Il buon cuore - Anno XI, n. 06 - 10 febbraio 1912/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Quando tramonterà la mezzaluna...


Una pagina presaga di Godefroy Kurth


Godefroy Kurth, il grande storico belga che dirige a Roma l’Istituto storico della sua nazione, pubblica nel Correspondant una pagina lirica, a cui l’azione delle armi italiane, in questo momento, aggiunge un interesse vivo. Sono delle note di viaggio al Cairo, dove Kurt ha recentemente pellegrinato. Cercando sovratutto le vestigia della civiltà antica, là dove essa s’intreccia alla civiltà moderna, lo storico illustre s’è soffermato più a lungo ad El Azhar.

La moschea d’El Azhar è, al Cairo, da mille anni l’asilo più florido della scienza e dell’insegnamento musulmano.

Ed eccovi i pensieri che lo spettacolo gli ispira: l’ammirevole conoscenza della storia da quando l’oriente e l’occidente sono alle prese, ha permesso allo scrittore il presentimento della lotta attuale:

«Non descriverò El Azhar: è sempre il tipo semimonastico del santuario musulmano, colle sue mura cieche sulla strada, le sue grandi corti interne a portici, la sua immensa sala centrale sostenuta da una foresta di colonne che formano frequenti navate ed il suo popolo di passerotti garruli e ghiotti che dividono fraternamente con gli uomini il godimento del santuario.

La casa possiede enormi rendite, che sono andate accumulandosi coll’andar dei secoli, con una cifra fantastica di fondazioni e di borse di studi.

A dir il vero, quel luogo fa sognare. Il cuore dell’Islam batte qui in quel 10,000 o 30,000 alunni (non so che pensare di tali cifre) che vengono a prender ad El-Azhar il fuoco sacro del fanatismo musulmano, per portarlo in seguito sino alle più remote estremità dell’Islam. Tutto li mantiene nel culto della tradizione primitiva: tutto parla loro del Profeta, della guerra santa, della dominazione universale dell’Islam; tutto contribuisce a sviluppare in essi l’odio dei giaurri, ma non bisogna lasciarsi ingannare dall’aria pacifica e quasi ecclesiastica di quegli studenti dalla sottana lunga, in apparenza dedicati ad un sogno mistico. Sotto quelle palpebre semi-chiuse, in quegli occhi che sembra non vi guardino, in quelle anime silenziose, interamente dedicate alla melopea del loro Corano, si concentrano tanti odi selvaggi contro noi altri europei, empi spregiatori del Profeta, che insultiamo colla nostra presenza i sentimenti religiosi e patriottici di ogni buon musulmano.

«Perciò, quale esplosione il giorno in cui si crederà giunta l’ora! Il giorno in cui, per una ragione qualsiasi, la mano del domatore cesserà di tenere in briglia le anime di questi animali feroci che noi crediamo addomesticati e che sono soltanto intimiditi. E dire che si lascia divampare in pace quel fornite d’islamismo, che si lascia, che quell’arsenale fornisca le armi a tutto il mondo musulmano, mentre si chiudono le scuole cristiane e si cacciano dai loro umili conventi la verginità e la povertà volontarie, unici pericoli, a quanto pare, per l’avvenire della civiltà!

Dopo avere così evocato la visione dei drammi promessi dall’urto dei due gruppi umani — musulmani e cristiani — dal Bosforo fino all’estremità delle Indie e della Cina, il Kurth ritorna eloquentemente indietro di qualche secolo, al punto preciso, in cui s’è spezzata la fibra mistica che in altri tempi lanciò le folle verso la Palestina per la liberazione del sepolcro di Gesù.

