Il buon cuore - Anno XI, n. 35 - 31 agosto 1912/Educazione ed Istruzione

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Educazione ed Istruzione

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La Madonna della Neve


In una ardente notte d’agosto dell’anno di nostra salute 352, Giovanni, patrizio di Roma, sognò uno strano sogno. Gli sembrava di essere a letto nella sua casa, quando il cielo si era aperto all’improvviso e ne era discesa la Beata Vergine che gli aveva ordinato di edificare una chiesa in onor suo in quel luogo dell’Esquilino dove avrebbe trovato il suolo coperto di neve.

Appena sveglio, e con la testa ancora confusa dalla sua visione, egli si era recato all’Episcopio lateranense per raccontare al pontefice Liberio quanto aveva veduto nel sonno. Ma aveva trovato il palazzo papale pieno di confusione per un miracolo avvenuto durante la notte. Si diceva che la Vergine era apparsa nel sonno al vescovo di Roma e gli aveva ordinato di costruire una chiesa in suo onore in quella parte dell’Esquilino dove avrebbe trovato della neve sul suolo. Il patrizio Giovanni stava già per dire come anch’egli avesse avuto la medesima vista divina, quando un diacono di Santa Prassede, facendosi largo a traverso la moltitudine che ingombrava il palazzo, veniva ad annunciare che «era caduta la neve in un largo piazzale poco distante dalla loro chiesa e proprio di fronte alla basilica di Giunio Basso, in quella parte dell’Esquilino detto Cispio».

Il miracolo era dunque palese, l’ordine della Vergine perentorio.

Non appena il papa Liberio ebbe saputo del duplice sogno, riunì i dignitari della Chiesa e processionalmente, a piedi nudi, seguito da tutti i suoi diaconi che cantavano inni, si diresse al luogo del miracolo dove, avendo riscontrato l’esattezza di quanto i messi di Santa Prassede avevano asserito, tracciò col pastorale i confini della futura basilica sulla neve ancora compatta e ordinò che i lavori cominciassero al più presto. La qual cosa avvenne come egli aveva desiderato, perchè quattordici anni dopo era stata compiuta una fra le più illustri chiese di Roma dedicate alla Vergine e che appunto per la sua grandezza e per la sua importanza fu chiamata di Santa Maria Maggiore, titolo che aveva in breve sopraffatto quello ufficiale della Vergine Deipara, col quale l’aveva battezzata papa Liberio.

La bella leggenda della bella chiesa è questa: leggenda che è stata illustrata dai mosaici del Rusutti, dai bassorilievi di Mino del Reame e dai quadri di molti pittori che s’ispirarono alla credenza primitiva. La quale non fu sempre accettata senza discussione nemmeno dalla Chiesa. Perchè quella nevicata in pieno agosto, fra lo stridere delle cicale e il fiorire degli oleandri, parve in tempi più vicini così straordinaria, che Benedetto XIV non esitò a proporre che fosse cancellata dal Breviario Romano 1. La proposta non fu accolta o per lo meno lo fu a metà: e fu in bene, giacche quello che la fede rifiutava or sono duecento anni la scienza ammette oggi. Nevicate d’estate ne possono sempre accadere — a Parigi quest’anno ci sarebbero da edificare cento basiliche al giorno — o per lo meno se non si tratta proprio di neve, si tratterà di qualche altra materia. Spoglie innumerevoli di pieridi — per esempio — che cacciate dal vento e travolte dalla tempesta si sarebbero accumulate in un punto qualunque della città. In ogni caso, il fatto non sarebbe nuovo e gli annali entomologici hanno dovuto registrarlo più d’una volta.

Del resto, accade oggi un fatto curioso, che mentre gli atei non rifiutano in modo assoluto la leggenda della neve di agosto, gli scrittori religiosi e gli animi timorati ne parlano poco volentieri. La scienza, è vero, questa volta afferma; ma la scienza ha negato tante volte che non si sa più se si deve crederle in modo assoluto. In ogni caso è bene che il fatto rimanga per lo meno dubbio: è alla sua credenza che noi dobbiamo la bellezza di qualche opera d’arte e la gioia di una festa romana.

