Il buon cuore - Anno XI, n. 27 - 6 luglio 1912/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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Necrologio Società Amici del bene

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Onoranze ad un Gentiluomo Lombardo


Tempo fa ebbe luogo in Torino, nella chiesa parrocchiale della Crocetta (il cui zelante curato è fratello del noto prof. Roccati, che accompagnò il Duca degli Abruzzi al Ruwenzori), splendidamente addobbata di arazzi e vagamente adorna di piante esotiche e di una profusione di fiori, la prima esecuzione d’una Messa di gloria a grande orchestra, che l’illustre autore, il Conte Angelo Gambaro personalmente diresse alla presenza di S. A. I. e R. la Principessa Laetitia di Savoia-Napoleone, Duchessa d’Aosta, di S. E. il Cardinale Agostino Richelmy e d’una folla d’invitati che compendiavano quanto v’ha di più eletto e gentile nella capitale dell’antico Piemonte.

La Messa, dedicata con devoto pensiero a S. A. la venerata Principessa Clotilde, fu da critici eminenti (appositamente qui convenuti da ogni parte) giudicata una squisita opera d’arte, di mirabile fattura, che sciogliendosi arditamente dalle pastoie d’un rigido convenzionalismo ornai vieto, e pur mantenendosi scrupolosamente ligia alle austere norme liturgiche, descrive nelle varie sue parti la suprema tragedia del Golgotha, armonizzando l’umano e il divino in una patetica elegia di sentimenti e di affetti, in una eccelsa epopea di sacrificio, di dolore e di amore.

L’unanime consentimento della stampa e del pubblico si tradusse in atto coll’omaggio di un magnifico Albo, che fu in questi giorni presentato al valoroso Maestro, in perenne ricordanza, nel castello ch’egli qui si eresse a sontuosa dimora, dove si dà spesso convegno il fiore della società torinese, per cortese invito della Contessa Olga Gambaro nata Bernasconi De Luca di Riva S. Vitale, tutta bontà, tutta grazia ed eleganza, degnissima consorte dell’insigne compositore, ch’è pure un geniale e delicato poeta.

L’Albo, rilegato in pergamena, porta sulla copertina lo stemma nobiliare di casa Gambaro col fiero motto — Frangar, non flectar — incorniciato da una ghirlanda d’alloro a bacche d’oro.

La decorazione artistica del prezioso volume, chiuso con fermagli d’oro, in ricco stipo, venne affidato all’esimio prof. Vulten, che l’eseguì da pari suo.

La dedica, a caratteri onciali, inquadrata di fregi alluminati, è seguita in altra pagina da un volo di angeli, che in vesti ondeggianti, colle chiome fluenti, scende osannando dal cielo, ed è un piccolo poema di mistica bellezza.

S. A. la Duchessa d’Aosta, il Cardinale Arcivescovo di Torino, il Prefetto, il Sindaco, il Vescovo di Asti, il Vescovo titolare di Derbe, il Vescovo titolare di Gaza, Senatori, Deputati, Consiglieri Provinciali e Comunali, Magistrati, Generali, letterati famosi, celebri artisti, luminari di scienza e dottrina han voluto segnare il loro nome nell’Albo commemorativo, unendosi a tutta l’aristocrazia torinese nell’omaggio tributato al Gentiluomo lombardo, che l’alto ingegno sa esplicare ed affermare colle virtù peregrine del cuore in alte manifestazioni di arte e di fede.

Torino.

Riti funebri presso i Tonga

Il Tonga attribuisce la morte o a stregonerie od agli spiriti. Una morte prodotta da malattia si ascrive a stregoneria o agli spiriti; se è fortuita, a questi ultimi. Se muore qualcuno, si va dallo stregone, il quale gitta a terra i suoi ossi, e la loro posizione indica il colpevole. Sotto il vecchio regime egli pronunziava il nome del reo; ora egli si guarda bene dal far ciò, per paura di suscitare risse sanguinose, che dal governo dei bianchi sarebbero punite esemplarmente.

Appena avvenuto un decesso, si sotterra il cadavere in questo modo. Si scava la fossa di fronte alla capanna del defunto, a due passi. L’operazione si compie in mezzo a nenie, cui partecipa tutto il villaggio. Non vi ha quasi dei pianti, poichè la razza è estremamente insensibile. I piagnoni si stropicciano il corpo con mota, in segno di lutto. Il cadavere è sepolto in una pelle o coperta. Lo accompagnano gli oggetti, quali la pipa, zagaglia, ascia, ecc. e poi un po’ di cibo. Prima di colmare la fossa, si dice al morto: «Riposa in pace, non ti affliggere; piuttosto affliggi chi fu causa della tua morte!» Lo spirito si suppone che infastidisca la capanna, in cui esalò l’ultimo anelito.

