Il cavalier Giocondo/Atto IV

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Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Camera.

Donna Marianna ed il Marchese.

Marianna. Pur troppo sarà vero; l’ho veduto in effetto.

Poc’anzi Rinaldino m’ha perduto il rispetto.
Poco mancò che a lui non dessi una guanciata;
Ma principiar non voglio, la mano ho ritirata.
Marchese. Benedette le mani che dan con discrezione
Qualche guanciata ai figli, se porta l’occasione.
Per voi, signora mia, sarà un rimedio egregio
Staccarvelo dal fianco, e metterlo in collegio.
Marianna. Severa non m’impegno di mantenermi a lungo;

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Avrò pena di morte, da lui se mi disgiungo.

Ma bilanciando in cuore l’affetto ed il periglio,
Meglio è che mi risolva distaccarmi dal figlio.
Dove credete voi che metterlo potessi?
Marchese. Parlo col cuore in mano, quando un figliuolo avessi,
Il collegio migliore prescegliere vorrei:
E il collegio di Parma per questo io sceglierei.
So che i suoi direttori sono i più saggi e destri,
So ch’è ben provveduto di pratici maestri.
D’uomini singolari, d’ottimi professori
Delle più belle arti, delle scienze migliori.
Nè sol tende agli studi la loro applicazione,
Ma a dare ai giovanetti perfetta educazione.
Lor vengono ispirati quei nobili pensieri,
Che rendono apprezzati al mondo i cavalieri;
E vi è sì buona regola nel nobile recinto.
Che alla virtude il cuore soavemente è spinto.
Antichissima fama si è procacciata al mondo,
Di segnalati allievi fu sempre mai fecondo.
Crescendo a dismisura l’onor suo veterano
Per l’alta protezione dell’eccelso Sovrano:
Di lui, che dalle Spagne venne d’Italia in seno
Ad infiorar coi gigli l’italico terreno,
Delle nobili scienze, dell’arti più onorate
Protettor generoso, provvido mecenate.
Marianna. Non so che dir, Marchese, vediam dunque di farlo;
Andiamo immantinente in Parma a collocarlo.
Ma vi vorrà del tempo, e con mio figlio io dubito
Non la duri don Pedro.
Marchese.   Si può risolver subito.
Animo, risolvete.
Marianna.   Povero Rinaldino!
Marchese. Povera voi, signora! Per voi sarà meschino.
Marianna. Chi è di là?
Servitore.   Che comanda?

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Marianna.   Venga qui mio figliuolo.

((Il servitore parte)
Marchese, ho già risolto.
Marchese.   Davver? me ne consolo.
Marianna. Ma s’ei negasse andarci, s’ei disperar mi fa?
Marchese. Usate con il figlio la vostra autorità.
Marianna. Ridurmi a questo segno non so senza tormento.
Marchese. Sta la rovina vostra nel vostro pentimento.
Marianna. Eccolo. Poverino! Da lui mi staccherò?
Marchese. Eh, fatevi coraggio.
Marianna.   Ah, non resisterò.

SCENA II.

Rinaldino e detti.

Rinaldino. Da me che cosa vuole la mia signora madre?

Marianna. Udite, Rinaldino, voi non avete padre;
Tenervi al fianco mio non vo’ più lungamente:
Mi converrà lasciarvi.
Rinaldino.   Non me n’importa niente.
Marchese. Sentite? (a donna Marianna)
Marianna.   Si risponde così alla madre vostra?
Rinaldino. Dei schiaffi mi faceste testè veder la mostra.
Se il ben che mi voleste, non mi volete più,
Di prendermi le busse non son sì turlulù.
Marchese. Lo sentite? (a donna Marianna)
Marianna.   La mano di genitrice amante.
Quando percuote il figlio, d’ogn’altra è men pesante.
Rinaldino. Mani sentite ancora non ho sul viso mio.
Sian pesanti o leggieri, schiaffi non ne vogl’io.
Marchese. Bene, quand’è così, senza di me restate;
Ritornerò alla patria, ingrato.
Rinaldino.   E quando andate?
Marchese. Merita certamente che gli portiate affetto.
(a donna Marianna)

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Marianna. (Ah, non trattengo il pianto. Mi stacca il cuor dal petto).

