Il buon cuore - Anno XI, n. 12 - 23 marzo 1912/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Quando si dice fortuna....


Chiavenna, 17 marzo.

Volge il mese dacchè mi trovo quassù. Fu un tratto insperato di benigna sorte senz’altro; giacchè non capita a tutti di vedersi dolcemente sospinti a lasciar la città per un lungo soggiorno in una zona così privilegiata dalla natura come il Chiavennese. Più d’uno dei lettori del Buon Cuore saprà qualcosa della posizione topografica di Chiavenna; della magnifica corona di monti dalle eccelse cime nevose, cospiranti a formargli il più leggiadro serto; del suo clima saluberrimo; dell’aspetto cittadino e lindo e simpatico del borgo; ora già tutto ridente anche per esuberante fioritura di giacinti multicolori esposti alle finestre; della cortese e gentile ospitalità degli abitanti. A tutto ciò — che non è poco s’ha da aggiungere che, eccettuati pochi [p. 92 modifica]giorni di tempo perfido, venuti ad intercalarsi periodicamente con pioggia fredda, rabbiosa, ostinata, perversa, ci si ebbe finora tutte giornate limpide, fulgide, gloriose. Una primavera precoce con tutto il delizioso corteo di dolci tepori diffusi, di prorompente risveglio della vegetazione sotto i palpiti misteriosi del gran essere della madre terra, del profumo delicato e acuto d’un mondo di viole spiccanti fra i massi o sparse ovunque tra i campi e i prati che verdeggiano del verde più tenero e profumato. I mandorli e i peschi sono tutti in fiore a mettere nell’aria azzurra la nota di gaio sorriso dei vivaci loro colori; i primi augelletti hanno fatta la loro apparizione mettendo tutto in festa il bosco montano scelto a loro dimora. Che ebbrezze di piacere accusa a me d’attorno la ridente natura e come mi invita ad un seducente abbandono tra le sue carezze, ad intonarmi con lei, a sorridere ancora una volta, a ritrovare gli antichi sogni dorati onde fu elettrizzata la mia gioventù, a dimenticare, a deporre la pungente mestizia diffusa come un velo funerario sulla mia esistenza ornai spezzata per sempre!

Va da sè che io rilevo fa fortuna di questo trattamento di favore: non è cosa trascurabile potersi permettere il lusso di una vacanza così lunga, così fuor di tempo, in località incantevoli e col favore d’una stagione magnifica come capita a me di presente. E ne approfitto, dandomi allo sport montano; visitando i dintorni immediati di Chiavenna su cui le sfrenatezze delle formidabili forze di natura hanno lasciato le traccie più visibili, con sollevamenti e spaccature e dispersione di immensi blocchi di formazione vulcanica; andando ai punti di vista più indicati per godere meglio lo spettacolo di questi monti ergentisi come gradinate d’un anfiteatro gigantesco.

Qui tutto mi interessa, dalla storia antica del borgo alle inezie, ai pettegolezzi esilaranti della calma vita quotidiana. Dico storia antica, perchè Chiavenna ne ha una. Chiavenna, capoluogo di mandamento, da cui si diramano le strade per lo Spluga e Val Bregaglia, è l’antica Clavenna dei Romani, da quei nostri illustri antenati conquistata nel 738 di Roma e gelosamente custodita come punto strategico. Dopo il mille si resse a Comune ed ebbe consoli proprii. Bona di Savoia nel 1486 la cinse di mura per difenderla contro i Grigioni e di esse mura esiste ancora un torrione merlato vicino alla stazione. Il Castello di cui restano considerevoli avanzi è nominato in un documento del 995. Fu distrutto dal Barbarossa, riedificato dai Visconti, occupato nel 1500 dai Francesi e nel 1512 difeso contro i Grigioni, infine smantellato nel 1526. Nel 1621 viene in potere degli Spagnuoli per tornare nel 1639 ai Francesi ed ai Grigioni.

Presentemente, soppressi, crediamo per sempre, gli arbitrii, le violenze, le infrarnettenze dello straniero, nella pace e nella tranquillità Chiavenna attende ai suoi commerci e industrie, a sviluppare e raggiungere un ben inteso progresso materiale e civile nella fecondità del lavoro e dello studio, a procacciarsi quel benessere che è mèta di tutti gli uomini.

