Il buon cuore - Anno XI, n. 39 - 28 settembre 1912/Educazione ed Istruzione

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Impressioni lauretane

(Dal Corriere d’Italia).

Mentre l’automobile filava rapido sulle snelle, dirette strade della Marca anconitana che salgono e scendono come bianchi nastri tesi sui dossi dei colli succedentisi per la distesa della zona adriatica, io riandavo tra me e me la lunga serie degli studi che rammentavo d’aver letto circa l’autenticità della Santa Casa: vi ero diretto, in una bella mattinata estiva, trionfante di verde e di azzurro, sotto il sole che sembrava congiungere in una atmosfera luminosa, terra, mare, cielo; ed era ben naturale che anche nella mia mente si destassero agili ricordi di tutto quanto si rannodava al tema della mia gita, alla meta dei miei pensieri.

Chi, tra i cattolici un po’ colti, non conosce la polemica lauretana, suscitatasi intorno alle due opere più recenti e diffuse, quella dello Chevalier e quella dell’Eschbach? Essa ora tace; ma la sua letteratura rimane, perchè vi hanno partecipato tutte le nostre migliori riviste storiche, non ho bisogno di dire in qual senso; e rimane a testimonio della superiorità di spirito colla quale tra i cattolici ormai si tratta la critica che è la fiaccola agitata a illuminare le tenebre della storia; una fiaccola che a certuni par sempre destinata ad appiccare il fuoco da qualche parte, o per lo meno ad affumicare e ad offendere memorie sacre e venerande; ma che invece, portata bene, ritta, alta, da gente che se ne voglia valere per veder meglio e non per altro, se anche fa sparire di tanto in tanto qualche illusione ottica, e ci rivela il vuoto là dove noi eravamo abituati a credere che esistesse qualche cosa, getta però dappertutto sprazzi di luce, che danno maggior risalto ai contorni della tradizione, definendoli nella loro linea precisa e sicura.

Io a Loreto, confesso, non ero mai stato: m’ero sempre accontentato di vedere la Santa Casa nella riproduzione fedele che ne abbiamo a Milano, laggiù a San Vittore; nè la dimenticanza era certo dovuta a qualsiasi ragione che avesse attinenza colla questione storica: Loreto non ha nulla da perdere nel concetto della cristianità dall’esito della disputa intorno alla credibilità del racconto del Teramano, perchè uno degli argomenti maggiori che a tale racconto si oppone, cioè l’essere la chiesetta dedicata a Maria ricordata in documenti anteriori alle date delle traslazioni, non fa che risospingere oltre, nei secoli, gli inizi della venerazione popolare e riconsacrare in una maggiore antichità il culto che su queste incantevoli spiaggie la Vergine ha raccolto in uno dei santuari più illustri del mondo.

No, io a Loreto non ero mai stato, semplicemente perchè non ne avevo mai avuto l’occasione; e ci andavo ora portato come in un turbine dalla macchina trasvolante di poggio in poggio, con tanto maggior interesse: mi pareva di pagare finalmente un tributo alla celeste Regina delle Marche.

Man mano che l’automobile saliva, rallentando, il collle sacro, sulle cui argille azzurre e dorate gli olmi gli olivi slanciano le loro cime mosse dalla perpetua brezza marina, tutt’intorno si disegnava il panorama magnifico; la mia guida mi segnava Castelfidardo, Osimo, Camerano, Sirolo, Numana, Recanati; e da questi gruppi caratteristici d’abitanti, l’occhio scendeva subito all’arco della costa, in cui l’Adriatico s’adagia come un queto lago, protetto in fondo dal poderoso sperone del monte Comero.

Il santuario, è là, in alto, e la prima impressione che se n’ha è di una costruzione robusta e grandiosa, con qualche tono militare, che fa correre la mente ai tempi in cui da questi poggi le popolazioni scoprivano, atterrite, profilarsi nel mare le navi turchesche, e dovevano pensare quasi più ad erigere solidi baluardi che non a coltivare i campi fecondi: nè l’impressione sconviene affatto, e piace anzi ritrovare nel tempio eretto alla donna purissima del Cristianesimo, l’impronta della lotta contro la violenza brutale e lasciva dei figli del Corano.

Del resto, si tratta di un’impressione, e nulla più: di una impressione che cede subito quando l’occhio si ferma sulla grande cupola bramantesca che si slancia arditamente al cielo; ancora il visitatore non sa che tesori di marmi e di colori essa copra e protegga; ma prepara, colla sua linea, superba e svelta insieme, a qualche cosa di grande.

Quando l’automobile s’inoltra nelle vie della cittadina, il panorama scompare: e allo spettacolo della natura se ne sostituisce presto uno di tutt’altro genere.

Nella piazza della Madonna l’automobile si ferma: e scendendo, dopo che l’occhio ha corso per un momento lungo le linee maestose del palazzo apostolico che chiudono la piazza da due lati, lo fermate sulla statua in bronzo di Sisto V, che è piantata a sinistra della porta d’ingresso della basilica: il grande pontefice è seduto benedice; la sua testa è meravigliosa per la forte modellatura e fa dire che l’artista deve avere sentito nel suo soggetto non solo il pontefice al quale Loreto dovette nel 1587 il compimento del tempio magnifico, la erezione in vescovado, non solo il figlio illustre di terra anconitana, ma anche e più il grande papa che lasciò un’orma così profonda nella storia della Chiesa e dell’Italia.