In caso di malattia, dicono: «Forse lo spirito è malcontento, perchè noi lo dimentichiamo. Offriamogli un sacrificio». E sacrificano un pollo e birra, dicendo: «O spirito, sii soddisfatto Noi ti offrimmo un sacrificio; non tormentare il malato!».

[p. 213 modifica]La parte più importante dei funerali è il sacrifizio di bestiame, come montoni e capre. Il numero delle vittime è proporzionato alla posizione e ricchezze del morto. Dieci, trenta, cinquanta capi sono talvolta immolati. Gli amici del defunto conducono bestie per il sacrifizio. Un vecchio rifiuterà di vendere i suoi buoi, sebbene non abbia un soldo: li riserba per il suo funerale. I piagnoni vengono da ogni luogo, anche da molto lungi. Vanno e vengono nel villaggio, brandendo le loro zagaglie, e gridando con voce corrucciata «Chi uccise l’amico mio, chi lo stregò?» Indi scatenano il loro corruccio su i vasi del defunto, che spezzano. Il banchetto che si imbandisce dura vari giorni talvolta intere settimane.

Se chiedete loro la ragione di tali ecatombi davvero straordinarie per povera gente come loro, vi sentite rispondere che «servono per mantenere in forza i piagnoni, i quali, se per disgrazia deperissero, ne riceverebbe infamia il morto». La vera ragione, però, si è, che allo spirito del defunto occorrono compagni, tali sono gli spiriti degli animali immolati. Se questi sono rifiutati, lo spirito del morto si vendicherà, uccidendo il gregge dei parenti ed amici.

La proprietà del defunto passa a suo fratello, e la sua tenuta e le mogli, essendo considerate come vero proprio possedimento, passano anch’essi al fratello.

Poveri Tonga! solo la fede cattolica potrà affrancarli da sì sciocche superstizioni! Sia lodato Dio, per i progressi che essa compie fra loro!

(Corrispondenza Africana).

AI GIARDIN PUBBLICH


Quand vedi ai Giardin pubblich quij bambitt

Che vosen, corren, riden tutt content,
Che somejen a on mucc de passaritt;
El godi anmi quell so divertiment,


Perché soo tornà indree con la mia ment,

Ai temp che anmi faseva quij giughitt
Come fann lôr, del tutt inconcludent:
Ma adattaa per qui test a rizzolitt.


Quij bei creaturinn, fioritt vivent,

Su sta terrascia grassa de dolôr,
Me fann sgorgà dal cceur duu sentiment;


El primm, allegher.... perché lôr sann nient,

E l’alter trist.... perché tutt quij bei fiôr
Vann incontra alla crôs di patiment!

Federico Bussi.


Giugno 1912. Il Municipio di Milano ha ordinato 200 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.



La colonizzazione della Patagonia

e l’emigrazione italiana.

(Continuazione, vedi n. 26).

Questa zona del Rio Negro in cui si sta avviando la irrigazione, di cui ora parlavamo, costituisce attualmente uno dei centri di attrazione più importanti per gli emigranti che il Governo Argentino vuole avviare alle regioni meridionali della Repubblica.

Ma dalla Direzione di immigrazione si consigliano altre località opportune per gli emigranti che vogliono recarsi nel Sud. Fra le aziende e le imprese che da quella si indicano come preparate a ricevere la emigrazione, una delle più organizzate e degne di nota è quella detta Las cuarentas quintas (i quaranta orti) a Medanos.

Medanos, il paese presso cui è situata l’azienda, si trova sulla linea ferroviaria che da Bahia Bianca porta al Rio Negro ed al Neuquen: il treno impiega da Bahia Bianca un’ora circa; si effettuano molte corse ogni giorno.

Lo stesso nome di Medanos, che significa dune di rena, indica la caratteristica del paesaggio molto arido leggermente ondulato per le collinette di rena formate dal vento che anche qui soffia spesso impetuoso. Il paese conta meno di 800 abitanti, dei quali un forte contingente è dato da emigrati russi; pochi sono gli italiani. Appena un chilometro fuori dell’abitato è situata l’impresa Las cuarentas quintas. L’Azienda appartiene al signor Ricardo Rosas, il quale possiede in quella regione vaste estensioni di terreno.