Rinaldino. D’una grazia soltanto vi vo’ pregar, signora.
Fate che anche don Pedro sen vada alla malora.
Marianna. Voi che far pensereste?
Marchese.   Via, signora, tant’è.
Don Rinaldino vostro vuole restar con me.
Io lo tratterò bene; io gli darò dei spassi.
Andate, se volete; ei seguirà i miei passi.
Da me don Rinaldino avrà tutti i piaceri.
Resterete con me?
Rinaldino.   Ci starò volentieri.
Marchese. (Ite, donna Marianna. Lasciatemi operare).
(piano a donna Marianna)
Marianna. (Soccorretemi voi). (piano al Marchese)
Marchese.   (Lasciatemi provare.
Ma impegnatevi meco ad una cosa sola:
Quel ch’io fo, sia ben fatto).
Marianna.   Vi do la mia parola.

SCENA III.

Il Marchese e Rinaldino.

Marchese. Che dite? Queste madri vogliono bene, e poi

Von battere i fanciulli.
Rinaldino.   Mia madre ha i grilli suoi.
Marchese. E don Pedro è un cert’uomo che ha poca discrezione.
Rinaldino. Non lo posso vedere.
Marchese.   Anch’io vi do ragione.
Rinaldino. Voglio girare il mondo, voglio venir con voi.
Marchese. Stiamo in Bologna un poco, meco verrete poi.
Rinaldino. E poi ce n’anderemo per tutte le città;
E goderem dei spassi, e non si studierà.
Marchese. Qualche cosa per altro sapere è necessario.
Conosco un bel talento in voi non ordinario.
Pria di venir con me, vi metterò in un loco,
Dove le scienze tutte apprenderete in poco.

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Si tirerà di spada, si salterà il cavallo;

Imparerete il suono, imparerete il ballo.
Reciterete in versi, reciterete in prosa.
Prestissimo sarete istrutto d’ogni cosa;
E allora per il mondo farete altra figura;
L’aio e la madre allora non vi faran paura.
Tutti vi vorran bene, tutti vi avran rispetto.
Prendete il mio consiglio, vi parlo per affetto.
Rinaldino. Quanto vi dovrò stare?
Marchese.   Fin che vi piacerà.
Rinaldino. Si mangierà poi bene?
Marchese.   Si mangia a sazietà.
Rinaldino. Busse non ne daranno.
Marchese.   Oibò, non le temete.
Rinaldino. Fanno studiar per forza?
Marchese.   Volendo, studierete.
Ma quel che s’ha da fare, si dee risolver presto.
Finchè donna Marianna nol sa.
Rinaldino.   Per me son lesto.
Marchese. Anche a don Pedro stesso abbiamo da celarlo.
Rinaldino. Io non mi degnerò nemmen di salutarlo.
Marchese. Andiamo.
Rinaldino.   Andiamo pure. Con voi vengo per tutto.
Marchese. (Vegga dell’amor mio donna Marianna il frutto.
A chiudere il fanciullo sollecitar bisogna;
Vi sono dei collegi celebri anche in Bologna).

SCENA IV.

Altra camera.

Il Cavalier Giocondo e' Fabio.

Cavaliere. Io voglio questa sera che mi facciate onore.

Voglio una bella cena.
Fabio.   La faremo, signore.

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Cavaliere. Ma non voglio una cena, come le cene solite.

Voglio del stravagante; vo’ delle cose insolite.
Fabio. Come sarebbe a dire?
Cavaliere.   Che vi sien dei sapori
Altrove non sentiti dai nostri viaggiatori.
Fabio. Il cuoco ha preparato varie cosette buone.
Cavaliere. Questa volta ha da fare a modo del padrone.
Che minestra ci dà?
Fabio.   Riso.
Cavaliere.   Non voglio riso.
Voglio un buon minestrone con varie cose intriso.
Suppa coi fegatelli di pollo e di piccione,
Erbe, trippe, ed intorno polpette di cappone.
Fabio. Volete che si sazino colla minestra sola.
Cavaliere. Voi non sapete niente, da voi non prendo scuola.
Vi saranno antipasti?
Fabio.   Vi saran le animelle,
Il fegato con salsa, le dorate cervelle.
Cavaliere. No, no, per antipasto sono una cosa rara
I freschi cotichini, che vengon da Ferrara:
Bondiole parmigiane, salami modanesi.
Le grosse mortadelle dei nostri Bolognesi.
Vo’ che ci sia di tutto.
Fabio.   S’hanno a cavar la fame,
A forza di minestra, a forza di salame?
Cavaliere. Signor sì. Andiamo innanzi. L’allesso che sarà?
Fabio. Capponi.
Cavaliere.   Non va bene, voglio una novità.
Voglio che per allesso questa sera ci sia
Di quella castratina che vien di Schiavonia.
Mi ricordo che a Chiozza io ne ho mangiato un dì.
Fabio. Ha un odore che appesta.
Cavaliere.   Io la voglio così.
Vorrei un certo piatto che ho mangiato a Ferrara:
Era una cosa buona, era una cosa rara.