«Ed il mio pensiero ritorna, per un declivio naturale, alle «tenebre» del medio-evo. Ah! meglio di noi, gli uomini di quel tempo avevan compreso qual contegno bisognasse assumere di fronte all’Islam! Avevano udito la parola d’ordine di Cesare a Farsaglia ed eran venuti qui per colpire alla testa l’Islamismo. Se il piano di San Luigi si fosse attuato, la Terrasanta era salvata; una civiltà cristiana prospererebbe oggi a Gerusalemme ed al Cairo, grandi nazioni cattoliche farebbero irradiare di qui la fede di Gesù Cristo sull’Asia e sull’Africa.... Ma la vigliaccheria dei re cristiani non l’ha voluto. Sordi alla voce del Papa, che non s’è stancato di rammentare loro la crociata, durante quasi mille anni, essi hanno lasciato l’Islam stendere la mano su Gerusalemme, su Costantinopoli, su tutto l’Oriente cristiano; non han cessato di ingannare il Pontefice Massimo con promesse menzognere per poter impadronirsi della decima della crociata, nè hanno temuto, per vili interessi, di venire a patti col nemico comune. Ed appunto la loro prodigiosa inerzia dinnanzi al problema musulmano ci vale ancor oggi la questione d’Oriente.

Ove mi conducete, ricordi di dolori?... Laggiù, in Italia, sulle sponde dell’Adriatico, in cima alla città d’Ancona, nella cattedrale che sembra figliuola di quella Pisa, e donde l’occhio abbraccia l’ammirevole panorama della terra e del mare. Un vecchio è là, un prete, il vicario di Gesù Cristo. Con gli occhi fissi sui [p. 45 modifica] flutti, egli attende le squadre dei principi cristiani che han promesso di partecipare alla guerra santa, e che debbono riunirsi qui nel porto. Morente, è venuto per benedirli alla loro partenza: vuol partire con essi. Ah come grande e sublime è l’impresa, e qual festa sarà sul Mediterraneo ed in tutto il mondo cristiano, il giorno in cui si tornerà d’Oriente colle spoglie del mostro, sterminato nel suo covo! Ma le ore passino, i giorni si seguono e nessuna vela si mostra all’orizzonte. E allora, quando si è certi che i principi cristiani han dimenticato il loro giuramento, e che non vi sarà nessuna crociata, allora il cuore del veglio si spezza... Pio II muore e l’Oriente rimane musulmano!»

Domenico Russo.

IL CONTADINO E LA FALCE


piccola novella ungherese


Io mi trovavo proprio lì, quando massaro Gergely Csonàk entrò nella bottega del negoziante di ferramenta.

— Bel buon giorno — disse.

— Buon giorno: che vi occorre?

— Ci occorrerebbe una falce.

11 negoziante si affrettò a recargli sulle braccia un gran mucchio di falci. Massaro Csonàk gettò uno sguardo di sghembo su quegli arnesi.

— Dovrebbero darmi la marca «cannone»— disse sdegnosamente.

Il mercante rimise a posto le falci «toro» e ne portò alcune segnate col «cannone».

— Ve ne son pure delle altre — osservò Csonàk, lasciando cader le sillabe dall’alto della sua persona.

Il negoziante gli mostra pazientemente tutte la marche «cannone».

Gergely Csonàk diè un fagace colpo d’occhio sulle falci sparse sul banco, ma non ne avrebbe toccata una per tutto l’oro del mondo. Cominciò a grattarsi in testa.

— Orsù; cosa avete a dire? — chiese il mercante.

— Vediamo un po’; vediamo: bisognerebbe aver qui le marche «toro» — rispose Csonàk.

Si dovettero riportar là di nuovo le marche «toro».

Massaro Gergely parve anche lui un po’ imbarazzato, e prese a caso una delle falci fra le mani.

Chiuse da prima l’occhio destro, e guardò così il filo della falce; poi, chiuse l’occhio sinistro, tenendo verticalmente la falce con la punta in su; indi, la picchiò giù con la punta in basso; in fine, se la sollevò sulla testa, e guardò lungamente con le palpebre semichiuse.

— Quanto costa? — disse con aria indifferente.

— Due fiorini.

— Questa falce? — domandò con ironia. — Non è Possibile._ Una falce come questa?

La posò di piatto sul bancone, e disegnò in aria col dito un manico immaginario per osservarne l’effetto. Poi prese la lama fra il pollice e l’indice, la percosse icon le nocche a più riprese, la tentò come a curva con una mano, la lasciò, la picchiò ancora con la punta in giù; infine la fece piegare sul ginocchio.

— Va là, va là... Due fiorini per una falce simile?

Il mercante giurò di non poterla dare a miglior partito: era il prezzo che costava a lui stesso.

— Non è punto temperata a dovere, sa lei?

— È acciaio inglese, finissimo; non v’è di meglio.