L’opera d’arte si conserva ancora intatta ed è il grande mosaico che era anticamente sulla facciata esterna della basilica, e oggi si trova chiuso nella loggetta settecentesca, che Benedetto XIV fece edificare [p. 275 modifica]dal Fuga per la benedizione papale. Il mosaico è diviso in due parti: una, dirò così, paradisiaca, e una terrestre. E questa divisione aveva fatto pensare da principio a due artisti diversi, al Rusutti — che avrebbe eseguito il cielo terrestre — e Gaddo Gaddi a cui si sarebbero dovute le scene del patrizio Giovanni. Ma quest’ultima affermazione si trova nelle Vite del Vasari, il Vasari non è mai una fonte troppo sicura quando si tratta di opere d’arte romane. Oggi il Venturi ha restituito al Rusutti il più bel mosaico, che egli avrebbe eseguito nel 1294 per ordine dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna di cui si veggono gli stemmi nella parte decorativa della composizione. Questo mosaico è diviso in quattro, grandi quadri, che rappsesentano il sogno del patrizio Giovanni e il sogno di papa Liberio, la visita di Giovanni al Pontefice e la grande processione sul luogo del miracolo, e ogni quadro ha cartigli esplicatorii, l’ultimo dei quali spiega l’origine della chiesa: «Quando Papa et Johannes patritius cum clero et populo romano nive dealbatum moementes locum fodere volebant et terra per se aperta est». In esso, l’oscuro discepolo di Cimabue ha designato con la cura minuziosa agli artisti del suo tempo ogni personaggio e ogni particolare, sì che oggi acquista un interesse di documento dove i tessuti degli abiti, gli ornamenti delle persone, le suppellettili della casa rappresentano una testimonianza preziosa per la sua vivezza e per la sua verità.

Più tardi la scena rimase viva nel!a memoria degli artisti e per la dolce poesia che ne emanava ispirò le loro menti e diresse le loro mani in modo ammirevole. Sempre per la basilica liberiana la dipinse il Masaccio sopra una tavola che — distrutto il tabernacolo primitivo — andò peregrinando in qua e là finchè sembra finisse al Museo Nazionale di Napoli dove si trova ancora. E la scolpì Mino del Reame per uno dei quattro bassorilievi che adornano le quattro facce dell’altare antico. Anche questo altare, per molti anni era stato attribuito per inganno di omonimia certamente e sulla fede di Giorgio Vasari, a Mino da Fiesole. Oggi la critica glielo ha tolto per darlo al suo competitore Mino del Reame, un artista meno raffinato, ma più robusto, meno ideale ma più osservatore della vita. Nel bassorilievo della Madonna della Neve, egli ci rappresenta la scena della processione, quando il Papa Liberio traccia sulla neve i piani della basilica futura. Nel fondo si veggono le colonne di un portico romano nel cielo un serafino alato lascia cadere il nembo nevoso che spargendosi sul terreno forma lo strato «dealbatus» su cui il Pontefice ha disegnato la pianta della chiesa. Di fronte al Pontefice è il patrizio Giovanni, circondato dai suoi compagni e vestiti tutti col grosso robone quattrocentesco. Questa l’ultima opera d’arte suggerita dalla leggenda: che se poi si volesse scendere più giù, si troverebbe una tela nereggiante del Bastaro, che è appunto sull’altare della navata di destra, e che dà al miracolo una rappresentazione essenzialmente barocca. Ma il Bastaro era un artista mediocre, e il suo quadro non può mettersi accanto ai mosaici giotteschi nella facciata e ai bossorilievi del buon Rinascimento murati nel tamburo dell’abside.

In quanto alla festa, che tramanda viva la leggenda di Papa Liberio e del patrizio Giovanni, i romani la conoscono bene, e non mancano mai di parteciparvi nella bellissima cappella che Flaminio Ponzio eresse nel 1611 per il Papa Borghese. Ogni anno durante la prima messa del giorno anniversario — i chierici della basilica salgono sul ballatoio della cupoletta, tutta affrescata con enfasi secentesca da Ludovico Aveli, e di là fanno piovere sui fedeli inginocchiati d’innanzi al sacerdote celebrante, tutta una nevicata di gelsomini e di rose, di oleandri bianchi e di tuberose. Così, dopo settecento anni, il miracolo continua a rinnovarsi, e nè l’incredulità di Benedetto XIV, nè l’ateismo delle moltitudini contemporanee, sono riusciti a sradicarlo dalla fantasia del popolo, il quale, in pieno agosto sogna ancora, con l’ingenuità della fede primitiva, la bella poesia di questa nevicata odorosa e soprannaturale.

(Dal Giornale d’Italia)

Un araldo d’italianità vittoriosa

L’opera compiuta da alcuni esseri privilegiati, nel breve giro della loro vita, risplende di tanta luce propria, che non ha bisogno del canto dei peti, per entusiasmare e commuovere il cuore degli uomini. Basta la nuda storia a far comprendere la loro grandezza; ed è sufficente la severa e scheletrica enumerazione di quanto essi compirono onde la loro figura appaia nelle proporzioni dovute. Perchè il solco che, con ferma mano, impressero al secolo, che da essi prese nome che di essi si gloriò, fu così profondo e così diritto da meravigliare non solo i contemporanei, ma anche maggiormente noi, che, con animo spassionato, possiamo giudicare i lontani avvenimenti; e perchè essi seppero su ogni cosa aver padronanza con la luce del loro intelletto, e con la forza della loro volontà.