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Era un ragù francese composto all’italiana,

Con zucchero, uva passa, pepe e salvia nostrana.
I polli in questa salsa erano più esquisiti;
Perchè pria nello spiedo li avevano arrostiti.
Fabio. All’osteria li fanno tai piatti regalati
Coi pezzi che il dì innanzi si trovano avanzati.
Cavaliere. Altre due cose buone a Modona mangiai;
L’ho detto cento volte, e non ne vedo mai.
Ricordatelo al cuoco, vo’ due torte compagne,
Una di latte e vino, ed una di castagne.
Fabio. Torta di latte e vino vi avrebbe preparato.
Se un vomitorio i medici vi avessero ordinato.
Cavaliere. L’arrosto che sarà?
Fabio.   Piccioni e buon vitello.
Cavaliere. Signor no, si cucini da latte un asinelio.
Son di Scaricalasino, e voglio che si dia
Pietanza, che allusiva è della patria mia.
Fazio. Benissimo; mi piace.
Cavaliere.   Ditegli in due parole.
Che faccia quel ch’io dico, poi faccia quel che vuole.
Le cose che ho ordinate, vo’ che ci sieno, e poi
Io mi rimetto al cuoco, io mi rimetto a voi.
Non parlo dei liquori, non parlo delle frutta:
Vi lascio, se volete, spogliar Bologna tutta.
Voglio che i forestieri parlin per tutto il mondo
Del gusto delicato del Cavalier Giocondo.
Fabio. Si farà, per servirvi, alcun de’ vostri piatti:
(E i forestier diranno: e viva il re de’ matti).

SCENA V.

Il Cavalier Giocondo, poi Lisaura.

Cavaliere. Di buon gusto son io; e nell’andare in volta,

Di cose peregrine procuro far raccolta.
Allor che i viaggi miei averò terminati,
Voglio dare alle stampe i lumi che ho acquistati.

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Lisaura. Signore, i servitori, se non lo dite voi,

Non ci voglion dar nulla.
Cavaliere.   Cenerete con noi.
Lisaura. D’una cosa per altro non sono persuasa:
È ver che non si desina in questa vostra casa?
Cavaliere. È ver, signora sì; ed in questo paese
Son io sol che non desina, trattando alla francese.
Lisaura. E quei che all’italiana sono avvezzi a trattare,
Per far l’usanza vostra, di fame han da crepare?
Cavaliere. Più buono questa sera vi riuscirà il convito.
Lisaura. Una salsa preziosa suol esser l’appetito.
Dite, signore, intanto nulla per noi faceste?
Cavaliere. Non ancor. Converrebbe ch’io avessi cento teste.
Protezion, cerimonie, lettere, forastieri.
Tutti da me ricorrono, mercanti e cavalieri.
Son io tutto di tutti, tutto m’impegno in tutto.
Tutti ceniamo in prima; doman si farà tutto.

SCENA VI.

Lisaura, e poi Gianfranco.

Lisaura. Presto ci scopriranno, presto finirà il gioco.

Oh, se don Alessandro tornasse al primo foco!
Gianfranco. Lisaura, eccomi qui.
Lisaura.   Gianfranco, ho ritrovato
Alfin quel cavaliere che un dì m’ha abbandonato.
Gianfranco. Dove?
Lisaura.   Alloggia ancor egli in questo luogo istesso.
Gianfranco. Ci dividiamo adunque, or che gli siete appresso?
Lisaura. Non so, veder conviene s’ei pensa come prima.
Con lui ho favellato, ha per me della stima;
Ma per render contento il mio povero cuore,
La stima non mi basta, vuol essere l’amore.
Tutti i casi seguiti sincera io vi narrai:
Lasciata dall’ingrato, con voi m’accompagnai.