Non è a dire quanto mi delizii nell’ammirare Chiavenna religiosa; i suoi tesori artistici di carattere sacro; la sua arcipretale dedicata a S. Lorenzo (1538), ampia, sfogata, grave senza pesantezze, malgrado lo stile barocco e l’ornamentazione pittorica dell’istesso stile onde tutta è decorata; le tante chiese e cappelle un giorno appartenenti a’ religiosi, e dopo le soppressioni ufficiate dal clero locale; l’ottagono sito presso la chiesa madre, adibito a Battisterio, nel cui centro si ammira la vasca battesimale, monolito del 1156 al cui esterno si vedono bassorilievi di scoltura rozza raffiguranti il rito del battesimo fatto da un vescovo e tre preti, in presenza di tre personaggi, un nobile, un guerriero ed un artefice che si riterrebbero i rappresentanti il comune di Chiavenna. Davanti all’arcipretale si alza un bell’atrio del carattere dei rari atrii cluniacensi della Lombardia, e si allarga in rettangolo il porticato modesto ma slanciato che cingeva l’antico cimitero. È detto «il portico dei monumenti» per le lapidi mortuarie murate nella parete interna. Molto carino, civettuolo quasi, il cimitero nuovo biancheggiante di monumenti assai eleganti.

Non finisco di ammirare la cosidetta Pace, lamina d’oro finissimo delle dimensioni di cm. 40.4 ✕ 31, riccamente ornata di mosaici, smalti, perle e pietre preziose. Si crede legatura di un messale: è lavoro tedesco del sec. XII, e regalo di un vescovo qui di passaggio. La partitura delle linee e degli ornati e disegni e figure arieggia, per quanto in miniatura, il famoso paliotto di S. Ambrogio di Milano. Per dare idea del pregio di questo cimelio basti dire che inviato all’Esposizione Voltiana di Como, vi fu assicurato per mezzo milione. Nel tesoro della Collegiata si conserva pure un calice d’argento cesellato a pallida doratura (sec. XV) alto cm. 30 con coppa del diametro di cm. 14 base del diametro di cm. 20.5 fregiata di decorazioni rilievi e fogliette a smalto; nodo e coppa hanno scudetti con smalti e figure di santi. Prezioso anche un ostensorio a raggiera del 1705. Ma non è solo a Chiavenna che si trovano cimeli di questo genere; si direbbe che ogni anche più piccola Parrocchia vanti il suo tesoretto artistico. Così Prosto per es., vanta una pianeta di broccato d’oro su velluto, forse già un manto d’epoca remotissima; e poi quel palazzo Vertemate di cui bisognerebbe parlare a parte e a lungo.

Vado dunque pellegrinando anche per curiosità artistica.... ma non finirei così presto di far cenno di tutto ciò che mi delizia quassù, fino a dimenticare che casa mia è altrove. Me ne fanno avvisato rare punture di nostalgia sottile e la visione della bella Figlia di Jefte tutta avvolta di faville d’oro.

SOVRANI COLLEZIONISTI


Tutti o quasi tutti i sovrani sono collezionisti appassionati. La mania della collezione — mania essenzialmente moderna — è diffusa in tutte le classi sociali ed è, in proporzione diffusissima nella classe dei regnanti.

Curiosissime notizie sulle diverse specie di collezioni [p. 93 modifica]alle quali si dedicano i sovrani sono raccolte nell’ultimo numero dell’«Echo de la timbrologie», un giornale, appunto, per i collezionisti.

Mentre a Parigi si vendevano, settimane or sono, i gioielli di Abdul Hamid, una grande Casa inglese trattava a Costantinopoli l’acquisto della collezione di francobolli appartenente all’ex-Sultano, che ha gran bisogno, a quanto sembra, di far quattrini. Abdul Hamid ha dunque tenuto un posto considerevole tra i collezionisti di francobolli. Non si sa se il suo successore, Maometto V, sia anch’egli collezionista di qualche cosa, ma forse gli è vietato di esserlo dai giovani turchi....

Invece, ecco qua, un fulgido elenco di teste coronate che, in una forma o nell’altra, imitan Abdul Hamid. Prima di tutto, i reali d’Italia. Tutti sanno infatti che Vittorio Emanuele III ha una grande passione per la numismatica. Delle sue collezioni di monete antiche è superfluo parlare: essa è, come tutti sanno, meravigliosa. Pochi invece han sentito dire che la regina Elena è anch’essa una collezionista. Raccoglie francobolli, con molta passione; e sebbene si ignori qual valore abbia la sua collezione, si sa però che ella non manca di fare della propaganda filatelica tra le sue dame: infatti, il giornale francese racconta che più di una volta la regina Elena ha ordinato gli albums editi da una grande Casa filatelica di Amiens per farne dono alle sue dame d’onore.

Il principe Alberto di Monaco si occupa oltre che del suo piccolo principato, del regno animale e vegetale marino; ed è noto che egli ha raccolto un ricchissimo museo di oceanografia.

Il re Ferdinando di Bulgaria s’interessa anch’egli del regno animale e vegetale, e colleziona piante, farfalle e fiori, dei quali si occupa egli stesso. Così pure la principessa reale di Svezia e la principessa ereditaria di Romania si occupano di fioricoltura; e la seconda ha magnifiche collezioni di tulipani e di orchidee.

