le anime abbattute, con parole che ella sola sapeva dire e che sole sapevano sollevare.

Ma la si vedeva dimagrire sempre, farsi più pallida: il segreto lavoro di penitenza che non la scompagnava mai, rodeva quella preziosa esistenza di non ancora quarant’anni.

Qualche volta le amiche sue la scongiuravano piangendo di aversi pietà. Ella ringraziava, gentile sempre, buona sempre, ma finiva con un sorriso di pace mesta, che pareva una luce di tramonto in cui ella richiamasse il mattino della sua vita e persuadesse tutti che aveva fatto ancor troppo poco nella sua giornata di penitenza e di carità.

Non era però una mestizia che accasciasse, la sua, poichè Dio le era largo di tali favori, che le innondavano il cuore delle gioie più pure. Quante volte le sue lagrime di penitenza le si arrestarono a metà il corso per un’intima carezza di Gesù Cristo che la metteva in estasi nella sua chiesa prediletta di S. Francesco, o nella sua cella. Il perdono de’ suoi peccati, dopo la prima sua confessione generale e dopo la seconda, durata otto giorni, le era stato assicurato da Gesù Cristo stesso. E un dì, stremata per le penitenze e pur vedendo per sempre perduta quella integrità che ella avrebbe voluto consacrare al suo Sposo celeste, si senti dire da lui: Io ti terrò in cielo insieme con le mie vergini.

Così Iddio restituisce per la grazia, ciò che per la natura è distrutto, e riconferma l’onnipotenza creatrice della contrizione e dell’amore.

Ed ora che la nostra Santa non solo si è riabilitata a se stessa, ma ha riparato a sovrabbondanza nella società mediante le sue eroiche effusioni di carità, un’altra gioia, e tutta in rapporto del cuore, le mandò Iddio come sigillo della sua approvazione e della corrispondenza dell’amor suo.

Io chiamo voi specialmente, o madri, a questa scena:

La Santa è tutta sola nella sua cella in un’ora di prezioso raccoglimento. Fuori tace la campagna. Un giovine frate arriva alla sua porta; batte con la mano che trema come gli trema il cuore; gli è aperto. Le avevan detto da molti anni che egli si era suicidato. No, no, egli era morto unicamente al mondo. Ora egli è in ginocchio; ella gli tiene le mani sul capo, entrambi [p. 325 modifica]vestiti di S. Francesco. Due sole parole rompono le lagrime e il silenzio di quel santuario: figlio! — o mamma!

Non temete, o anime, nelle vostre generose donazioni, nelle vostre privazioni che vi lacerano il cuore. Dio è padre, è madre, e amico, ha viscere di bontà, di tenerezza inesauribile. Date e vi sarà dato in misura piena e colma e sovrabbondante. Ogni vostra lagrima, ogni voce d’angoscia pei vostri distacchi, sono contate da Lui ed egli è impegnato a non mostrarsi meno generoso di voi.

Trovato così anche il figlio in una rigenerazione completa di tutto il suo sangue, ella poteva ben dirsi felice. E lo era nel suo significato più bello. Ma era precisamente questa felicità di sentirsi tutta rifatta in Gesù Cristo, che suscitava in lei un bisogno più ardente, più sentito, un movimento più accelerato del cuore per la brama di andare finalmente al possesso svelat’o e completo di Lui che amava e dal quale era tanto riamata. Era felice, eppure non era quieta, come il pellegrino che vede vicina la patria sponda e gli tarda il momento di raggiungerla.

A un chilometro da Porta Berarda, quasi sulla vetta del monte sul cui fianco si adagia Cortona, biancheggiava tra i verdi la povera chiesa di S. Basilio, ormai distrutta dagli anni e dalle tempeste. Da qualche tempo la nostra Santa vi si sentiva attratta, e fermandosi tra le campagne a guardarla, ricordava la Cantica e il suo nido tra i forami della pietra.

Seppe che vicino esisteva una misera casa. Decise, e il i maggio del 1288, malata e raggiante, vi si trascinò pensando di finire là i suoi giorni penitenti nell’addio di ogni creatura, nell’assorbimento completo del suo Diletto.