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Egli con un altr’uomo in compagnia mi vede,

Ma della mia onestà gli potete far fede.
Gianfranco. Gli giurerò ben anco, con mille giuramenti.
Che in voi non venner meno gli onesti sentimenti;
Che donna come voi modesta, non si trova;
E s’egli non mi crede, può mettervi alla prova.
Ma ditemi, Lisaura, che si fa in questo loco?
Non pranzano, non cenano?
Lisaura.   Si cenerà fra poco.
Gianfranco. Mi tormenta la fame.
Lisaura.   Mangiato io pur non ho.
Ecco qui il Cavaliere che un dì m’abbandonò.

SCENA VII.

Don Alessandro e detti.

Alessandro. (Madama che dirà, che l’ho per via piantata?

Madama ha tutto il merito, ma impaziente è nata.
Colto ho un giusto pretesto, per sollevarmi un poco;
Quando le son vicino, parmi d’esser nel foco). (da sè)
Lisaura. (Non ci osservò). Signore. (ad Alessandro)
Alessandro.   Bella Lisaura mia.
(allegro vedendola)
Gianfranco. Signor, la riverisco. (a don Alessandro)
Alessandro.   Buon giorno il ciel vi dia.
(a Gianfranco, sostenuto)
Lisaura. Son qui per rivedervi.
Alessandro.   Tutto il piacer mi date. (ridente)
Gianfranco. Son vostro servitore.
Alessandro.   Da me che comandate? (sostenuto)
Gianfranco. Nulla, signore, io sono di Lisaura custode.
Alessandro. Lisaura è una ragazza che merita ogni lode.
Gianfranco. Ed io l’ho custodita con tutta probità.
Alessandro. Lisaura, è da fidarsene? (a Lisaura)
Lisaura.   È così in verità.

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Alessandro. Siete quella di prima?

Lisaura.   Signor, ve lo prometto.
Gianfranco. Io sono un galantuomo.
Alessandro.   Non mi pare, all’aspetto.
Gianfranco. Se di me dubitate, domandatelo a lei.
Lisaura. Più galantuom di questo non vidi ai giorni miei.
Ebbe di me pietade, mi prese in compagnia,
Senza veruna offesa dell’innocenza mia.
Alessandro. Il suo nome qual è?
Lisaura.   È il suo nome Gianfranco.
Alessandro. Merita che si segni, affè, col carbon bianco.

SCENA VIII.

Donna Marianna, don Pedro e detti.

Marianna. Senza del mio figliuolo non so dove mi sia.

(a don Pedro)
Pedro. Meglio assai divertirvi potrete in compagnia.
Anche il digiuno istesso fa crescere la pena;
Ancora non si vede nè il pranzo, nè la cena.
Marianna. Amico, ho profittato dei vostri avvertimenti.
(a Gianfranco)
Lisaura. (Vi conosce). (piano a Gianfranco)
Gianfranco.   (Tacete). (a Lisaura) Il ciel fa tai portenti.
(a donna Marianna)
Alessandro. Signora, il conoscete cotesto galantuomo?
(a donna Marianna)
Marianna. Sì, lo conosco appieno; v’attesto, egli è un grand’uomo.
Gianfranco. È bontà della dama, che a me fa tal favore.
Lisaura. Non ve l’ho detto anch’io, ch’egli è un uomo d’onore?
(a don Alessandro)
Alessandro. Lo crederò.
Marianna.   Credetelo. Certamente io lo stimo.
Lisaura. Mi amò senza malizia.
Alessandro.   Egli sarebbe il primo.

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SCENA IX.

Il Marchese di Sana e detti.

Marchese. Eccomi di ritorno.

Marianna.   Ben, che nuova mi date?
Marchese. Il ciel vi vuol contenta, il cuor rasserenate.
Temeste che il figliuolo negasse andar serrato;
Egli par contentissimo, si è presto accomodato.
Colla buona maniera fu il giovane convinto;
Si è sottomesso in pace, pare al ben fare accinto.
Superati con arte questi momenti primi,
Forse avverrà che meglio il suo dovere estimi;
E converrà ch’ei faccia, e converrà ch’ei brighi,
Un poco colle buone, un po’ con i castighi.
Marianna. Con i castighi poi...
Marchese.   Parliam d’altro, signora.
Siamo all’ora di notte, e non si mangia ancora? (forte)
Pedro. Anch’io così diceva.
Lisaura.   Siamo tutti affamati.
Gianfranco. Per bacco, i nostri stomachi ha il Cavalier provati.
Alessandro. Avrà la sua ragione per operar così:
Mangiasi in qualche luogo una sol volta al dì.
Non alla patria mia, non a Milan certissimo,
Ove si pranza bene, e si cena benissimo.