Sono preparati 40 orti con relativa casetta pronti per essere coltivati; le casette costruite in mattoni, piccolissime, composte solo di due stanzine a terreno, sono allineate in due lunghissime file nella pianura, alla distanza di 150 metri circa, l’una dall’altra: fra di esse stanno i lotti di terreno. Il terreno al solito è arenoso arido; la pioggia è rarissima: lo strato di terreno atto alla produzione è basso, ed al disotto di esso, sta uno strato di cosiddetta losca, impermeabile, ciò che è dannoso all’agricoltura, esponendo le coltivazioni alle conseguenze dell’umido e della siccità. L’acqua, che si estrae automaticamente dal sottosuolo con una pompa mossa da un mulino a vento, come si vede ovunque in Argentina, non è buona per bere; per questo scopo si deve conservare quella piovana. Il vento qualche volta reca qui pure gravi danni, accumulando strati di rena, sotto la quale gli ortaggi facilmente restano sepolti.

La superficie destinata ad ogni orto è di due ettari. Le condizioni di concessione che si fanno agli immigranti hanno qualcosa della mezzadria, con modificazioni ed altri patti diversi. Il proprietario concede al colono il terreno, la casa, gli arnesi da lavoro, la semente, le pianticelle dei frutti da coltivare: una pompa messa da mulino a vento con serbatoio di zinco capace di 6o metri cubi di acqua.

È stabilito che una metà del terreno deve essere coltivata a vigna, l’altra metà ad ortaggio e frutteto. Il padrone passa pel primo anno 60 pesos (circa 130 lire) [p. 214 modifica]al mese a ciascun colono; il prodotto deve esser diviso a metà fra il colono ed il padrone. Dopo due anni il colono ha diritto di comperare il fondo da lui lavorato per un prezzo stabilito in precedenza.

Sono già diversi anni che questa impresa è preparata, ma fino allo scorso aprile, quando io la visitai, solamente cinque orti erano occupati: dei quali quattro da famiglie italiane, uno da una, famiglia spagnuola. Uno dei coloni italiani, un toscano, certo Anacleto Fanfauci, che era colà stabilito da più tempo degli altri, da circa due anni, dichiarava che il retratto dalla vendita degli ortaggi gli era appena bastato per vivere, ma che aveva speranza di fare affari migliori appena che le viti avessero cominciato a dare frutto.

Per facilitare lo smercio degli ortaggi di Medanos il proprietario signor Rosas, sta facendo un mercato apposito di vendita diretta in Bahia Bianca, allo scopo di evitare gli intermediari. Merita di esser notato il fatto che per tutti gli altri orti si stanno cercando esclusivamente coloni italiani, perchè si è convinti che questi soli hanno attitudini e qualità per poter mandare a bene quel genere di impresa. Infatti in quel medesimo luogo si poteva alcuni mesi fa constatare che le medesime piante di vite, piantate in due orti contigui da italiani e da spagnuoli avevano dato risultati ben diversi: mentre le prime già erano alte, le altre erano perite in grande quantità; lo stesso si verificava nella coltura degli ortaggi. Si vedeva chiaramente là il genio dei nostri coloni, che nella industria agricola, negli opportuni esperimenti e nelle maniere abili di fare certe coltivazioni, nel sopperire con mille ingegnose trovate alle più diverse difficoltà naturali del luogo, sanno trionfare di situazioni scabrose e riuscire dove altri, pur essendo buoni lavoratori, soccombono e debbono ritirarsi.

È difficile poter dare un giudizio esatto e sicuro della bontà di quell’impresa, essendo da troppo poco tempo iniziata, e mancando per ora dei risultati, ma è certo che per i coloni essa non offre prospettive di grandi interessi: sia per la poca estensione di terreno concesso, essendo due ettari, anche se coltivati ad ortaggio e frutteto, insufficienti in quel paese, dove la terra è cosi abbondante, al mantenimento di una famiglia normale: sia anche per la località non molto felice per i difetti naturali che abbiamo accennato.

Con ciò non intendiamo dire che prendere uno di quegli orti a coltivare non possa essere un possibile inizio per una piccola famiglia di immigranti, composta solo di tre membri al massimo, la quale si trova colà senza avere in vista niente di meglio.

Fatti questi brevi accenni e considerazioni riguardo alcune zone più in vista del sud della Repubblica Argentina, nei riguardi della colonizzazione, conviene ora che noi esaminiamo tali condizioni di fatto in relazione cogli interessi della nostra emigrazione e coi progetti del Governo Argentino.