Nove anni di dolori tremendi fisici e morali l’attendevano lassù, portata quasi tra cielo e terra come Cristo nella croce. Iddio la amava troppo per aspettare dopo morte a darle l’ultima purificazione. Facendosi ogni di più intima l’unione, la natura divina, che stava per assorbirla ne’ suoi splendori, doveva spezzare anche i fili più santi che la tenevano legata alla terra.

Parte del popolo incominciò a raffredarsi nella riconoscenza e nell’affetto verso di lei; non seppe guardare traverso il divino mantello del dolore che la copriva e vedervi sotto il cesello di santità che riceveva gli ultimi ritocchi dal Supremo Artista.

A poco a poco si giudicarono stranezze le sue penitenze, follia i suoi ardori di carità. Quella eroina fu derisa, e la sua povera ultima cella ebbe l’onore di attirare la sassaiola della strada. Un dì le pietre volarono entro la finestra e la colpirono sul suo povero giacilio. Cara, cara e grande, che dicesti, con gli occhi più umidi: — finalmente mi hanno conosciuta — !

Anche i figli di S. Francesco che l’avevano accolta fin dal suo primo convertirsi, che le furono angeli, che le diedero il santo amico della sua santità, si ritirarono alquanto a poco a poco da lei. Tutti via, tutti via. Oh disegni adorabili del Divino Sposo, geloso di quella bellezza! Dapprima fu imposto al P. Giunta che vedesse una volta sola alla settimana la povera malata, poi si vollero le visite più rare. Ella capiva, e co’ suoi sguardi gli diceva: — finiranno con allontanar vi del tutto. —

(Continua).

Can. Pietro Gorla.



La «GIOCONDA» di Leonardo da Vinci


IL MISTERO DI MONNA LISA

Ancora intorno alla tela meravigliosa che il tempo aveva un poco oscurato, ma donde gli occhi contemplatori potevano attingere sempre l’ultima gioia della bellezza, come l’acqua pura da uno zampillo puro, perennemente rinnovato, e sempre simile a se stesso, ancora intorno alla Gioconda prodigiosa, il mistero non è stanco d’intrecciare le sue maglie oscuramente strane. Il quadro leonardesco di Monna Lisa è stato rubato dal Museo del Louvre! Ciò sembra più inverosimile di molte delle leggende di cui ha fatto vaneggiare le genti quella femminea creatura immortalata dall’arte. Ma quelle leggende, anche se strane, anche se audaci, erano belle; mentre quella del furto, ahimè (che pare una favola pur senza esserlo) quella è incomprensibile e triste e volgare anche.... Come fu tolta Monna Lisa dal suo melanconico trono di esiliata (ella nata sotto il cielo di Napoli, vissuta fra le leggiadrie di Fiorenza cinquecentesca!) come fu compiuto l’incredibile gesto, forse, chi sa?, noi potremo sapere domani; ma ci sembra che non mai potremo comprendere a pieno il perchè fu consumato l’atto delittuoso. Oh! vi sono ancora ladri così ingenti, da confidar sì facilmente nel trafugamento di un quadro, per una conseguente possibile vendita nei domini d’oltre oceano? Eppure l’impresa deve apparire abbastanza difficile ai nostri giorni, e molte esperienze recenti hanno dimostrato che è anche alquanto pericolosa. E non ostante ciò Monna Lisa fu rapita, e noi pensiamo, ci chiediamo con stupore ove mai, ella, in questo momento, dispieghi il suo meraviglioso enigmatico sorriso.... Forse — ipotesi strana questa, ma non più del furto che fu compiuto — forse, l’immortale Gioconda fu tolta al regno suo silenzioso, da qualche folle innamorato della bellezza sua. Chi sa, che non v’abbia qualche sacrilego pazzo che si sia illuso (ciò non diminuirebbe naturalmente la gravità della colpa) di poter vedere, godere egli solo: egli solo penetrare il mistero di quel singolare sorriso fatto di umanità e di spiritualità ad un tempo!, egli solo misurare in una contemplazione interminata, la potenza di quell’opera che il Vasari disse «dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice, e sia qual si vuole».