E non reca, quindi, stupore che il raccontare la loro vita significhi fare naturalmente opera di poesia, costrurre uno dei migliori poemi, elevare un canto di gloria; anche se colui che si accinge al compito voglia mostrarsi un severo ricercatore di fatti e di documenti. Ma è proprio da questi fatti e da questi documenti che balza fuori, viva e possente, la poesia vera, quella che non è racchiusa nemmeno nella magnificenza della strofa nella ricchezza del verso.

Appartiene a questa piccola schiera di privilegiati, ed ha fra essi un posto a parte, quel gran papa che fu San Leone Magno.

Venne egli tra gli uomini quando tutto sembrava sconvolgersi, e tutto sembrava precipitare verso la rovina; ed ebbe agio di vedere come venisse preparandosi lo sfacelo politico di cui va segnato il quinto secolo dell’era volgare. Ben di rado, sia prima che dopo di lui, il capo della Chiesa ebbe necessità di una tale somma di qualità rare e diverse per essere all’altezza di una missione che gli avvenimenti politico-religiosi e lo stato delle coscienze rendevano ogni giorno più [p. 276 modifica]difficoltosa; e che — come ben dice il Regnier nel suo ultimo e bellissimo volume (Adolfo Regnier, San Leone Magno, Desclée e C. editori), sarebbe potuta sembrare impossibile per le sole forze di un uomo.

Tutte le vecchie basi della società sembravano scosse senza rimedio; e ciò che ne aveva fatto fino allora la forza non trovava più credito presso alcuno. L’impero che aveva esteso i suoi confini a tutto il mondo ora non comprendeva che l’Italia. Attorno, da ogni parte, gli si stringevano, fra lotte sanguinose che portavano per ogni dove la desolazione e lo sterminio, le giovani e vigorose potenze barbariche. I Brettoni nella loro isola lontana, i Franchi e i Burgundi nelle Gallie, i Visigoti nella Spagna avevano scosso il giogo ed imponevano il loro dominio, difendendolo contro popoli rivali. Genserico con i suoi Vandali, passato di Spagna in Africa, s’era proprio allora impadronito di Cartagine, obbligando l’imperatore Valentiniano ad una pace vergognosa; e neppure questo bastava. Gli Unni, questi barbari dell’Asia, così dissimili dagli Europei da sembrare a questi più bestie feroci che uomini, benchè ancora lontani, non avrebbero tardato ad invadere l’Occidente, gettando il terrore su vincitori e vinti, e a portare le loro armi vittoriose fin sotto le mura di Roma.

Tutto pareva si disgregasse. L’ordine costituito si dissolveva a vista d’occhio; le leggi, non avendo più sanzione, non avevano più efficacia alcuna; e il dubbio, penetrando nelle coscienze, scuoteva fortemente le credenze religiose. Nuove dottrine pullulavano ad ogni canto, seducenti per la stessa loro novità, mentre le antiche eresie rialzavano il capo, sperando, forse, che la Chiesa se ne andasse con l’Impero. Mai, come in quel quinto secolo, sorsero e con maggior violenza combatterono, tante sette religiose: gli ariani da una parte e i manichei dall’altra, i pelagiani e i priscillianìsti e i nestoriani; tutti insieme si apprestavano a lottare contro Roma.

Ma la grande figura di Leone Magno sorse a fugare questo nembo di nemici; a mantenere unità alla Chiesa, a salvare la patria che stava per soccombere sotto la violenza dei barbari. Egli seppe, all’occorrenza, mostrarsi dolce e rigido; seppe imporsi con la bontà del suo animo, e con la fermezza della sua volontà; e riuscì sempre a padroneggiare gli avvenimenti, e ad aver ragione dei suoi avversari. E in questo momento in cui tanto fervore di spirito nazionale agita gli animi del popolo italiano, viene bene a proposito ricordare la grande figura di questo Papa, che amò, con eguale ed appassionato affetto, la Chiesa, di cui era capo, e l’Italia, di cui era figlio.

