Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo I/Allegorie del capitolo primo della prima cantica della Commedia di Dante Alighieri
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allegorie del capitolo primo della prima cantica della commedia di dante alighieri.
Nel mezzo del cammin di nostra vita, ec.
Que glorïosi che passaro a Colco,
Non s’ammiraron, come voi farete,
Quando vider Giason fatto bifolco.
Perciocchè allora per effetto potrete vedere, quanto d’arte e quanto di sentimento sia stato, e sia nello stilo poetico, oltre alla stima che molti fanno. E perocchè gustando con l’intelletto il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favoloso descrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta soavità riposta, in guisa che senza difficoltà aver non si puote: e direte, perchè non diedero i poeti la lor dottrina libera e aperta ed espedita, come molti altri fanno la loro, sicchè chi volesse ne potesse prendere frutto più tosto? In risponsione della qual cosa si possono tre ragioni dimostrare, e la prima può esser questa. Costume generale è di tutte le cose meritamente da aver care, il discreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il più forte serrarne c’ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e ad alquanti suoi amici e pochi e rade volte mostrarle: e questo fa acciocchè il troppo farne copia non faccia quelle divenire più vili: il che1 in parte possiam tutto il dì vedere avvenire. E se in ogni altra cosa nascosa ci fosse questa verità, guardiamo al sole, la luce del quale alcuna volta sì bella, non che più veggiamo, nè alcuna sì chiara muoversi, nè tirato nè sospinto se non dal divino ordine impostogli, pieno di tanta luce che ogni altro lucido corpo illumina, ogni terrena cosa vivifica accresce e nutrica, e al suo fine conduce; il quale per troppo mostrarsi è non solamente poco prezzato, ma son di quegli che di vederlo si schifano: per la qual cosa, acciocchè questo non seguiti, non so qual’altra cosa noi possiamo con più certa ragion dire che sia più cara, più da2 gradire, e meglio da riporre e da guardare, che sono gli alti effetti della natura, e i segreti misteri e sublimi della divinità. Questi, se negl’intelletti universalmente del vulgo divenissero, in poco tempo ne seguirebbe, che sarebbon prezzati meno che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle femminelle. E per questo lo Spirito santo così dottissimo, gli alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere nelle figure del vecchio Testamento, nelle visioni di certi profeti, e ancora nella Apocalissi di Giovanni Evangelista, sotto parole tanto nella prima faccia differenti dal vero, e meno conformi nell’apparenza a’ sensi nascosi, che per poco più esser non potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli umani ingegni seguir la divinità, con ogni arte s’ingegnarono di seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavan più degne sotto favoloso parlare nascondendo, acciocchè dove carissime sono, non divenissero vili, ad ogni uomo aperte lasciandole: il che assai bene pare ne dimostri Macrobio nel primo libro, cap, secondo, de Somno Scipionis, così dicendo: De Diis autem, ut dixi, ceteris et de anima non frustra se, nec, ut oblectent, ad fabulosa convertunt: sed quia sciunt inimicam esse naturae apertam, nudamque espositionem sui: quae sicut vulgaribus hominum sensibus intellectum sui, vario rerum tegmine, operimentoque subtraxit; ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari. Sic ipsa mysteria, figurarum cuniculis operiuntur; ne vel haec ademtis, nuda rerum talium se natura praebeat; sed summalibus tantum viris sapientia interprete, veri arcani consciis, contenti sunt reliqui ad venerationem figuris defendentibus a vilitate secretum etc. La seconda ragione può esser questa. Suole quello che con difficultà s’acquista piacer più, e guardarsi meglio, che quello che senza alcuna fatica o poca si trova: e questo le grandi eredita rimase a’ nostri giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio, essere molta malagevolezza il trarre la nascosa verità di sotto al fabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto a colui che per suo studio vede averla saputa trovare: laonde non solamente ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza nell’animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma nella memoria di colui che ritrovata l’ha la verità ritrovata: dove quella che senza alcuna diffcultà s’acquista, come leggiermente venne, cosi leggiermente si parte. Di che seguita che dell’avere faticato s’acquista, dove del non avere studiato l’uomo si ritrova di scienza voto. La terza ragione mi pare dovere esser questa. E’ non pare che alcun dubbio sia, li cieli i pianeti e le stelle essere ministri della divina potenza, e secondo la virtù loro attribuita i corpi inferiori generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e quegli nutrire e nel lor fine menargli. E perciocchè essi corpi superiori sono in continuo moto, e in diversi modi si congiungono, e si separano l’un dall’altro, par di necessità che gli effetti da lor prodotti in diversi tempi, e in materie diverse, debbano esser diversi, e a diverse cose disposti: e quinci par che seguiti la diversità degli aspetti degli uomini, de’ quali non pare che alcuno alcun altro somigli: e similmente degli oficii, i quali veggiam manifestamente essere, eziandio naturalmente diversi negli uomini. Dalla qual cosa mosso, dice il nostro autore nel Paradiso.
Un ci nasce Solone, e altro Serse,
Altri Melchisedech, e altri quello,
Che volando per l’aere il figlio perse.