Monna Lisa, se voi poteste ascoltarmi, se voi dalla prigione oscura ove certo siete ora confinata, se voi, poteste udire ora la mia ipotesi fantastica, voi che sola sapete il mistero del rapimento vostro, forse sorridereste più volentieri di quella tenue ironia che corre con vero, inestinguibile guzzo di vita sulle vostre labbra perfette. La vostra figura chiusa, quasi fredda in apparenza, disposta in atteggiamento di calma perfetta, è tanto, tanto in contrasto — non è vero? — con le tormentate creature, che la nostra arte ora predilige: che le genti sono adesso abituare ad ammirare. Il [p. 326 modifica]vostro mistero, Monna Lisa, che non fu mai penetrato, non sarà disciolto neppure oggi, che con intenso ardore si torna a pensare di voi, alla vostra semplice storia, alla vostra meravigliosa e calma bellezza. Nel timore torturante di aver perduto, forse per sempre, il tesoro di cui voi, siete l’immortale depositaria, — con la profondità viva del vostro sguardo, con l’armonia meravigliosa del vostro volto puro, con l’espressione magnetica della vostra bocca eloquente, tornano ora le anime, ed i cuori assetati di bellezza alle scaturigini fresche di una sincera semplicità, onde andate voi altera, Madonna Lisa. E dinanzi al ricordo della vostra fronte serena, scompaiono in:un istante tutte le altre donne che piangono e che sorridono per virtù d’arte. E rammentano anche, i risorti adoratori degli incanti vostri, chi voi foste, quando Leonardo compì l’opera meravigliosa. Ma, Monna Lisa Gherardini, terza moglie di Francesco del Giocondo, che in Firenze posaste davanti al cavalletto di Leonardo, quando egli già sulla cinquantina vedeva declinare quasi la vita, mentre l’ala del suo sogno non aveva toccato ancora i cieli meridiani, voi non potete dire, e non direte mai alle genti, fino a che punto aiutaste l’artista prodigioso ad avanzare verso l’ideale suo alto, sì alto, che tutti lo ritenevano folle: ed è pure quello ancora, che gli artisti hanno smarrito talvolta, e non raggiunto mai. Nessuna donna, io so, come di voi, o bellissima, fu tanto fantasticata e sognata. Quante volte, attraverso le rinnovantesi generazioni, fu a voi chiesto il perchè di quell’espressione fra lieta e pensosa che dà luce e colore di sentimento, di vita fino al paesaggio che è a sfondo della vostra immagine superba? Monna Lisa — fu scritto — occupa nell’arte moderna, il posto che nell’antica la Venere di Milo. Ma non v’è chi non senta la superiorità di questa, che una così intensa e pura espressione di vita (quale l’arte cristiana aveva consacrato) chiude negli armoniosi lineamenti. Non più il solo simbolo della bellezza corporea, rappresenta questa creatura perfetta ma l’intensità, la complessità di un’anima che attraverso ogni tratto della fisionomia, ogni dettaglio della figura, ogni accessorio dell’abbigliamento, si rivela. Si narra, che essendo Monna Lisa bellissima, Leonardo usasse tenere mentre la ritraeva «chi sonasse o cantasse e di continuo buffoni, che la facessero stare allegra, per levar via quel melanconico che suol dar spesso la pittura a’ ritratti che si fanno; ed in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana il vederlo, ed era tenuta cosa meravigliosa, per non essere il vivo altrimenti....».

Sì, Madonna Lisa, non è il vivo altrimenti da quello che è ritratto nella nostra effigie, ma non è quel vivo che rivela la presenza di giullari o di buffoni, quello che anima il vostro volto ridente che sembra esprimere con sottile, mirabile ironia, la gioia del chiuso mistero impenetrabile.

Ma non saprai giammai perchè sorrido, e sembrate rispondere piuttosto, o Madonna, a chi osi pensare, che quella vostra espressione fosse suscitata da lazzi burleschi. Oh! essi potevano anche esserci nella bottega di Messer Leonardo, ma non ad essi rispondeva per certo la vostra bocca, e tanto meno il pensiero dell’artista, che colse dalle vostre labbra il raggio sottile dell’anima radiosa, nascosta dietro lo scherno della bellezza, per gittarlo, fino all’orizzonte, amplificarlo in fasci luminosi, diffonderlo come un limpido velo di rugiada ristoratrice sul paesaggio, che è animato di voi stessa, che è armonizzato, con voi, come lo sono i cieli con gli attorti monili stellari. Senza dubbio Leonardo che trasse dalla natura infiniti aspetti della bellezza e dell’espressione virile, da quello dolcissimo del Salvatore nella Cena (ed è anzi tutta la Cena una meraviglia di atteggiamenti e di teste diverse) a quello dolorante ed estasiato nell’ascetica penitenza del San Girolamo, Leonardo, si è ripetuto assai volte nelle figure femminili. Ripetuto? Avremmo dovuto dire piuttosto: ha cercato la perfezione iteratamente attraverso la stessa figura.