Si è incerti sul suo luogo di nascita, che alcuni vollero fosse la Toscana; come si è incerti sull’anno in cui fu elevato al diaconato. Ma pare che i primi onori egli li ricevette sotto il pontificato di Celestino, avendo già acquistato, in quel tempo, grandissimà autorità. Egli, infatti, divenuto arcidiacono della città di Roma, seppe così bene dimostrare tutte le mirabili qualità della sua mente, che Papa Sisto III ricorse più di una volta al di lui consiglio. Non solo, ma si aveva tanta confidenza nel suo modo di trattare gli affari civili e diplomatici, che nel 439, essendo scoppiato un grave dissidio fra Ezio e Albino generali dell’armata romana in Gallia, Leone fu inviato a pacificare i due rivali. Ed era precisamente nelle Gallie, quando, nell’agosto del 440, morì Sisto III. La voce pubblica designò unanimemente Leone come successore, e gli inviò una delegazione per invitarlo ad accettare il pontificato. La sua opera incominciò subito con la predicazione; e i primi suoi atti che troviamo registrati rimontano al 443, quando i manichei, cacciati dall’Africa dalla invasione dei Vandali ariani, si erano riversati sull’Italia, e specialmente su Roma, dove era più facile il nascondersi. Essi — come si sa — rigettavano l’Antico Testamento, non credevano ad un solo Dio; e ritenevano che Manete, capo e fondatore della loro setta, fosse il Paraclito, annunziato da Gesù.

Il pontefice si scagliò con vibrante eloquenza contro questa setta dannosa, combattuta già da S. Agostino, condannata da Innocenzo I nel 406. Scopertone un buon numero, San Leone li convertì, bruciò i loro libri; convocò, infine, nel 443 un’assemblea di vescovi e preti per discutere l’eresia. Fu questa la prima lotta che egli intraprese contro i numerosi nemici che sorgevano da ogni parte; e da quel giorno non ebbe pace, se non quando con la persuasione e con l’eloquenza, riuscì ad aver ragione di tutti. Non solo, ma per meglio combattere l’errore, egli indisse quei famosi concilii, che vanno annoverati tra i più importanti per la gravità delle questioni che vi furono trattate e che ebbero una soluzione netta e definitiva. E se non fu possibile al Papa assistere di persona a queste grandi assemblee, è fuor di dubbio che la loro preparazione, le loro discussioni, furono totalmente opera sua; e che egli, quantunque lontano, vi seppe esercitare una tale preponderanza, che la storia di questi concilii è strettamente connessa a quella del suo pontificato e di tutta la sua vita. La lealtà del suo animo e la dirittura del suo carattere gli impedirono di ricorrere all’astuzia per sconfiggere i capi delle nuove sette — alle volte personaggi potenti, che godevano la protezione degli imperatori — ed amò, invece, combattere a viso aperto, severo nella lotta, ma dolce dopo la vittoria, e pronto al perdono, desideroso, anzi, di concederlo.

La storia dei concilii di Costantinopoli e di Calcedonia, e quella triste e sanguinosa del falso concilio di Efeso è cosa troppo nota perchè io abbia a ripeterla. Ricorderò solo che il Concilio di Costantinopoli, il quale era stato indetto per pronunziarsi in merito ad una divergenza sorta tra Fiorenzo vescovo di Sardica metropolita della Lidia e due vescovi della sua provincia, assunse all’improvviso una straordinaria importanza, quando Eusebio, vescovo di Dorilea, stimò doveroso portarvi le sue accuse contro Eutiche. Costui, abate di un monastero presso Costantinopoli, con la scusa di perseguitare il nestorianismo, incominciò a bandire una nuova eresia che prese nome di monofisismo. Questo monaco — divenuto lo strumento di persone abili e potenti che si servivano di lui per i propri interessi — non volle riconoscere i suoi errori, [p. 277 modifica]nemmeno quando il Concilio, che si era riunito l’8 novembre 448, lo invitò ripetute volte a discolparsi. Egli, anzi, appoggiato e sospinto dal suo figlioccio, Crisafio, ciambellano dell’imperatore Teodosio II, quantunque scomunicato, cercò rafforzare il suo partito. Ottenne, così, dall’imperatore che venisse convocato un nuovo concilio generale, che doveva rivedere gli atti del precedente; e che riuscì così fazioso da meritare il nome con cui viene ricordato nella storia, di «sinodo di briganti», o «brigantaggio di Efeso».