È provato cha una volta entrati in Buenos Aires gli immigranti difficilmente trovano il modo di uscirne; moltissimi, provenienti dalle campagne, vi restano definitivamente per esercitarvi mestieri cittadini, nella speranza di buoni e solleciti salari: invece la disoccupazione è notevole, specialmente nella stagione invernale.

Perciò il Governo Argentino ha aperto a Bahia Bianca fin dal gennaio di quest’anno, con solenne inaugurazione, un Hotel de Inmigrantes, che installato ora in un locale provvisorio, sta per essere trasportato in un bell’edifizio costruito appositamente dal signor Ricardo Rosas, il proprietario della impresa di Medanos surricordata, il quale ne ha fatto dono al Governo Argentino. Questo ricovero funziona come quello già esistente in Buenos Aires, ma in proporzioni ridotte. Presso di quello gli immigranti hanno diritto ad alloggio e vitto per cinque giorni, fino a che, dietro le indicazioni fornite loro dalla stessa Direzione di immigrazione, non hanno trovata occupazione od il luogo adatto per stabilirsi.

Si è inoltre ricorso al metodo di proporre agli emigranti diretti a Buenos Aires, per mezzo di impiegati della Direzione di immigrazione che si recano a bordo dei piroscafi che giungono a Montevideo, di sbarcare invece a Bahia Bianca, per recarsi di là nelle regioni meridionali del Repubblica, mostrandone loro la convenienza, e la maggior possibilità di realizzarvi delle fortune. Si concede peraltro a coloro che non intendono stabilirsi in quelle regioni, il viaggio a spese dello Stato per portarsi in qualsiasi altra parte della Repubblica.

L’esperimento fu già fatto per alcuni vapori provenienti dall’Europa che trasportavano emigranti spagnuoli; ma fino ad ora non ha dato il resultato che il Governo Argentino si aspettava. Quasi tutti gli emigranti sbarcati a Bahia Bianca, dopo essersi recati a visitare i luoghi loro indicati per la colonizzazione, hanno fatto ritorno a Buenos Aires.

Ciò a nostro parere era da prevedersi, sia per la poca preparazione delle zone da colonizzare, a ricevere gli emigranti, sia in parte perchè appunto quest’anno in cui si è iniziato il primo esperimento, quelle regioni erano state fortemente danneggiate dalla grande siccità, e la mancanza di qualsiasi raccolto impediva alla mano d’opera che vi si fosse recata di trovarvi occupazione.

Noi dobbiamo osservare che tale situazione sfavorevole al piano prestabilito dall’Argentina, può aver presto una soluzione: la siccità presumibilmente produrrà effetti della durata di non oltre un anno; e frattanto la richiesta di mano d’opera sarà fra breve assai maggiore, poichè col progredire della canalizzazione delle acque e dei lavori che si stanno facendo, considerevoli estensioni di terreno saranno pronte per essere messe a coltivazione ed avranno necessità di braccia.

Non è difficile quindi di prevedere che continuando il Governo Argentino nei sistemi già adottati, anche la emigrazione nostra sarà richiamata in quelle regioni.

Noi crediamo che in vista di ciò sia dovere dell’Italia domandarsi se convenga che i nostri emigranti si dirigano a quelle regioni.

[p. 215 modifica]Per rispondere a tale quesito è necessario premettere alcune considerazioni da tenersi presenti, ed alcuni criteri direttivi cui a nostro parere ci si deve informare per l’azione da svolgersi, in linea generale, di fronte al problema della colonizzazione italiana nei paesi transoceanici.

Prima di tutto noi richiamiamo il criterio fondamentale, che più volte abbiamo enunciato, che cioè la miglior soluzione può solo trovarsi avendo riguardo, oltrecchè all’interesse dei singoli, a quello più alto della nazione.

Quindi tenendo conto delle mutate condizioni del paese, si deve affermare che è interesse dell’Italia di ridurre al minimo possibile l’emigrazione verso terre straniere, e di tenere in patria ed in colonie di diretto dominio il maggior numero di cittadini, di cui abbisognano ogni dì più le nostre crescenti industrie, ed il cui lavoro sarà fra breve prezioso nelle nuove terre mediterranee.

Peraltro si deve considerare che diversi milioni di connazionali sono oramai stabiliti all’estero, e che d’altra parte il nostro poderoso movimento emigratorio non potrà estinguersi d’un tratto e nemmeno entro breve termine, perchè le nostre colonie di dominio diretto richiedono preparazione assai lunga prima di poter ricevere masse considerevoli di emingranti, e poichè troppi sono i vincoli strettissimi e gli interessi che ci collegano alle colonie di centinaia e centinaia di migliaia dei nostri connazionali già emigrati.