Monna Lisa ha per quattro volte almeno tentato il pennello di Leonardo, il quale si dice pinse un ritratto di lei, che esulò anche esso in Francia, facendolo ricoprire, — onde dissimulare la dolce immagine preferita, che solo più tardi fu ritornata alla luce — da uno strato di cera, su cui era dipinta un’immagine di assai mediocre fattura. E l’artista che i suoi allievi, i suoi ammiratori stessi accusavano di volubilità, da voler fare molte cose a un tempo, di lasciare incompleti i suoi lavori migliori, di fantasticare troppo, e di scoraggiarsi anche sovente, ha invece con intenso ardore perseguito la perfezione di un’immagine feminea. Oh! senza dubbio molto la fantasia popolare e la leggenda si è sbizzarrita intorno a questa ostinazione passionata d’artista; ma la composta e pura figura della Gioconda ha conservato il dignitoso suo aspetto, ha tenuto alta la sua fronte aperta e chiara, dinanzi agli sguardi scrutatori, indagatori, e le sue labbra non si son dischiuse oltre il sorriso meraviglioso ed enigmatico. Onde a noi che della vostra sorte nuovissima passionatamente fantastichiamo, dolce Gioconda, a noi che vi seguiamo col pensiero per gli oscuri baratri ove vi ha ora trascinato l’avidità e la follia, noi che ammiriamo e ci rinfreschiamo alla vostra grazia primaverile, dopo quattrocento quindici anni, da che sorgeste, perfetta e completa dalla tela, noi possiamo ancora pensarvi come una di quelle pure e serene figure di ispiratrici che additano agli uomini le vette più luminose.

Che c’importa sapere perchè così sorridete? Non si scioglierà mai il mistero, come non si sciolgono del loro molle atteggiamento le vostre mani, dolci, le vostre mani incrociate, dalla linea pura, dalla bianchezza che par tessuta di velati raggi di luce. E noi, oggi tremando di voi e per voi, per la vostra immortale bellezza, per il meraviglioso segno dell’arte nostra italica, che recaste imperturbabile attraverso i secoli, noi Monna Lisa, vi vagheggiamo così come volle un poeta francese, che pensò chiuse nell’anima muliebre tutte le armonie misteriose dell’universo, le preveggenze ascose dell’anima che misurano senza saperlo le grandi forze chiamate alle opere immortali, ai grandi gesti miracolosi, onde ha impronta novella la umanità. Leonardo, [p. 327 modifica]nel suo soggiorno fiorentino, molte tempeste dovè attraversare, molte oscure lotte combattere; per il proteiforme suo sogno. Parve in qualche istante, fugace, che taluna di quelle sue aspirazioni folli fosse per condurlo alla sconfitta, per diminuire intorno a lui la fede e l’ammirazione cieca. Egli intanto, però, piangeva il ritratto di Monna Lisa. E Monna Lisa sorrideva, con intensità velata e serena, con una complessità arcana, che rivelava l’accordo di forze e di bellezze contrastanti.

Forse, realmente, la bella creatura, sorresse l’artista nei suoi momenti di lotta, forse il sorriso suo, è il fine sorriso del trionfo dell’altro. E forse ella non con le parole, ma con l’armonia stessa delle grazie sue, disse a Leonardo quel che il francese poeta, fa dire all’evocato immagine della «Gioconda»:

«I marinai di Sicilia raccontano che talora, nella tempesta, scorgono un’isola vestita di sole e di azzurro. I venti e i flutti muggiscono; ma essa naviga calma e radiosa nel suo cerchio incantato. Cerchi di fiamme rutilano sopra le sue cime.... Ma per giungere fin là bisogna superare i marosi. A quell’isola, di là dalla tempesta, tu devi giungere Leonardo.

Teresita Guazzaroni.

  1. Antonio Stoppani nel XX Anniversario della morte — Lettere di A. Stoppani al P. Cesare Maggioni. — Milano.