Questo conciliabolo, aperto l’8 agosto nella chiesa di Santa Maria, ebbe a presidente Dioscoso, e per prima cosa chiamò a discolparsi i vescovi che avevano avuto parte alla condanna di Eutiche. Poichè era questo lo scope: proclamare il trionfo del monaco eretico, e vendicarsi di coloro che l’avevano combattuto, a capo dei quali erano Flaviano ed Eusebio, i quali furono deposti. Ma perchè tutti firmassero la sentenza di deposizione, Dioscoro fece sbarrare le porte ed entrare i soldati i quali con le vie di fatto s’imponevano a chi cercava di ribellarsi a tanta violenza; e, al colmo dell’ira, percosse e calpestò con altri facinorosi san Flaviano, che dopo tre giorni morì. Così il conciliabolo ottenne il suo scopo; e dopo aver proceduto ad altre deposizioni, e aver fatto delle nomine arbitrarie, si chiuse ignominiosamente.

Doveva salire al trono di Costantinopoli un nuovo imperatore, Marciano, perchè fosse possibile adunare un vero Concilio e condannare gli errori e le violenze di Efeso. Il Concilio di Calcedonia, apertosi l’8 ottobre 451, era stato minutamente preparato da San Leone, il quale dispose in modo che la verità avesse a trionfare. Infatti decisioni importantissime vi furono prese; si confermò la condanna di Eutiche, si ripararono le ingiustizie, e si pose fine ad abusi e disordini, infiltratisi nella disciplina.

Ma intanto che pensava a sostenere il grave peso del governo della Chiesa, a reprimere i disordini che in seno ad essa si manifestavano, altri còmpiti si presentavano al grande Pontefice. Non essendovi ormai a Roma che l’autorità del Papa a restar ferma e degna di confidenza fra la generale rovina, le circostanze e la forza delle cose facevano sì che i popoli ad essa si rivolgessero come all’unico porto dove fosse possibile trovar soccorso. Molte volte, in quegli anni disgraziati, i Papi erano stati gli intermediari fra gli oppressori e gli oppressi, e specialmente fra i vincitori e i vinti durante gli orrori delle invasioni; e questa volta il Pontefice doveva ancora salvare Roma, dalla ferocia dei più temuti barbari, gli Unni di Attila. Questo conquistatore, desideroso di gloria, non rispettava alcuna legge divina od umana: e come era stato capace di porre a morte il suo fratello, per regnare da solo, così era capace di sagrificare migliaia di persone per ottenere il suo scopo; ma sapeva, all’occasione, risparmiare tutto un popolo, e rinunziare, senza rimpianti, ai frutti di una conquista, se ciò gli offriva l’occasione di un bel gesto.

Dopo aver costretto l’imperatore Teodosio il Giovare a pagargli un tributo, ed essere penetrato in Germania, dopo essere stato sconfitto sui campi di Catalauni, riappare in Italia, pone a sacco Aquileia ed altre città e si avanza fin sotto Roma, che si trova, così, alla mercè del conquistatore. Riunitosi un consiglio, non potendosi tentare una seria resistenza, il Senato, l’imperatore e il popolo non seppero trovar di meglio che inviar messi ad Attila per domandargli la pace. Il grave còmpito fu assunto da San Leone, il quale, fattosi incontro ad Attila, seppe così bene toccargli il cuore, che quel re pose fine alla guerra, ritirandosi al di là del Danubio.

Liberata così Roma e l’Italia dalla ferocia dell’invavasore, San Leone, tutto pieno di amor di patria, cercò di liberarla ancora, quando Genserico venne con le sue orde contro la nostra terra. Il capo dei Vandali quasi convinto dalle parole del Papa, promise che i suoi soldati non avrebbero distrutta la Città Eterna. E questa promessa mantenne; ma il saccheggio a cui egli si abbandonò fu spaventoso e durò quattordici giorni, avendo fine probabilmente il 29 giugno, festa di San Pietro.

L’opera del Papa continuò ancora viva, tenace, ben condotta per raggiungere il bene della Chiesa e del popolo; e non cessò la grande lotta intrapresa se non con la morte di San Leone, avvenuta il 10 novembre 461.

Tra la serie di grandi Papi che formano l’onore della Chiesa Romana, San Leone resterà sempre uno dei più grandi per il suo carattere, per l’alta capacità e l’acume del suo intelletto, per l’amore portato all’Italia, e per la vasta, considerevole opera compiuta nel breve giro di ventun’anni, e che gli fece meritare l’appellativo di Magno.

Alfredo Labbati.

Dove l’Italia è più bella

Con Andrea Maurel.

È proprio necessario presentare uno scrittore come André Maurel? Agli italiani di oggi e di domani basterà dire che André Maurel ha molto amato l’Italia e ad essa ha dedicato quattro volumi, in cui, descrivendo le piccole città della penisola, ha trasfuso le sue osservazioni spesso originali, quasi sempre spirituali e un vero fiume di finissimo umorismo francese, che di questi quattro grossi volumi fanno una lettura varia e piacevole così che riescono accetti quasi come se le brochures racchiudessero dei romanzi dovuti alla penna più cara ai lettori d’oggi.