— Mi piglia per gonzo? È una vecchia falce rattoppata.

— È acciaio del meglio. E vivrà quanto voi.

— Se non si sgretola — replicò Gergely Csonàk ghignando.

— Voi non avete avuto mai una falce come cotesta.

— Io?... Io?...

— Ma guardatela bene.

— Devo guardarla? Perchè vuole che la guardi? Una falce è una falce. Una falce somiglia a un’altra. Io non la guarderò. È la prima che mi capita fra le mani. Orsù, carte in tavola! Quanto ne vuole, sul serio? Ho ancora tanti affari al mercato!

— Ve l’ho già detto: due fiorini!

— Ma scusi, è cristiano lei? Vorrei un po’ sapere che cosa rende così preziosa la sua falce?

E ricominciò a osservarla, a mirarla, la fece fischiare; poi se ne andò verso la porta a vederla in piena luce. Sulla soglia si volse per far notare di aver lasciato il cappello sul banco.

Innanzi alla porta, espose la lama ai raggi del sole, che guizzaron lietamente sulla tersa superficie bluastra. Poi si avvicinò la falce alla bocca, vi soffiò su ed esaminò attentamente l’estensione opaca prodotta dal respiro per veder se l’alito spariva subito. Infine, fece tintinnir l’acciaio sul marciapiede.

— Ha un suono curioso — mormorò.

Rientrato nella bottega, si ostinò su questa idea:

— Non mi piace il suono... punto. Vuol lasciarmela per un fiorino e ottanta «kreuzer?».

— Il diavolo vi porti via!... Ecco; vi scemo dieci «kreuzer», prendetela per un fiorino e novanta....

— Impossibile. Non li vale... I miei figlioli mi sconoscerebbero... Si o no?

— Niente di meno.

— Allora... Dio la benedica.

Usci; ma si fermò nel mezzo della via; poi tornò su’ suoi passi, e gridò di nuovo:

— Sì o no?

— No.

Imbarazzato e tentennando la testa, Csonàk si girava il cappello unto fra le mani.

— Oh, io non ho trovato anima al mondo più dura da che ho l’età della ragione. Via; fatemi il piacere: mettetela da parte, in quel cantuccio. Ci ripenserò.

Una buon’ora dopo, lo si vide tornare. Aveva seco un compagno.

— Eccomi qua — disse ansante, asciugandosi il sudore dalla fronte. — Ecco il compare dí mio figlio, Komot Istòk di Doroszrma. Abbiamo pensato che prenderà una falce anche lui; e allora sarebbe giusto, comperando due falci, che ognuno avesse la sua a miglior mercato.

— Non posso dare le mie falci a meno; ve l’ho detto cento volte.

— Ci pensi meglio; non guasti i suoi affari per troppa fretta....

[p. 46 modifica] — Una parola ne val mille.

— Lei dunque non vuol cedere? — disse Csonàk, alzando la voce.

— Non cederò — rispose il mercante con fermezza.

— Allora... insomma? — riprese Csonàk rabbonendosi.

— Basta, ormai; lasciatemi in pace.

— Via, via; non ci lasciamo pigliar dall’ira. Se non vuole parlarmi, mi dia almeno la mano.

Il negoziante stese la mano al contadino.

Tutto allegro, massaro Csonàk la prese, esclamando:

— Come chi si disdice! Affare conchiuso!

Con misteriosa lentezza, si mise o sbottonare il corpetto, senza tuttavia torcer l’occhio dal cantuccio ov’era posta la falce venduta.

— Oh, ve’ — disse bruscamente: — mi pare che questa falce sia più curva e più piccola della mia!

Girò gli sguardi sospettosi su tutti i fattorini della bottega; poi afferrò la falce e la bilanciò con la mano.

— E’ un’altra falce — esclamò severamente. — Il diavolo mi porti, ma questa non è la mia!

E così dicendo, si pose a rinfilare i bottoni di piombo del corpetto.

— Come, non sarebbe la stessa falce? — chiese il mercante. — Andate; non mendicate pretesti, massaro Gergely: finirò col perdere la pazienza.

— Sì, ma sì... Eppure; perchè il Diavolo mi ha fatto uscire di qui? E’ colpa mia? Che farci adesso?

— Ma se dico che è la stessa falce!