SCENA X.

Madama di Bignè, il Conte e detti.

Madama. Bravo, don Alessandro, a favorir non viene;

Per poco si licenzia, non torna, e si trattiene.
Dove imparata avete una sì bella usanza?
Alessandro. Compatite, Madama...
Madama.   Non avete creanza.
Lisaura. (Come soffrite mai un favellar sì altero?)
(piano a don Alessandro)

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Alessandro. (Stanco son di soffrirla. Liberarmene spero).

(piano a Lisaura)
Madama. Ora, signor, capisco dove il suo genio inclina.
Caro don Alessandro! trovò la pellegrina.
Lisaura. (Or ora, se mi stuzzica...)
Alessandro.   Tornava ora da voi...
Permettete, Madama...
Madama.   Ci parlerem di poi.
Che vi par, miei signori, di questa bella scena?
Il Cavaliere Giocondo ci fa penar la cena.
Conte. Lo stomaco più forte dee andare in languidezza.
Pedro. Quest’è, per dir il vero, un po’ d’indiscretezza.

SCENA VI.

Madama Possidaria e detti.

Possidaria. Serva di lor, signori. Come stan queste dame?

Madama. Le dame e i cavalieri si muoion dalla fame.
Possidaria. Presto saran serviti. Sta lavorando il cuoco.
Favoriscan sedere. Tratteniamoci un poco.
Gianfranco. Voi non avete fame? (a madama Possidaria)
Possidaria.   Io no, perchè ho mangiato:
Una zuppa, un pollastro, e un poco di stufato.
Pedro. Brava, madama, in vero; e non chiamaste alcuno?
Conte. Voi vi siete pasciuta, e noi siamo a digiuno.
Madama. Ecco qui i servitori. Pronta è la cena affè.
Possidaria. Favoriscan, signori. Noi beveremo il tè.
(vengono i servitori col tè)
Madama. A quest’ora?
Lisaura.   Madama, altro ci vuol che questo.
(a madama Possidaria)
Possidaria. Date lor da sedere. (ai servitori)
Pedro.   Quando si cena?
(a madama Possidaria)

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Possidaria.   È presto. (tutti siedono)

Madama. Signori, allegramente, il tè ci hanno portato,
Per farci digerire quello che si ha mangiato.
Marianna. Io volentieri il bevo.
Marchese.   Anch’io lo prenderò.
Lisaura. Intanto le budella anch’io mi sciacquerò.
Madama. Madama, questo qui tè non mi pare indiano.
Possidaria. Verissimo, madama, questo è tè veneziano.
Un’invenzion novella...
Madama.   Lo so, l’ho conosciuto.
Me ne fu regalato, e poi ne ho provveduto.
Buonissimo all’odore, gratissimo a pigliare;
Dicono ch’egli sia perfetto e salutare.
È un nuovo ritrovato che giova alle persone,
Che dà profitto all’arte, e onore alla nazione.
Un’altra tazza a me.
Marianna.   Beveste molto presto.
Madama. Io non m’annoio mai, quando bevo di questo.
Possidaria. Io poi, per dir il vero, sia sera o sia mattina,
A prendere son usa il tè della cantina.
Gianfranco. Il tè della cantina? Preziosissimo tè.
Pedro. La bibita è cotesta, che piace ancora a me.
Marchese. Tutti parlan, signora, e voi non dite niente?
(a donna Marianna)
Marianna. (Son qui solo col corpo; non son qui colla mente).
Marchese. (Siete col cuore al figlio. Sempre alle cose istesse).
Marianna. (Ora stava pensando all’M., all’F., all’S.).
Madama. Ho finito anche questa. Che cosa or s’ha da fare?
Pedro. Fino all’ora di cena star cheti, e sbadigliare.
Madama. Almen don Alessandro mi dica una parola;
Dica perch’è partito, e mi ha lasciato sola.
Alessandro. Madama, vi protesto... forse sarei tornato.
Conte. Sola non eravate, con voi v’era il cognato.
Madama. Se i seccatori fossero conformi ai desir miei,
È ver, signor cognato, voi valete per sei.