E questo si dee conoscere muovere dal divino intelletto, il quale cognosce una università, come è quella dell’umana generazione, non poter consistere, se in sè non avesse diversità d’uficii, E perciò, acciocchè dell’altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia, e alcuni altri ad altre scienze. Colui che nasce atto a poesia, seguita in quanto può essa d’esercitarsi nel poetico oficio: e quantunque da Dio sia alle nostre anime, le quali esso immediate crea, data la ragione, e il libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de’ cieli, ciascun può far quello che più gli aggrada; pare che il più seguitin gli uomini quello a che essi sono atti nati: laonde quegli che al poetico oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro che quello che a tale oficio s’appartiene; e perciocchè a quello oficio s’appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quello laudevolmente s’esercita, non è peravventura da maravigliarsene. E perciò non si rammarichi alcuno se da’ poeti è sotto favole nascosa la verità, ma piuttosto si dolga della sua negligenza per la quale e’ perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d’avere ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere a questa parte risposto.
Fu adunque il nostro poeta, siccome gli altri poeti sono, nasconditore, come si vede, di così cara gioia, come è la cattolica verità, sotto volgare corteccia del suo poema. Per la qual cosa si può meritamente dire questo libro essere3 polisenno, cioè di più sensi, de’ quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose significate per la lettera, siccome voi potete aver di sopra nella esposizion litterale udito: e chiamasi questo senso litterale, e così è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale acciocchè voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in questi versi: In exito Israel de Ægypto, domus Jacob de populo barbaro: facta est Judea sanctificatio ejus. Israel potestas ejus. De’ quali se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente, vedremo esserci significato l’uscimento de’ figliuoli di Israel d’Egitto al tempo di Moisè; e se noi guarderemo alla allegoria, vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo: e se noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la conversione dell’anima nostra, dal pianto e dalla miseria del peccato allo stato della grazia: e se noi guarderemo al senso anagogico, vederemo esserci dimostrato l’uscimento dell’anima santa dalla corruzione della presente servitudine, alla liberta della gloria eternale. E così come questi sensi mistici sono generalmente per varii nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare allegorici; conciosiacosachè essi sieno diversi dal senso litterale, o vero istoriale. E questo è, perciocchè allegoria è detta da un vocabolo greco, detto alleon, il quale in latino suona alieno ovvero diverso: e perciò dissi questo libro esser 4 polisenno, perciocchè tutti questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in assai parti dare. E per questo agutamente pensando, forse potremmo del presente libro dir quello, che san Gregorio dice nel proemio de’suoi Morali della santa Scrittura, cosi scrivendo: Divinus etenim sermo, sicut mysteriis prudentes exercet; sic plerumque superficie simplices refovet. Habet in publico unde parvulos nutrial, servat in secreto, unde mentes sublimium in admiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita dixerim, planus et altus, in quo et agnus ambulet, et elephans natet, etc. Perciocchè recitando della presente opera la corteccia litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e umane, sotto quella artificiosamente nascose. E in questa maniera intorno al senso allegorico si possono i savii esercitare, e intorno alla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora tanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare. E così pnssiam vedere, questo libro avere in pubblico donde nutrir possa gl’ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda con ammirazione la mente de’più provetti. E ancora quantunque alla sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto di quella favelli come in assai parti fa, nondimeno largamente parlando, dir si può di questo quello esserne, che san Gregorio afferma di quella, cioè questo libro essere un fiume piano e profondo nel quale l’agnello puote andare, e il leofante notare: cioè in esso si possono i rozzi dilettare, e i gran valenti uomini esercitare. Ma avendo già l’una delle due parti in questo primo canto mostrata, cioè come quegli che di minor sentimento sono, si possano intorno al senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla quale si possano gli ingegni più sublimi esercitare: la qual cosa si farà aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso. Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte del presente canto, dieci cose: delle quali la prima sarà il veder quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice che ricordar non lascia come nella oscura selva s’entrasse. La seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo. La terza, qual fosse la diritta vìa la quale per questo sonno dice d’avere smarrita. La quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi, che esso avesse la diritta via smarrita. La quinta, perchè più nel mezzo del cammino di nostra vita che in altra età. La sesta, quello che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò. La settima, perchè più nel principio del dì che ad altra ora scriva d’essersi ravveduto. La ottava, quello che vuole s’intenda per li raggi del sole apparitigli, e per lo monte, nella sommità del quale gli apparvero. La nona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poichè alquanto la paura gli cessò. La decima, quello che noi dobbiam sentire per le tre bestie, le quali lo impedivano al salire al monte: e queste vedute, precederemo alla seconda parte del presente canto.
La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, acciocchè il senso allegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questo canto5, è quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice, che ricordar non lascia come egli entrasse nell’oscura selva. Ad evidenza della quale è da sapere, che il sonno che alla presente materia appartiene è di due maniere.