Come volontieri dinanzi ad un’opera d’arte in cui l’autore abbia impresso ed espresso qualche cosa di non fuggevole, ci si arresta a riflettere, a ricordare: lì mi accadeva di subire una particolare suggestione incontrando sulla soglia della casa dell’umile Vergine di Nazareth, a cui ci s’avvicina con un’aspettativa di dolcezza e di pietà, la maschia figura d’un uomo che è rimasto nella memoria dei posteri cinto da un’aureola di severità e di forza; suggestione che nasce però insieme dal contrasto apparente e dall’armonia reale; da quella armonia per cui tutta la storia della Chiesa in mezzo alle più fortunose vicende, alle persecuzioni come agli splendori, si concentra e si avviva nella [p. 311 modifica]semplicità divina delle sue origini purissime, l’amore e il dolore.

Ma varcata la soglia, ogni idea di critica e di filosofia della storia, si dilegua: l’ambiente mistico che subito vi investe, non vi permette più di discutere e di riflettere; vi fa sentire, vi soggioga, vi trasporta in un mondo della fede, di cui l’aria, dentro, è satura, perchè essa da secoli vibra delle preghiere che generazioni senza numero di cristiani, venuti da ogni parte d’Europa, hanno innalzato alla Vergine; voi le sentite quasi come un’eco continua, incessante, di voci sommesse, di mormorii, di invocazioni, di lodi; è impossibile isolarsi, domandarsi chi siete e in che anno vivete: no, là dentro si scompare nella folla unica dei fedeli, che come una fiumana si riversa intorno alla vetusta effigie di Maria da epoca imprecisata, e leva ad essa gli occhi velati di lagrime nello spasimo di una afflizione, nel gaudio di una grazia conseguita, nello sfogo di un, affetto tenerissimo. Come vennero i primi? Nessuno lo sa: certo quando ancora qui non sorgeva che una rozza cappelletta, intorno alla quale si è man mano sviluppata la sontuosa basilica; e qui primamente forse è sgorgata dall’anima popolare commossa quella can• tica primitiva, cosi semplice, ma così bella, che sono le litanie; una cantica che ha attraversato i mari e i monti, che oggi si ripete in tutte le più riposte e perdute lande, ove appena il nome di Maria sia giunto: una cantica che fin le più oscure donnicciole del volgo sanno a memoria; una cantica alla quale si sono adattate le più varie armonie, e che la Chiesa ha consacrato nei suoi riti, battezzandoli nel nome di Loreto.

Inginocchiato nella augusta cameretta della Madonna, senz’aria e senza luce quasi, ove i metalli preziosi delle lampade e i marmi dell’altare gettano i loro riflessi, o meglio le loro ombre, sulle pareti affumicate, in mezzo a gente assorta nell’estasi del mistero affascinante, io rivivevo la vita dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza: e nelle mie orecchie, anzi nel mio cuore, risuonavano con una dolce ripercussione di onde armoniose i versetti tante volte uditi a pieno coro nelle chiese della mia città, come in quelle più modeste dei villaggi: le litanie si svolgevano nel fondo dell’anima mia con una spontaneità non mai provata, e mi pareva di intenderne meglio, lì dentro, la ingenua bellezza, e il senso profondo.

Mi avevano detto ad Ancona: sentirete che tanfo nella Santa Casa: è sempre così piena di contadini, meglio di contadine, che è un miracolo se uno non ci rimane soffocato. Confesso che avevo fatto il proposito di constatare se fosse vero; ma dichiaro che non me ne sono più ricordato; e aggiungo che non so come avrei potuto ricordarmene: avrei dovuto sottrarmi a quegli istanti di raccoglimento, far tacere le memorie soavi affollantesi alla mente, soffocare la preghiera sgorgante dal cuore limpida e spontanea per attivare.... il senso dell’olfatto; no: grazie a Dio e ci sono nella vita le ore in cui lo spirito prende il sopravvento, e signoreggia, ed esso disprezza allora le miserie che in altre circostanze ci danno tanta noia; esso reclama per sè il dominio del nostro essere, lo solleva, lo avvicina al cielo; e sono allora i profumi della grazia che ci circondano, come sono le visioni caste e terse che ci allettano e ci avvincono.

La Santa Casa può dare tutto ciò a chi vi entri e vi si soffermi con senso riverente di religiosità schietta e sentita, indipendentemente dalla secolare tradizione che la consacra; questo è vero; ma è pur vero che la tradizione ha sulle masse come sui singoli individui del popolo, una grande parte nel determinare lo slancio della fede: non è lì dunque che si debba e si possa intavolare la disputa critica per sapere quanto nella tradizione ci sia di leggenda e quanto di storia: dal punto di vista della pietà popolare e della legittimità del culto il problema è già stato risolto quattrocento anni or sono dalle parole usate da Giulio II nella sua bolla lauretana; la prima in cui si trovi un cenno del racconto delle traslazioni: ut pie creditur et fama est. È quanto basta.

(Continua).

F. Meda.

SONATORE D’ORGANINO

In un sereno vespro fiorentino
a piè d’un colle, sotto un leccio ombroso
un vecchio sonatore d’organino
seduto vidi, solo e pensieroso.

Quando mi scorse si rizzò su a stento,
avea una gamba mozza. Là per via
trasse fuori dal logoro strumento
una tenue, soave melodia

che penetrava lene lene al core.
Pareva che un potere sovrumano,
un’occulta virtù, intenso amore
guidasser quella scarna e stanca mano,

L’anima mia oppressa e scoraggita
perchè umana passion la tormentava,
tutta fu da quel suon presa, rapita;
sentì che a Dio qualcun la richiamava.

Dal gravoso terren laccio disciolta,
alto alto sen gìa, lieve, serena,
da ineffabile pace cinta, avvolta,
lontana dal desìo e dalla pena.

Del sonator, il corpo dolorante
a un angelico spirto facea velo,
sulla terra a soffrir disceso, errante
per ricondurre i suoi fratelli al cielo.

Samarita.