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Conte. Grazie alla sua bontà. (Per or soffrir bisogna). (da sè)

Possidaria. Dite, signora mia, vi è piaciuta Bologna?
(a madama Bignè)
Madama. Sì, mi è piaciuta assai. Amo la libertà.
Mi piace questa moda d’andar col taffettà.
A me, che in ogni cosa son risoluta e presta.
Pare una bella cosa trar il zendale in testa,
E andar dove si vuole con tutta confidenza,
Facendo qualche burla, e ancor qualch’insolenza...
Marianna. È ver, Bologna è bella; ma Roma è un cittadone...
Madama. Quella non è da mettere con questa in paragone.
Marianna. Perchè? non è magnifica?
Madama.   Perchè, in una parola,
Più mi piace Bologna.
Marianna.   (Vuol parlar ella sola). (da sè)
Lisaura. Venezia non è bella?
Madama.   È ver, ma mi fa male
Il moto della gondola, e l’odor del canale.
Lisaura. Si va per terra.
Madama.   I ponti sono i tormenti miei.
M’è piaciuta la Piazza.
Lisaura.   (Vuol parlar solo lei).
Possidaria. Voi che vedeste al mondo tante cittadi belle,
Avete mai veduto il mio Cavalcaselle?
Madama. Dove diavolo è?
Possidaria.   È un paese, padrona,
Delizioso, bellissimo, sulla via di Verona,
In cui ci si sta bene col freddo e con il caldo,
In cui si sente l’aria spirar di Montebaldo.
Madama. È una villa.
Possidaria.   Una villa? é un luogo nobilissimo.
Madama. Me ne ricordo adesso. Ha un pozzo profondissimo.
Possidaria. È vero, è cosa rara...
Madama.   Un uom che aveva meco.
Sentir in questo pozzo un dì mi fece l’eco.

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Dell’eco volea dirmi cento caricature;

Ma io non ho pazienza d’udir queste freddure.
Possidaria. Se voi di là, signora, tornate un dì a passare...
Madama. È una villa deserta.
Possidaria.   Non vuol lasciar parlare.
Lisaura. (Che stravagante umore!) (piano a don Alessandro)
Alessandro.   Eppure agli occhi miei...
(piano a Lisaura)
Madama. Signor don Alessandro, mi rallegro con lei.

SCENA XII.

Il Cavalier Giocondo e detti.

Cavaliere. Presto, presto alla cena.

Madama.   Presto, signori, andiamo. (s’alza)
A voi, don Alessandro.
Alessandro.   Andate pur, veniamo.
Madama. (Con questa pellegrina la vogliam veder bella). (da sè)
Cavaliere. Due volte il credenziere sonò la campanella.
Marianna. Andiam, signor Marchese.
Marchese.   Son qui con tutto il zelo.
(partono)
Pedro. Si mangerà una volta: sia ringraziato il cielo. (parte)
Madama. Favorisce, signore? (a don Alessandro)
Alessandro.   Madama, eccomi a voi.
Madama. Di quella pellegrina ci parleremo poi.
(parte con don Alessandro)
Conte. Il cognato non cerca; vuol farsi accompagnare
Dal cavalier servente! Basta, andiamo a cenare.
(parte)
Cavaliere. Voi perchè non andate? (a Gianfranco)
Gianfranco.   Temo non esser degno.
Lisaura. Non vorrei colle donne trovare un qualche impegno.

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Cavaliere. Niente: io so chi siete; se hanno opposizioni,

Mostrate la cintura coi ruspi e coi dobloni.
Possidaria. Chi sa quelle signore, che fan le delicate,
Che han tanti cicisbei, chi sa da chi son nate?
Gianfranco. Andiam; del Cavaliere si godano le grazie.
(a Lisaura)
Lisaura. (Mangiamo, e non vedere fingiam le malagrazie).
(piano a Gianfranco, e parte con lui)
Cavaliere. Vada, signora sposa.
Possidaria.   A lei, signor marito.
Cavaliere. A voi toccherà a fare gli onori del convito.
Come poi da dormire daremo a tanta gente?
Non abbiam che tre letti.
Possidaria.   Fate voi, non so niente.
Cavaliere. Facciam così, meniamoli tutti alla Montagnuola.
Là godesi la notte un’aria che consola.
Le notti sono corte, s’andranno a divertire,
E passeranno il tempo colà, senza dormire.
Possidaria. Bravo, bravo davvero. Avete ben pensato.
Cavaliere. So il vivere del mondo, dopo d’aver viaggiato.

Fine dell’Atto Quarto.