L’una è sonno corporale, e l’altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due maniere distinguere; delle quali l’una è naturale, e puossi dire esser quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento, e conservazione della nostra sanità; il quale occupandoci lega e quasi oziose rende tutte le nostre forze, ovvero potenze sensitive, e le intellettive; perciocchè perseverante esso, nè sentiamo nè intendiamo alcuna cosa; di che a’ morti simili divegnamo. Ma poichè la natura ha preso per la sua indigenza quello che l’è opportuno a restaurazione delle virtù faticate nella vigilia, e in conforto della vegetativa virtù, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi medesimi ci sciogliamo: e di questa alcuna cosa più distesamente diremo nel principio del quarto canto del presente libro. L’altra maniera del corporale sonno è quella, della quale vinta ogni corporal potenza si separa l’anima dal corpo; e senza alcuna cosa sentire o potere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dì novissimo senza poterci levare; e di questo intende il Salmista, quando dice: Cum dederis dilectis suis somnum. I1 sonno mentale allegoricamente parlando, è quello quando l’anima sottoposta la ragione a’ carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze temporali, s’addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna cosa a nostra salute operare: e questo è quel sonno del quale ne richiama san Paolo, dicendo: Hora est jam nos de somno surgere. E questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo: temporale è quando ne’ peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo: e il Salmista dice: Surgite post quam sederitis, qui manducatis panem doloris; e in altra parte san Paolo dicendo: Surge, qui dormi, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus. E talvolta avviene per sola benignità di Dio che noi ci risvegliamo, e riconosciuti i nostri errori e le nostre colpe, per la penitenza levandoci ci riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte de’ peccatori; e a lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, siccome donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia dell’anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale mentrechè ostinatamente ne’ nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugne l’ora ultima della presente vita, e in esso addormentati nell’altra passiamo: laddove non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno co’ miseri in tal guisa passati dimoriamo: li quali si dicon dormire nel sonno della miseria, in quanto hanno perduto il poter vedere, conoscere e gustare il bene dello intelletto, nel quale consiste la gloria de’ beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale ii nostro autore vuole che qui allegoricamente s’intenda, nel qual ciascuno che si diletta più di seguir l’appetito che la ragione è veramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della verità, alla quale in eterno non può ritornare.
La seconda cosa che era da vedere, dissi che era come noi in questo sonno mentale ci leghiamo. E perciocchè i lacciuoli sono infiniti, li quali la carne, il mondo e il demonio tendono alla nostra sensualità, pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d’uomo, ma ad un de’ modi, il quale è quasi universale, riducendoci dico.
Che dalla nostra puerizia noi il più dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in questi lacci, e quasi non accorgendocene, perciocchè più i sensi che la ragione abbiamo allora per guida, sì c’inveschiamo, che poi o non ci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultà, volendo, ce ne sviluppiamo, A questa etài nostri tre predetti nemici con ogni sollecitudine stendono le reti loro: e la ragione è questa. L’età, come detto è, è tenera, e nuova, e vaga, e la sensualità è in essa fortissima, perciocchè la ragione non v’è ancora assai perfetta: e sccondochè pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale quella età è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina: e la ragione pare assai manifesta. Sono generalmente i fanciulli vaghi del cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento desidera; e gustando, come spesso avviene, le saporite e dilìcate vivande, e i vini esquisiti, a pian passo procedendo, ed ausando il gusto a quello che non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli fanciulli, ad avere men cari quegli cibi che, quantunque rozzi, soleano satisfare alla fame e alla sete loro, e i più preziosi desiderano e domandano, e dal desiderio ad ottenergli si sforzano: e con questo nella età più piena procedendo, quasi come da naturale ordine tirati, al vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i giovani, ma i vecchi fa sè medesimi sovente dimenticare, loro con tante e tali lusinghe diletica, che potendo all’appetito la vigorosa età dell’adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima affezione quello vituperevole diletto seguendo tutti si mettono. E quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non altrimenti assai sovente ornandosi che se vender si volessono al mercato de’ poco savi. Le quali cose, perciocchè senza denari esercitare meritamente non si possono, gli sospingono nel desiderio d’aver denari, e per quelli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultà ad ogni disonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri, barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. Le quali cose, acciocchè a’ Lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo, che i lor figliuoli. ec. Vedi Giustino nel terzo libro, poco dopo il principio. E già ad età più piena d’anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la grandigia de’ re, e de’ signori, de’ gran cittadini, di quegli s’accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli, e ambiziosi divengono: le quali cose, e altre molte così successivamente, e talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi, nel sonno della oblivione de’ comandamenti di Dio ci legano, e tengono sì stretti, che quasi convertite in natura, per romore che fatto ci sia in capo destare non ci lasciano da addormentare, miseri, nel sonno de’ peccati; perciocchè molti altri, ma non gli avversarii nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta età adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa, perchè in questo modo presi, ci abituiamo ne’ peccati. E por giù l’abito preso è difficilissimo, e se pur si rimuove l’uomo talvolta del peccare, con molto meno difficultà n’è rivocato colui che abituato vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa memoria delle colpe già commesse n’è ritirato: nè è mia intenzione il modo.
La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la via, la quale l’autore dice d’avere per questo sonno smarrita. Egli è il vero che le vie son molte, ma tra tutte, non è che una che a porto di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sè dice nell’Evangelio: Ego sum via, veritas, et vita; e questa via tante volte si smarrisce (dico smarrisce, perchè chi vuole la può ritrovare, mentre nella presente vita stiamo) quante le nostre iniquità da’ piacer di Dio ne trasviano; mostrandoci nelle cose labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il Salmista, dicendo: Beatus vir, qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum non stetit, et. ed in altra parte dice pregando: Viam iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei. Chiamasi ancora la vita presente via; e di questa dice il Salmista: Beati immaculati in via: e in altra parte: De torrente in via bibet. Ma come detto è, acciocchè di molte altre lasciamo stare il ragionare, la prima è quella, per la quale se la gloria eterna vogliamo ci conviene andare: e di questa si smarrisce ciascuno, il quale nel sonno de’ peccati si lega. E perciocchè, come di sopra è mostrato, lusinghevolmente sottentrano i vizii, e cominciano in età nella quale pienamente conosciuti non sono, dice l’autore, non ricordarsi come questa via diritta abbandonasse: e credibile è: chi sarà colui che pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare? conciossiecosachè esse vengano con diletto della sensualità, e quel passato, quasi state non fossero, leggermente in dimenticanza si mettono. La quarta cosa, la qual proposi da essere da investigare, fu, quale cosa potesse esser quella che l’autor movesse a ravvedersi, che esso avesse la diritta via smarrita. E questa senza alcun dubbio si dee credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai più che non ci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:Nam pro jucundis aptissima quaeque dabunt dì:
Carior est illis homo, quam sibi.