E questo, se è merito del tutto francese, e una delle doti precipue dello scrittore di cui mi occupo.

Un po’ tutti quanti, fanno professione di letterati e di impressionisti si sono occupati della nostra terra, e con metodi sempre diversi; ma i francesi, in ciò, hanno battuto, come oggi si dice, il record nella exploitation della nostra bella terra. Come lo stesso autore avverte, da Carlo VIII a noi, la scoperta dell’Italia è stata un po’ una mania dei francesi.

Mania giustificata, quando noi, gl’italiani, abbiamo avuto quasi sempre un certo pudore — che un malevolo potrebbe chiamare ignoranza — nel parlare del nostro paese.

[p. 278 modifica]Delle penne illustri si sono precedentemente sbizzarrite su le cose nostre, dal vecchio e simpatico Stendhal a Taine e Bourque, senza contare gli innumerevoli scrittori dei giorni che corrono. Maurel, per quanto l’Italia offra campo di osservazione a tutti, aveva un compito molto arduo da assolvere, volendo ancora una volta descrivere la terra di Dante e di Leonardo 2. Che egli abbia assolto bene questo compito sta a dimostrarlo il fatto che il primo dei suoi quattro volumi si fregia dell’ambata dicitura: «Ouvrage couronné par l’Académie Française».

E per quanto i migliori giudici in ciò non possano essere i membri dell’Accademia, si deve tuttavia credere che questo primo volume contenesse qualche cosa di veramente originale e nuovo, magari se le osservazioni valutate dagli italiani, potessero sembrare arbitrarie o imprecise.

L’autore, come onestamente confessa nella prefazione del primo volume, era venuto in Italia per un viaggio artistico; ma giunto fra noi, nella terra classica dei rivolgimenti e delle competizioni politiche, non ha saputo potuto resistere al desiderio di studiare, oltre che l’arte e la psicologia del nostro popolo, anche la sua vita storica e sociale.

Un libro strano, caratteristico, attraentissimo ne è uscito, un libro, che effettivamente avrebbe meritato l’onore di essere intitolato: Viaggio artistico e sociologico in Italia.

Ma all’autore questo titolo è sembrato forse troppo pomposo e l’ha ristretto all’altro più simpatico e più espressivo di Piccole città d’Italia, il che tuttavia non gli ha impedito di occuparsi anche delle grandi.

Nel primo volume Maurel si è occupato della Toscana e del Veneto; nel secondo dell’Emilia, Marche Umbria, e nel terzo della Puglia, degli Abruzzi e della Campania; ma di questi volumi non mi occuperò, sembrandomi che essi sian già ben noti a quanti leggono e si interessano delle cose nostre. D’altra parte, se non mi inganno, molti giornali della penisola se ne sono già occupati, lodando ampiamente l’autore anche là dove questi riceve un amabile rimprovero dall’illustre Guglielmo Ferrero.

Restringerò la mia indagine perciò all’ultimo dei volumi del Maurel, al quarto, che si occupa della Calabria e della Sicilia, descritte in XIII deliziosi capitoli, di cui vale la pena di riportare alcune delle intestazioni, che come negli altri libri sono uno dei fattori del successo dell’autore; poichè è noto che un buon titolo è tre quarti del successo assicurato per chi scrive! Ed ecco alcune delle circonlocuzioni con le quali l’arguto scrittore sintetizza le città studiate e descritte: Con le capre (Cosenza) — Le nozze di Cana (Paola) — Nel paese d’Ancelada (Messina) — Cerere in costume (Taormina) — La saggezza di Labya (Catania, l’Etna) — Le ceneri di Eschilo (Siracusa) — La felice trinità (Palermo) — La fossetta su la guancia (Monreale) — Le verghe della demenza (Solunto, Cefalù) — Seguendo una mula (Segesta) — L’amazzone di terra cotta (Selinunte).