Il re Alberto del Belgio, che ha la laurea di ingegnere, raccoglie macchine: egli possiede nel suo laboratorio tutti i tipi esistenti di apparecchi di telegrafia senza fili e di motori ad esplosione.

La regina Guglielmina d’Olanda possiede una collezione di settanta bambole, vestite nei costumi delle provincie olandesi; e la conserva con grande cura per la sua piccola figliuola. E anche la regina Vittoria di Inghilterra ha una collezione di centotrentadue bambole vestite di abiti confezionati da lei stessa. La vedova dì Edoardo VII, la regina Alessandra, ha raccolto una preziosa collezione di merletti e trecento ventagli di grandissimo pregio: tra gli altri, quelli che appartennero a Maria Antonietta. Per conto suo. Edoardo VII aveva raccolto duecento bastoni da passeggio, d’ogni forma fatti con ogni specie di legno. E un’altra singolare collezione fece Edoardo VII, durante la convalescenza di una malattia: quella dei ritratti e... del peso di tutti coloro che si recavano a visitarlo e che egli stesso pregava di farsi pesare. Egli si divertiva moltissimo quando la bilancia segnava un peso fuori dell’ordinario per qualche principe o principessa del sangue....

Giorgio V, invece, è collezionista di francobolli: il più grande, forse, dei collezionisti di francobolli; e associa alle cure dello Stato e della politica anche quelle della filatelia, promovendo e presiedendo congressi ed esposizioni filateliche. La stessa passione egli ha comunicato ai suoi figli, ciascuno dei quali ha la sua collezione di francobolli.

Alfonso XIII ha imaginato una collezione unica e stravagante: una collezione di oggetti che si riferiscono agli attentati consumati contro di lui! E la collezione incomincia... da un a biberon n avvelenato; prosegue coi resti della bomba sparata dagli anarchici, il giorno delle sue nozze, coi rottami della carrozza ove egli si trovava insieme a Loubet quando avvenne l’attentato di Parigi, con la pelle del cavallo che restò ucciso in quell’occasione.... Una collezione poco allegra, come si vede!

Il re del Siam colleziona... le scatole di fiammiferi, d’ogni forma e d’ogni paese; il sultano del Zanzibar le pendole; il sultano del Marocco fucili, fonografi, biciclette, motociclette, carrozze di gala del secolo XVIII, bigliardi, piccoli battelli a vapore e... animali selvaggi.

Per finire: la regina di Norvegia colleziona i «canards» reali. Essa ha, cioè raccolto tutti gli articoli di giornali che parlano di lei e del suo sposo reale, attribuendo loro le cose più fantastiche. La collezione è raccolta sotto questo semplice titolo: «Ciò che non abbiamo detto e che non abbiamo fatto».

La marina italiana contro i turchi

nell’opera di P. Guglielmotti

(Continuazione, vedi n. 11).


Il frate marinaio.

Perchè Alberto Guglielmotti rivive, nell’evocazione accesa della visione come rivisse, a bordo di navi da guerra, nel peregrinaggio paziente, tutte le battaglie, tutti gli sgomenti e tutte le gioie della sua gente. Ed è questa, anzi, la sua più alta e più bella espressione d’arte: perchè artista egli fu e grande. Lepanto è un episodio, il maggiore: per ottant’anni, dopo l’apoteosi che costò tanto sangue, la flotta pontificia, adunata a squadra permanente, perfeziona le opere di difesa, conquista, coi viaggi, coll’esperimento, i tesori di tecnica che saranno, un giorno, conquiste della nostra marina italica. All’indagine, all’illustrazione di questi anni di pace non oziosa, il P. Guglielmotti porta la gioia serena di un soldato che, riposando, aspetta il tumulto di un ritorno:

«E quantunque io sol uno in piccoletta barca per l’antica età e per la recente ben mi sappia aver già corso acque profonde, e non mai prima da niuno solcate, non però di meno durerò costante anche nelle più vicine ed umili navigazioni, alla vista dei nostri lidi, derivando sempre (come son uso) dalle prime fonti le notizie della squadra permanente, finchè lo squillo della tromba nemica non mi richiami da lungi alla guerra orientale sull’isola di Candia».