Ma acciocchè noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale l’autore tocco si movesse a destarsi del sonno mortale nel quale la mente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l’anima sua; è da sapere, siccome il maestro delle sentenze afferma, esser quattro grazie quelle che la divina bontà ci presta alla nostra salute, delle quali la prima è chiamata grazia operante, della quale dice san Paolo: per la grazia di Dio io sono quello che io sono La seconda grazia si chiama cooperante, e di questa dice san Paolo medesimo: la grazia di Dio non fu in me vacua. La terza grazia si chiama perseverante, della quale dice il Salmista: Et misericordia ejus subsequatur me omnibus diebus vitae meae. La quarta grazia si chiama salvante, della quale si legge nell’Evangelio: de plenitudine ejus omnes accepimus gratiam per gratiam. Fa adunque la prima grazia del malvagio uomo buono, siccome nel libro della Sapienza si scrive: Verte ipsum, et non erit: e san Paolo dice: Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux in Domino. La seconda, cioè la cooperante, fa dei buono migliore: e di ciò dice il Salmo: Ibunt de virtute in virtutem. La terza, cioè la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dice l’Evangelio: Qui perseververit usque in finem, hic salvus erit: nell’Apocalissi si legge: Quincumque vicerit, dabo ei edere de ligno vitae, quod est in Paradiso Dei mei: e in altra parte nell’Apocalissi medesima: Quicumque vicerit, faciam illum columnam in templo Dei mei. La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti guiderdona i faticanti; di che l’Evangelio dice: Quid hic statis quotidie ociosi: ite et vos in vineam meam, et quod justum fuerit dabo vobis. E san Paolo: ut recipiat unusquisque sedem eaque fecit. Di queste quattro grazie delle quali ho alquanto parlato, perciocchè più volte nel processo di questo libro se n’ha a ragionare, più diffusamente se ne vorrebbe esser detto, nondimeno questo basti al presente: e dico, che la prima grazia senza alcun merito di colui che la riceve si dona: di che dice san Paolo: Non semper opera, quae fecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit. Le qualità delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare, la prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore, e similmente a ciascun altro che in simile caso si trova, fu conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe. Ma potrebbe alcun domandare, in che maniera tocca Domeneddio i peccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte perciocchè a tanto artefice quanto Iddio è non mancò mai modo a quello che egli volesse adoperare: dice il Salmista: Dixit et facta sunt: mandavit et creata sunt. Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le menti di coloro che di questa grazia hanno bisogno, siccome noi leggiamo di Costantino imperadore, il quale dormendo vide san Piero e san Paolo, e il loro ammaestramento udì: e poi desto dal corporal sonno e dal mentale quello seguì, e gli errori del paganesimo tutti da sè cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san Paolo quando andava a Damasco: e fu di sì fatta forza questo toccamento, che esso divenne subitamente di lupo agnello, e vaso di elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co’ suoi messaggeri, siccome fece David, il quale per l’omicidio d’Uria e per l’adulterio di Bersabè essendosi dal suo piacer partito, mandatogli Natam profeta il fece conoscere, il quale piangendo, e in quel salmo allora da lui composto, cioè, Miserere mei Deus, la sua misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza. E similmente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita. Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perchè gli uomini sentendosi affliggere nella perdita de’ figliuoli e delle possessioni, delle mercanzie, degli stati e di simili cose, quasi desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d’uscire della via delle tenebre, e tornare alla luce. E quantunque saper non possiamo qual si fosse di queste, o forse d’alcuna altra, la maniera con la quale la grazia di Dio toccò l’autore, addormentato del sonno mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tocco; già avveggendosi in questo tempo, nel quale la presente opera incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di dover perdere lo stato suo, e di dovere andare in esilio, e di dovere nelle proprie cose ricever danno; per la qual cosa, da questa grazia operante tocco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere, le cose presenti non avere alcuna stabilità, esser piene d’invidia e di pericoli, e nulla altra cosa in sè aver fermezza, se non il servire e amare Iddio: del quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola della ignoranza, la quale infino a quella ora l’avea occupato, e cominciò a conoscere la miseria dello stato de’ peccati, e ad avvedersi in quanti e quali esso fosse inviluppato, e in quanto pericolo esso fosse lungamente dimorato d’andare ad eterna perdizione.