Il metodo seguito in questo libro è lo stesso che l’ortista si è imposto con tanta fortuna nelle sue precedenti narrazioni; egli evoca con frasi felici ed incisive, pittorescamente, i più bei paesaggi e i più bei monumenti che formano l’orgoglio del sud d’Italia. Ogni paese e ogni città ha il suo, dirò così, profilo a parte, le sue impressioni, i suoi apprezzamenti particolari in una discontinuità piena di interesse e di emozione rievocatrice anche per quelli che non sono mai stati sui luoghi descritti dal Maurel, poichè l’autore possiede il grande segreto di essere a volta a volta imaginoso, descrittivo e rappresentativo. Così che, dopo letto il primo capitolo, si ha una voglia pazza di leggere quello che segue, come per rintracciare una conclusione che al primo è mancato e che mancherà invariabilmente a tutti i capitoli. E allora? Nient’altro che una lettura di impressioni staccate, in cui si fondono i più disparati elementi e le più originali valutazioni? Forse che sì; ma quando tutto il libro è passato sotto i vostri occhi voi vedrete sorgere all’improvviso, davanti alla vostra mente, un quadro unico, vivace, pieno di luce e di colore, di tutta una regione nella sua storia, nei suoi costumi caratteristici, nella sua arte, nei suoi paesaggi. E voi sentirete di aver quasi vissuto nei posti descritti spesso li rivedrete così come se un treno vi trasportasse velocemente lontano e foste assalito senza volere da una dolce onda di malinconica nostalgia per ciò che avete abbandonato.

E la vostra mente, abbandonando per un istante tutto ciò che Maurel ha creduto di vedere dal punto di vista sociologico, si abbandonerà al sogno magnifico di panorami e di sensazioni d’arte che l’autore ha diffuso prodigalmente nelle sue pagine suggestive.

Maurel non è molto benevolo per la Calabria, e non saprei dire quanto certi suoi rilievi siano esatti.

Ma l’impressionista e l’artista pigliano il sopravvento; lo prova la descrizione vivacissima di una discesa in automobile a Paola e di cui non voglio privare i miei lettori, quantunque tradotta essa perda molta della sua originalità.

Dopo di aver descritta la sua impazienza aspettando l’automobile che non viene, egli afferma che accoglie come un liberatore un popolano che gli propone di negoziare con un borghese della città, proprietario di un automobile, l’affitto della vettura per tornare alla costa.

«Un’ora dopo — dice Maurel — rotolavo nella vallata del Crati, verso la liberazione. Fu terribile e maraviglioso. Un piccolo chauffeur di quindici anni conduceva la possente e pesante macchina. Durante i primi chilometri egli arresta la macchina più di venti volte, sia per pulire gli stantuffi o per ingrassarli, sia per stringere delle viti. La bella noncuranza italiana, ch’io Conosco così bene, si spiega sotto i miei occhi con tutto il suo spaventoso fatalismo. Questa strada l’ho percorsa ieri in senso inverso: la calamitosa. Occorre salire su seicento metri per ridiscenderne un migliaio. E che discesa! Venticinque nastri gettati sul fianco d’una roccia a picco, ai piedi della quale batte il mare.

[p. 279 modifica]Eccomi solo, affidato ad un fanciullo, lungo una via fantastica, nel più vertiginoso degli apparecchi. Allorchè si giunge sulla sommità del monte e si sta per prendere finalmente la via della discesa, ho la sensazione nettissima che raggiungerò certamente la valle; ma molto più rapidamente forse di quanto osassi sperare qualche momento prima. Al primo svolto la vettura sbanda e slitta. «Sia prudente!» Il giovinetto sorride e prosegue nel suo cammino. Svolteremo così angosciosamente una cinquantina di volte. Ho messo il piede su lo staffone, pronto a saltare, ad uccidermi almeno da me! Così risoluto e rassegnato mi sono guardato intorno.

Quando giungiamo su la cima le sei del pomeriggio sono ormai passate. Scende già il fresco e la bruma sale. Al di sotto di noi le ripide scoscese del monte precipitano come muri. Il mare sembra l’acqua d’un lago chiuso tra i monti ed è color malva, roseo dove s’accalca la bruma. La vegetazione lungo i suoi bordi diviene nera se pure qualche campanile mostra ancora qualche luce sui suoi mattoni. Questo campanile è Paola, dove io debbo dormire? Quale alloggio mi aspetta? Il convento di San Francesco di Paola mi è stato indicato come preferibile agli alberghi. Esso nen può essere peggiore. E per me brilla più di una stella. Da sola rischiara l’immensità che mi circonda, magnifica di grandezza e di mistero, tra i monti riavvicinati e precipitosi, su questo mare calmo e silenzioso, su questo cammino ve: tiginoso, tra il vento diaccio della notte, che incombe. Di già il basso dei monti è scomparso, mentre la strada brilla ancora biancastra. Sembra ora che si corra verso un abisso senza fondo. Oltrepassata la sinuosità della strada, la vettura sembra volare verso il niente. Passiamo nel villaggio come una tromba muggendo e quando giungiamo al convento la notte è definitivamente discesa».