Di questa parte di emigranti con carattere permanente, a differenza dì alcuni che li considerano come perduti per la patria, crediamo sia sommamente importante per l’Italia di interessarsi vivamente, poichè è certo che se questi spiegassero il loro lavoro e le loro energie nel modo più conforme, non solo agli interessi loro privati, ma insieme con quelli, anche gli interessi della madre patria, potrebbero all’Italia recar vantaggi morali, economici e politici di indiscutibile valore.

Tale interessamento deve spiegarsi, come già altre volte abbiamo sostenuto, con l’avviare i medesimi in modo sicuro alla colonizzazione, per mezzo di progetti ed imprese serie, o con qualsiasi mezzo che valga ad indennizzarli nei luoghi più convenienti.

In vista del fatto che codesta emigrazione permanente, che fu per l’addietro numerosissima, va ora notevolmente diminuendo, ed è prevedibile che in un tempo non lontano si estinguerà, tanto più s’impone di provvedere alla sua utile distribuzione, specialmente se imprese sorgenti con capitale italiano non agiscano su di essa come invito a formare nuovi nuclei coloniali omogenei: poichè, mentre se abbandonata a se, date le sue modeste proporzioni numeriche, andrà facilmente incontro alla completa dispersione ed all’assorbimento, può invece, se saggiamente diretta e consigliata, costituire quell’elemento prezioso che è necessario pel consolidamento dello spirito nazionale e pel progresso di certi nuclei coloniali italiani già esistenti: e si noti che a tal compito possono ora assai bene rispondere gli emigranti nostri, indubbiamente più evoluti ed istruiti di quelli che lasciavano l’Italia negli anni addietro.

Tali, a parer nostro, sono i criteri che debbono in questo momento inspirare la nostra politica in fatto di colonizzazione.

Ora, dopo ciò che abbiamo detto delle condizioni di fatto delle regioni del Sud della Repubblica Argentina e della colonizzazione che vi si sta iniziando, possiamo dire che esse rispondano ai criteri ed agli scopi suaccennati, e che convenga favorire lo stabilirsi dei nostri emigrati colà? Noi crediamo di dover rispondere negativamente.

E la ragione ne è evidente. Se una corrente di emigranti italiani si aviasse presto senz’altro al Rio Negro, date le condizioni attuali della sua economia agricola, nessun’altra sorte potrebbe avere se non lo sparpagliamento dei singoli lavoratori, assoldati come peones nelle chacras appartenenti a proprietari di altre nazionalità; il che significherebbe la forma più pronta di snazionalizzazione che possa immaginarsi. Ciò tanto più in quanto che è prevedibile che non sarebbe possibile neppure, date le proporzioni della nostra emigrazione permanente, una corrente così numerosa da formare essa una collettività considerevole; e nell’ambiente cosmopolita che colà si va formando, rari sono, e probabilmente saranno, i proprietari italiani. Il fenomeno che abbiamo accennato, dell’accaparramento preventivo dei terreni per parte di speculatori, e della conseguente carezza dei prezzi dei medesimi, inaccessibili ai modesti risparmi di cui i nostri lavoratori possono disporre dopo qualche anno di lavoro, renderebbe alla maggioranza di essi difficilissimo l’acquisto della proprietà, costringendogli permanentemente nella precaria posizione di salariati o di mezzadri.

Se tale condizione essi dovessero trovare in quelle terre Patagoniche, sarebbe preferibile, per essi e per l’Italia, che come salariati o mezzadri si stabilissero in altre provincie della Repubblica, dove esistono già collettività italiane numerose, alle quali essi contribuirebbero a portare maggior saldezza, e presso le quali sarebbe loro più facile trovare quegli aiuti e quelle agevolezze che si trovano presso i connazionali, e sarebbe loro più facile di continuare le tradizioni avite e le relazioni colla madre patria.

(Continua).

Ranieri Venerosi.



L'ARTE

è grande e divina per questo. S’ama tutta la vita perchè non appaga mai pienamente, e sono quasi sovrumane le gioie ch’ella dà perchè sono frutto e ci compensano d’infiniti sforzi e amarezze. E tu, se sei chiamato all’arte, va incontro alla lotta nobilissima con l’anima serena e piena di fede. Ti sorrida o no la vittoria, sarai contento d’aver combattuto. Se non salirà in alto il tuo nome salirà il tuo spirito, e per questo solo benefizio che dall’arte avrai ricevuto, anche nella tristezza d’una nobile ambizione delusa, tu l’amerai ancora come un’amica dolcissima, la benedirai sempre come una consolatrice celeste.