La quinta cosa che dissi era da vedere è, perchè più nel mezzo della nostra vita che in altra età questo avvenisse. Intorno alla qual cosa è da sapere, questo vocabol mezzo potersi prendere in due modi: l’un modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale: il quale mezzo è dirittamente quel punto che egualmente è distante a due estremità; verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioè dall’una estremità della verga all’altra sono due braccia, perchè il mezzo puntale di questa verga sarà là, dove dall’una estremità cominciandosi, e andando verso l’altra la lunghezza d’un braccio, là dove egli finirà sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo ancor dire, il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa quando alcun cerchio descriviamo, perciocchè questo in ogni parte del cerchio è egualmente distante dalla circonferenza. La seconda maniera del mezzo s’intende assai sovente ciò che si contiene intra due estremi, o infra la circonferenza del cerchio siccome Niccolaio di Tamech sopra il Tito Livio dice, che Arno è un fiume posto nel mezzo tra Fiesole e Arezzo, e in alcun luogo dice la Scrittura, Jerusalem essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero: e perciò in questa parte è da prendere la parola dell’autore, quanto alla persona sua, per lo mezzo puntale; perciocchè, come di sopra mostrammo, egli era di età di trentacinque anni, ch’è il mezzo puntale della vita nostra, quando, tocco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l’aveva la ignoranza menato. Ma perciocchè a ciascuno uomo in che età egli si sia, può avvenire tutto il dì, che abbandonata la via della verità s’entra ne’ vizii, e similmente per la grazia di Dio il ravvedersi si può per gli altri, i quali in altra età che l’autore si ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto infra il dì della nostra natività e il dì della morte: e puossi quel mezzo il quale per l’autore s’intende, che è intorno all’età de’ trentacinque anni, moralmente prendere, secondochè in quella età ogni corporale virtù è a sua perfezion venuta. E così in qualunque tempo l’uomo si ravvede del suo mal vivere, e al ben vivere si converte, si può dire ogni potenza animale esser venuta in perfetta virtù; e così nella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante, perseverando, va di questa virtù in altra maggiore, e di quell’altra in un’altra, tantochè egli perviene dove ciascun discreto desidera di venire.
La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello che egli intendesse per quella selva oscura e malagevole, nella quale dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso comprendere, l’iuferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella quale ciascun peccatore cade ed entra sì tosto come cade in peccato mortale. E che ella sia r inferno, la descrizion di quella il dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era oscura, cioè piena d’ignoranza; il che assai chiaro ne mostra Isaia quando dice: Erravimus a via verltatis, et sol justitiae llluxit nobis; considerata la qualità di coloro che in essa dimorano; perocchè se in loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non cessasson tantosto d’uscirne. E chi è più ignorante che colui, il quale potendo schifare il fare contro a’ comandamenti del suo creatore, che può ciascun che vuole, si lascia tirare alle lusinghe della carne e del mondo, e alle fallacie del demonio? O che pure veggendosi per la nostra fragilità tirato non si sforza, avendo la via d’uscirne, ma aggiugnendo l’una colpa sopra l’altra, più sè medesimo inviluppa, e fa col continuo peccare più tenebroso il suo intelletto, e più forti le catene del suo avversario? Dice oltre a ciò questa selva essere selvaggia, siccome del tutto strana da ogni abitazione umana; perciocchè nella prigion del diavolo, nella quale noi medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanità, nè pietà nè clemenza, anzi è piena di crudeltà, di bestialità e di iniquità: nè osta il dire, egli v’abitano gli uomini peccatori, perciocchè questo non è vero, che come l’uomo ha commesso il peccato egli diventa quella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato. Verbigrazia, colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, perciocchè la lussuria per la sua bruttezza è simigliata al porco, esso diventa porco quantunque effigie umana gli rimanga; e il rapace diventa lupo, perchè il lupo è rapacissimo animale; e così quello luogo è salvatico siccome privato d’ogni umana stanza. E oltre a questo aspra per le spine, per li triboli e per li stecchi, cioè per le punture de’ peccati, li quali continuamente da’ morsi della coscienza infestato, dolorosamente pungono il peccatore. Ed è forte in quanto tenacissimi sono i legami del diavolo, o massimamente negli ostinati, li quali poichè nel profondo delle colpe caduti sono, della divina misericordia disperandosi disprezzano Iddio, e turano gli orecchi agli ammonimenti de’ giusti uomini, e alla evangelica dottrina. E per queste qualità, a colui il qual’è tocco dalla divina grazia, ella pare, e così è, piena di tanta amaritudine che poco più è la morte eternale, nella quale alcuna dolcezza non s’aspetta giammai. Nondimeno dice l’autore, alcun bene aver trovato in essa: per lo qual bene niuna altra cosa credo che sia da intendere, altro che la misericordia di Dio, la quale non ha luogo che ne’ giusti si adoperi: e così ne’ peccatori è tanto necessaria, che se essa non fosse, alcun nostro merito nè lagrima mai potrebbe sodisfare alla divinità pel peccato commesso. Ella adunque è quella che nella oscurità della nostra ignoranza e delle nostre colpe, colle braccia aperte si trova presta a non guardare a’ difetti commessi, ma solamente alla buona affezione di chi a lei rivolger si vuole per doverla ricevere. Questa è quella la cui benignità riguardata, a se dalla disperazion ci ritira: della quale, siccome di bene trovato, là ove ella è opportuna, l’autore dice di voler trattare, siccome fa nel libro secondo della presente commedia, nel quale pienamente si posson comprendere e la sua santissima liberalità, e i pietosi effetti verso i peccatori, quantunque essi abbiano incontro ad essa operato.