E questa notte passata nel convento di S. Francesco di Paola, tra i buoni frati, gli spira il seguente passo in cui dimentica tutti i disagi sofferti: «Ed ora, nel treno, che mi porta verso la Sicilia, tutto si cancella, ogni maledizione si dimentica; non vedo più che i visi sorridenti dei miei giovani amici, grazie ai quali la Calabria, poichè essi hanno rallegrato il mio cuore e fatto rivivere tutta la mia giovinezza, resterà uno dei più cari e più puri ricordi dei miei vagabondaggi».

Ma se la Calabria lo ha alquanto scontentato e disilluso, la Sicilia gli fa vivere tutto un sogno di luce, di gloria artistica purissima e di infinite commozioni che egli riassume così: «Questa terra di Sicilia è la più feconda che ci sia per un francese. Qui, egli trova tutto ciò che fa la caratteristica della sua razza: il culto del bello, il coraggio, il giudizio e la destrezza. Ciò che Goethe diceva dell’Italia noi possiamo attribuircelo: «L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nello spirito: è qui che vi è la chiave di tutto».

Questa chiave apre anche le porte della nostra patria. E se l’avidità passata e anche presente degli uomini ha reso questa terra così differente, per la sua miseria, dalla nostra, non è una ragione di più perchè noi dobbiamo sentire di amarla meglio?

Sono diversi anni che io ho passato a percorrere l’Italia e quando voglio ricapitolare le mie impressioni una voce mi risponde con una sola parola: bellezza.

L’isola della Sicilia è tuttavia la terra che pronunzia questa parola con l’accento più puro!»

Iniziando quest’articolo io ho accennato alle ricerche e agli apprezzamenti sociologici dell’autore. Essi sono molti e disparati. Uno solo apprezzamento voglio tuttavia esaminare. Maurel davanti la tomba di Petrarca, facendo della filosofia della storia, guarda l’Italia da un punto di vista federalista che gli fa torto. Egli immagina che vi sia troppa dissimiglianza tra centro nord e sud perchè la nazione possa prosperare coi poteri centralizzati. Ebbene Maurel s’è ingannato: egli ha visto troppo o troppo poco. Egli non si è accorto, viaggiando in Italia, che quel malcontento latente che lo faceva riflettere e lo spingeva a pensare ad una federazione delle regioni era nient’altro che esuberanza di vita. Egli non s’era accorto, enunciando una teoria, che lo stesso Ferrero gli rimprovera, che l’Italia era sotto pressione, per così dire, in attesa di un fatto nuovo!

E il fatto nuovo è venuto: la guerra! Che ci farà respirare meglio sul mare e che ha trovato tutti, proprio tutti, concordi e patriotticamente assimilati nello stesso sogno di grandezza! I campi della Libia e le onde dell’Egeo si sono incaricati di dire un po’ rudemente: Maurel, aveva torto: «L’Italia è oramai una nazione che ha gli italiani!».

E Maurel, che è uno squisito scrittore e un uomo di spirito, riconoscerà di aver avuto torto e magari aggiungerà qualche nuovo delizioso capitolo ai tanti che si leggono così volentieri, per descrivere ai suoi compatriotti come può apparire ad uno straniero l’Italia nell’anno di grazia 1912!

G. Giacomantonio.

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  1. Qui, probabilmente, fu fatta confusione fra la discussione avvenuta a quei tempi attorno ad alcune circostanze del fatto «meraviglioso» e la opposizione in merito al fatto medesimo. La dissertazione fatta dal card. Lambertini (Benedetto XIV) non fu in opposizione al fatto, ma verte precisamente sulle varie versioni delle circostanze del medesimo, come ad esempio quella del grafico disegno del terreno smosso, e del nuovo titolo applicato alla Festa «Dedicatio Ecclesie S. Mariae ad Nives, etc.».
    Tanto che il sullodato cardinale, Benedetto XIV, a conchiusione di ogni disputa dissipata, dichiara «Pius V Breviarum Romanum a se emendatum, in quo Ufficium etiam in pesto Dedicationis S. Mariae ad Nives correptum edidit et Universo Orbi Catholico recitandum proposuit».
    Così che, sin d’allora, ed al presente, tanto nel Rito Romano, come nel Rito Ambrosiano, si trova mantenuta la Festa della Dedicazione di S. Maria della Neve. Anzi nel Breviario Ambrosiano si allega una Lezione de proprio relativa al fatto «celebrato»; benchè, per altro, non si faccia di esso menzione speciale nel Prefazio del Messale.
  2. A. Maurel, Petites villes d’Italie, Calabre-Sicile, Paris, Librairie Hachette et C.ie, 1912.