— La stessa? E io, gli occhi non ce li ho anch’io in fronte?

Passò il pollice sulla lama, la piegò sul ginocchio, picchiò col dito, la portò sulla via, la fece ancor suonare sul marciapiede, vi soffiò su, la brandì per l’aria sibilante e rientrò nella bottega con l’andatura di una anitra sciancata.

— Non è la stessa falce! Per questa, io non posso dare più di un fiorino e sessanta...

— Non tante ciarle! Se la falce non vi piace, eccovele tutte; pigliatene un’altra.

— Non sarò tanto balordo da darmi tanta pena. Rassegnamoci a questa; ma lei mi toglierà la differenza....

— Basta!

— Allora... come mai? Lei mi farebbe pagare la differenza e io ci rimetterei?... Avrebbe lei cuore....

— Pagate, senza tante storie....

— Bene — esclamò massaro Gergely Csonàk in tono amaro. — D’accordo; ma, almeno, dividiamo la differenza; non voglio aver rimorsi. Dividiamo i quaranta «Kreuzer».

— Non posso dividere.

— Ebbene; eccole il suo danaro! Prenda!

E prese di nuovo a sbottonarsi il corpetto. Profondò a gran pena la mano in fondo alla tasca interna, vi prese il biglietto di un fiorino e lo dette al mercante.

— Voglio subito il resto della somma — disse costui.

Dalla tasca esterna del corpetto, Csonàk trasse un pezzo di venti Kreuzer e da un’altra tasca un pezzo di quattro Kreuzer....

Ma cos’è cotesto? Sono appena ventiquattro....

Csonàk sprofondò ancora la mano nella tasca delle brache, ove afferrò trentatrè Kreuzer.

— Ventiquattro e trentatrè fanno cinquantasette.... Quanto le si deve ancora?

— Ancora trentatrè Kreuzer — disse il mercante.

— Si — rispose Csonàk in aria contrita — ma credo di non averli.

E dicendo quelle parole, spiava in aria di compunzione la faccia del mercante.

— Via... Vale a dire che... Aspetti, aspetti.... Dove li hai messi, caro? Ove si son cacciati, compare?... Ma guarda!... Ecco; nel fazzoletto.

E davvero un pezzo di venti Kreuzer era annodato in una cocca del fazzoletto azzurro.

— E’ l’ultimo Kreuzer, unico caro — disse pian piano. Dove non è niente, il diavolo perde il dente.

— Ancora tredici Kreuzer — pretese il mercante.

— E via! Io non ho avuto la falce che volevo, prima di tutto, e poi, poi, io non ho più un centesimo, perchè ho lasciato il portafoglio nella manica della mia giubba... Lei non vorrà ch’io corra tanto lontano per così poco... La pagherò un’altra volta....

— No; io voglio tutta la somma, o tornerete; la falce non volerà via di qui....

Allora Goriok scoppiò in voci di sdegno:

— Vedete un po’ che credito è il mio! Mio padre e mio nonno eran tutti onorevolmente conosciuti. Io non voglio pietà di nessuno! Non son mica uscito da un letamaio. Gettategli, compare, i tredici Kreuzer!

E, sdegnato, afferrò la falce, dicendo:

— Andiamo, compare!

Sulla soglia della bottega, si volse indietro con occhi furbi, alzò le spalle e facendo brillare la falce ai raggi del sole, gridò con voce sonora:

— Ora son io che la dico a lei: questa era la sua falce migliore.... Le altre non valgono un cavolo!...

(Dall’ungherese di Kálmàn Mikszath.

LA COSCIENZA

Chi l’è che sa spiegamm in pocch paroll,
Cosa l’è la coscienza che gh’emm dent;
Ma la vera coscienza, senza moli,
E minga Tacila ai adattament?


Intant bisogna minga avegh già froll,
Tutt peli che gha rapport col sentiment.
In quanto pceu a spiegalla in pocch paroll,
Siccome ghe concor tanti element,


L’è propi minga fagli; ma però,
Come la senti mi, la disi giò
La coscienza l’è donca on gran controll,


Profondament moral, che sbaglia no
E l’è insti pront, che quand te diset: sì,
Per on quaicoss de brutt, lu’ l dis: Oibò!

Federico Bussi.