La settima cosa dissi era da vedere, perchè più nel principio del dì scriva l’autore d’essersi ravveduto, che ad altra ora. Puossi intorno a questa parte dire, quanto gli uomini involti ne’ peccati dimorano, tanto dimorare nelle tenebre della notte, cioè della ignoranza, la quale come la notte toglie il poter conoscere o vedere le cose, quantunque nel cospetto ci sieno, così toglie il cognoscere il vero dal falso, e le cose utili dalle dannose. E perciò qualora avviene che la grazia di Dio operante tocca il peccatore, ed è da lui ricevuta, così comincia a tornar la luce della conoscenza di Dio, e di sè medesimo e del suo stato: e ognora che la luce apparisce, è di necessità che le tenebre della notte cessino: ed in quella ora che le tenebre cessano, siccome manifestamente appare, è principio del dì, e massimamente a colui il quale abbandona la notte della ignoranza, sollecitato e sospinto dalla divina grazia. E di questi dice Osea profeta in persona di Cristo: In tribulatione sua mane consurgent ad me. Ed il peccatore d’altra parte, come agli occhi dell’intelletto gli apparisce la divina luce, già le sue malvage operazioni cominciando a.conoscere, può dire quelle parole del Salmista: Mane stabo tibi et videbo; quoniam non Deus volens iniquitatem tu es. Dunque congruamente finge l’autore da mattina essere stato questo ravvedimento, per lo quale si conobbe essere nella oscura selva de’ peccati e della ignoranza.
L’ottava cosa dissi era da vedere, quello che l’autore vuole intendere per lo sole che sopra il monte vide, e per lo monte. Per li monti intende la Scrittura di Dio, spesse fiate gli apostoli: e questo perciocchè come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole materiale surgente, così gli apostoli furono i primi che ricevettero i raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesù Cristo, il quale è veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che viene in questo mondo. E che esso sia vero sole, per molte ragioni si dimostrerebbe, le quali al presente per brevità ometto. E secondochè io estimo, nell’autore sentita la grazia di Dio venne quel desiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale quella grazia in sè riceve, cioè di conoscere pienamente le colpe sue, e qual via dovesse tenere per poter venire a salute; ed occorsegli nella mente, alcuna dottrina non potergli in questo suo desiderio satisfare, come l’apostolica, rammemorandosi delle parole del Salmista, dove parlando di loro dice: Non sunt loquelae, neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terae verba eorum. E però fuggendo la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse come talvolta disse il Salmista: Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi: volendo in questo dire, che egli levasse gli occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla quale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed acciocchè questa speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommità di questo monte coperta de’ raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che essa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo, il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle, cioè da che che colpa 1’uomo si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E che la dottrina degli apostoli sia santa, e veramente piena de’ doni dello Spirito santo, appare per le parole di Gesù dove dice: Requiescet super eos spes timoris Domini, spes sapientiae et intellectus, spes consilii, et fortitudinis, spes scientiae et pietatis, et replevit eum spes timoris Domini: perchè l’autore, e qualunque altro, veggendosi così fatto refugio apparecchiato davanti, dove prender lo voglia, puote meritamente sperare, e sperando minuire la paura della morte eterna, nella quale il fanno dimorare le catene del diavolo, mentre in esse dimora legato. E oltre a ciò veggendo sopra questo monte il sole scacciatore delle tenebre eterne, e il quale è toglitore de’ peccati, siccome noi di lui leggiamo: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi: puote ancora maggiormente sperar salute, sospinto dalle parole d’Isaia, il quale dice: Vobis, qui timetis Deum, orietur sol justitiae. E perciò meritamente l’autore, conosciuto laddove era esser valle di miseria, si sforza di partir di quella e di voler salire al monte, cioè alla dottrina della verità, e a colui il quale puote liberare ciascuno, che con effetto vuole, delle mani dello inferno.
La nona cosa la qual dissi considerar si volea, era quello che l’autor sentisse per la considerazione avuta, poichè alquanto la paura gli cessò; e appare per le sue parole essere stata del pericolo nel quale si vedeva essere stato la passata notte: per la quale dobbiamo intendere il primiero atto dell’animo di colui, che la passata miseria della sua vita comincia a cognoscere: il quale veramente non è altro che paura, e spezialmente avendo egli spazio e alcuna luce di sentimento, per la qual possa discernere quante e quali possano essere state quelle cose che in quella miseria l’avrebbono, ciascuna per sè medesima, potuto far morire di perpetua morte: e massimamente conoscendo la ingratitudine sua verso Iddio, dal quale infiniti beneficii ha ricevuti, conoscendo la sua giustizia, la quale passato il tempo della misericordia è irrevocabile, nè si può come quella de’ mortali giudicii con preghi nè con lagrime piegare, nè corromper con doni o con eccezioni prolungare. Dalla quale considerazione si levan presti coloro, li quali invano non ricevono la divina grazia, e per la diserta piaggia a salire al monte muovono i passi loro. E dice diserta, perciocchè ancora è sterile, e senza alcun virtuoso frutto l’anima di colui, che pure ora comincia a partirsi della via del peccato.