[p. 94 modifica]E a Candia corre, il frate marinaio, iniziando le campagne della squadra ausiliaria: a Candia, a Nauplia e Scio, all’Aicipelago, ai Dardanelli, a S. Maura, a Prevesa, ad Andra, a Carlowitz, sola a portare il sussidio generoso d’un’armata sacra all’asserzione e alla gloria di un’idea. La pace di Carlowitz del 1699 segna la composizione di molteplici conflitti, la soddisfazione di popoli e di sovrani: il pericolo turco è scongiurato: tutte le potenze europee hanno parte nel godimento della rinnovata conquista. Solo la flotta di Roma — fiera e generosa — resta incontaminata signora e serva di un compito di fede e di civiltà adempiuto con purezza di cuore pari all’energia del valore:

«A Roma solamente, dopo tante sovvenzioni e tanti anni di splendida milizia per mare e per terra a beneficio di tutti, non venne nulla. Nè io, conscio della misera sorte gijtata dagli uomini alla modesta virtù, di ciò mi lagno: sì bene correggo l’altrui difetto, e più m’appongo al debito mio di adoperarmi perchè sia salvo almeno l’onore della nostra gente, tanto poco finora ricordata, anzi tanto negletta da ogni altro, che nè un cenno minimo si trova dei nostri nelle più recenti e divulgate storie marinaresche...».

Il P. Guglielmotti traccia, ancora la storia degli ultimi giorni della flotta gloriosa, dalla difesa di Corfù alla dispersione di essa, nel 1800, quando Napoleone trascinava i marinai di Roma contro Nelson: essi restarono eroi pure nella rovina della perduta libertà: perchè — sottolinea lo storico leale — «sotto il braccio di gente straniera, più degli altri dovevano essi scapitare o vincitori o vinti».

E colla caduta cade la storia di lui:

«In somma all’entrata del nostro secolo varcò di nuovo gli alpini gioghi di Bonaparte: fu eletto nelle lagune Pio VII e fece in Roma ingresso trionfale. Ma i nostri marinai e bastimenti non tornarono più dall’Egitto. Dispersi gli ufficiali, distrutti i legni, rotta la tradizione, abbattuta la bandiera, la mia storia è finita».

Non però che la visione della secolare vicenda resti muta ed inanimata sulla pietra fredda della storia: poichè virtù di coraggio e perizia di genio valgono ancora a fecondare- conquiste nuove: e dalla pazienza dello storico e del filologo erompe pura e scintillante la parola italica sovrana e il genio marinaro che a noi fece nostro il nostro mare.

Il «dizionario marino».

Col dizionario marino militare P. Guglielmotti rivendica all’Italia e alla lingua d’Italia la lucida prestanza dei più puri e più belli termini marinareschi, la rapida meraviglia della nostra strategia militare. Ed in lui, l’opera del ricercatore si fa viva ed agente nella predicazione di una magnifica rivendicazione patriottica.

«Dunque più e più mi stringo all’opera pietosa di salvare dall’oblio la memoria e il nome di tanti benemeriti... non tanto per colmare questa lacuna di storia romana, quanto per isvolgere il successivo progresso dell’arte navale in ogni altro paese; e per mantenere nel nostro l’incorrotto deposito delle antiche tradizioni militari di quei gloriosi che vinsero a Lepanto, sempre osservato e custodito nella marineria italiana. Nè desisterò altrimenti fino all’ultimo, se prima (abolita per sempre la mercantesca e straniera tattica a vento) tra le piramidi del vecchio Egitto e le torri del nuovo mondo, integra la preziosa eredità strategica dei nostri maggiori, non sia compiutamente trasmessa e ricevuta dall’ultimo naviglio da remo al primo bastimento a vapore».

Ad una milizia del mare così rinnovata l’azione è gioia, il combattimento è orgoglio: e così voleva la marina nostra Padre Alberto Guglielmotti, consapevole — non serva — del suo passato, fiduciosa, quindi, nel suo avvenire.

Alle navi italiane che oggi frangono il secolare solco della marina romana, una nave doveva essere sorella: quella intitolata a Alberto Guglielmotti: che tale fu il voto concorde dei marinai italiani quando tredici anni or sono, il loro storico e poeta, maestro e padre, tolse commiato alla lunga vita operosa. Ma se ancora il voto non è adempiuto e se l’anno prossimo — l’anno centenario della nascita del Guglielmotti — esso andrà solennemente rinnovato per desiderio unanime degli italiani, suona ancora, però, l’ammonimento e l’eccitamento che egli, ai suoi prediletti soldati del mare, scriveva a suggello di quella Storia, concepita e vissuta in sessant’anni di operosità meravigliosa:

«Gli esempi di antica virtù, derivati dalle prime fonti nelle pagine della storia mia, condotta principalmente a remo per undici secoli alla difesa della civiltà contro i barbari, meneranno- innanzi a vapore pel tempo futuro quegli eletti spiriti cui da qui innanzi lascio la cura di continuarsi alla medesima stregua nei successi altrettanto gloriosi. Essi, tesoreggiando gli ammaestramenti degli antichi, meglio di me anche sul punto della strategia navale ci diranno: Seguite le orme dei vostri maggiori, maestri che furono di navigazione a tutti i popoli; tenetevi ai vetusti esempi domestici; tornate indietro, se volete andare avanti».