La decima cosa la qual’è da essere cercata dissi, è quello che noi dobbiamo sentire per le tre bestie, le quali l’autor mostra che impedivano il suo cammino. Ed Intorno a questo è da considerare. queste bestie altrimenti doversi intendere, avendo riguardo solamente all’autore, e altrimenti avendo riguardo generalmente a ciascun peccatore, che vuole alla via della verità ritornare. Perciocchè non ogni uomo egualmente conosceva da una medesima passione impedito, e perciò avviso l’autor ponesse quello che a lui sentiva s’appartenesse, e di che più si conosceva passionato; e però più meritamente quello dirò ch’io sentirò per queste tre bestie appartenere all’autore: poi se ninna cosa n’avrò da mutare, per riducerle al senso spettante all’università de’ peccatori, come saprò il farò e dimostrerò. Dice adunque che essendo nella predetta meditazione, diliberato di lasciare la valle oscura e di salire al monte luminoso e chiaro, cioè alla dottrina apostolica ed evangelica, essere state tre bestie quelle che il suo salire impedivano, una leonza, o lonza che si dica, e un leone e una lupa, le quali quantunque a molti e diversi vizii adattare si potessono, nondimeno qui secondo la sentenza di tutti par che si debbano intendere per questo, cioè per la lonza il vizio della lussuria, e per lo leone il vizio della superbia, e per la lupa il vizio dell’avarizia. E perciocchè io non intendo di partirmi dal parere generale di tutti gli altri, verrò a dimostrare come questi animali a’ detti vizii si possono appropriare, e poi se all’autore parrà di dovergli attribuire, rimangasi nello arbitrio di ciascuno. Sono nella lonza, tra l’altre molte, quattro singolari proprietà. Ella primieramente è leggierissima del corpo, tanto o più quanto alcuno altro quadrupede. Appresso la sua pelle è leccata, piana e di molte macchie dipinta. Oltre a questo ella è maravigliosamente vaga del sangue del becco. Ultimamente ella è di sua natura crudelissimo animale. Le quali quattro proprietà, secondo il mio giudicio, sono mirabilmente conformi al vizio della carnea perciocchè la sua leggerezza ha a dimostrare la levità degli animi di quelle persone, o che con l’appetito o che attualmente con esso vizio s’inviscano; perciocchè essi alcuna volta ardon tutti da fervente desiderio della cosa amata accesi; alcun altri son più freddi che la neve, cessando in un punto la speranza della cosa amata; e quasi in un momento ridono e cantano, e lamentansi e piangono, e così insuperbiscono subito, e subitamente diventano umili: ora turbati garrono e gridano, e di presente mitigati lusingano: le quali levità ottimamente descrive Plauto in una sua commedia chiamata Cistellaria, dove un giovane poichè uopo non gli era invescato in questa pania, dice così:
Credo ego amorem primum apad homines carnificinam
commentum.
Hanc ego de me conjecturam domi facio, ne foris quaeram,
Qui omnes homines supero, atque antideo cruciabilitatibus
animi:
Jactor, crucior, agitor, stimulor, versor in amoris rota miser.
Exanimor, feror, differor distrabor, deripior: ita nubilam
mentem
Animi habeo: ubi sum, ibi non sum: ubi non sum, ibi est animus.
Ita mihi omnia ingenia sunt, Quod lubet, non lubet jam id
continuo.
Ita me amor lassum animi ludificat, fugat, agit, appetit,
Raptat, retinet, lactat, largitur: quod dat, non dat: deludit:
Modo quod suasit, dissuadet: quod dissuasit, id ostentat.
Maritimis moribus mecum experitur: ita meum frangit
amantem
Animum: neque, nisi quia miser non eo pessum mihi ulla abest
Perdito pernicies.
Oltre a ciò questo disonesto appetito è velocissimo in permutarsi, e salta tosto di una cosa in un’altra: un muover d’occhi, un atto vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una lusinga d’uno amore in un altro, come vento foglia gli trasporta: e ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero affabile, mai più non veduto, subitamente dimenticò il lungamente amato Sicheo; assai bene verificando quello che l’autore nel Purgatorio delle femmine dice:
Per lei assai, di lieve, si comprende,
Quanto in femmina fuoco d’amor dura,
Se l’occhio, o’l tatto spesso nol raccende.
Giasone dell’amor d’Isifile in breve tempo saltò in quel di Medea, e lei abbandonata, poi si rivolse a Creusa. Alle quali inconvenienze e disordinati appetiti, assai bene convenirsi la leggerezza di questa bestia co’ miseri libidinosi dimostrano. Appresso la pelle sua leccata, e di macchie dipinta, non meno che la predetta, si confà co’ costumi de’ lascivi: perciocchè quelli, li quali da tal passione son faticati, quanto possono, o per pigliare o per tenere, si studiano di piacere; perlaqualcosa s’adornano di vestimenti varii, pettinansi, lavansi e dipingonsi, specchiansi, tondonsi, vanno e tornano, cantano, suonano, spendono, gittano, e dove di parer più begli e più accettevoli si sforzano, vituperevolmente di disoneste ed enormi brutture si macchiano. Con queste armi e prese e fu preso Paris da Elena: con queste armi mise Dalila nelle mani de’ suoi nemici Sansone: con queste armi prese e irretì Cleopatra Cesare. E oltre a questo, questa bestia è maravigliosamente vaga del sangue del becco. Intorno alla qual cosa si dee intendere, in questo dimostrarsi l’appetito corrotto di coloro li quali in questa bruttura si mescolano; perciocchè siccome il becco è lussuriosissimo animale, così per l’usare questo vizio più lussurioso si diviene. Per la qual cosa alcuni miseramente, credendosi in cotal guisa sviluppare, non accorgendosene, s’inviluppano; perciocchè non questo come gli altri vizii per continuo combattimento si vince, ma per fuggire: il che ottimamente dimostrarono i poeti nella struzione della battaglia d’Ercole e d’Anteo. Oltre a ciò, il becco è fiatoso animale, e olido, del quale questa bestia si diletta: in che si dimostra la vaghezza de’ libidinosi intorno al fiatoso e abbominevole atto venereo, il quale è in tanto al naso e agli occhi noioso, e allo intelletto umano, che se non fosse che la natura ha in quello posto maraviglioso diletto, acciocchè l’umana specie per non generare non venga meno, io sono d’opinione che ciascuno come fastidiosissima cosa il fuggirebbe. E la dilettazione la quale questa bestia ha del sangue del becco, assai chiaro dimostra l’appetito che ciascuna delle parti di quelli, che a questa turpitudine si congiungono, hanno del fine di quello disonesto atto, nel quale il sangue de’ miseri dannosamente, tante volte quante per altro che per generare si versa, non meno biasimevolmente che se in una fetida sentina si gittasse, si perde: senzachè, per questo i nervi indeboliscono, il veder ne raccorcia, i membri ne diventan tremuli, e la nodosa podagra, con gravissima noia di chi l’ha, tiene tutto il corpo quasi immobile e contratto: e cosi non solamente se n’offende Iddio, ma ancora se ne guastano i miseri la persona. Per questo convenne a Gaio Antonio, poste giù l’armi, militare con l’animo dietro a Catellina; e come che più non me ne ridica or la memoria, non è da dubitare che i passati secoli non sieno stati così copiosi come veggiamo l’odierno. Ultimamente dissi, questo animale essere crudele, per la qual crudeltà è da intendere la crudeltà di questo peccato, il quale quegli che più con lui si dimesticano e congiungono, le più delle volte conduce a crudelissime specie di morte. Quanti robusti giovani, quante vaghe donne, mentre senza alcun freno questo disonesto diletto hanno seguito, hanno già la lor morte, dopo faticosa infermità, avacciata? Quanti ancora, non potendo sostenere, nè porre modo al loro fervente desiderio di pervenire a quello, hanno sè medesimi disonestamente disfatti? Il non potere aspettare Demofonte suo amico condusse Fillide ad impiccarsi. La miseria di questo vizio diede ad Artabano Mede vittoria sopra Sardanapalo. E qual porco crederem noi che uccidesse Adone, altro ch’il soperchio coito con Venere reina di Cipri sua moglie? Bene adunque si può questa bestia dire essere la concupiscenza carnale, la quale lusinghevole insino alla morte, con tutte quelle mortali dolcezze ch’ella porge, facendosi incontro alla sensualità umana, qualora l’animo, riconosciuta la tristizia di quella, da essa partir si vuole e alle divine cose tornarsi, con non piccola forza s’ingegna di ritenerlo, non partendoglisi dinanzi dal volto; quasi voglia dire, rammemorandosi tutte quelle persone che già sono state amate, tutti quegli atti, tutte le parole che già sono state piaciute; le lagrime, la promessa fede, i rotti saramenti con pietoso aspetto ricordandogli, con false dimostrazioni suadendogli, che questa castità, questo proponimento riserbi agli anni vecchi, e non voglia ora perdere quello che mai non dee potere recuperare. Con li quali conforti, e altri molti a questi simiglianti, nel quarto dell’Eneida mostra Virgilio essersi Didone ingegnala di ritenere Enea, e dalla gloriosa impresa rivolgerlo, come già assai dal buon principio hanno rivolti al doloroso fine d’eterna perdizione. Questa adunque si parò davanti al nostro autore, per doverlo fare nelle abbandonate tenebre ritornare, il quale dall’ora del tempo e dalla dolce stagione, prese speranza di vincere questo vizio oppostosi alla sua salute: per la quale ora del principio del dì, credo sia da prendere l’ora o ’l tempo nel quale Cristo prese carne umana. Il quale prender di carne, fu senza alcun dubbio il principio della nostra salute, il principio della riconciliazione del nostro signore Iddio con la nostra umanità, il principio del tempo accettevole, il quale per tante migliaia d’anni fu aspettato. E questo perciocchè in quel proprio dì fu, cioè di venticinque di marzo, nel quale, siccome apparirà appresso, il nostro autore dice sè essere risentito dal sonno mortale. E così vuole adunque l’autore darne a vedere, che di ciò ricordandosi, prendesse buona speranza della misericordia di colui, senza la quale non si puote avere d’alcun vizio vittoria. La cagion del tempo similmente gli diè buona speranza, conoscendo che in quella stagione era cominciato il tempo della grazia, e aperta la via alla nostra salute, lungamente stata serrata, ed il nemico della umana generazione abbattuto; perchè sperar si dovea di poter similmente abbattere i suoi ministri. La seconda bestia, la quale si fece incontro al nostro autore, fu un leone, il quale dissi essere inteso per la superbia, alla quale come egli si confaccia ne mostreranno alcune delle sue proprietà a quelle del vizio poi equiparate. E il lione non solamente audace ma temerario, e appresso è rapace e soprastante, ed è ancora altisono nel ruggir suo, intanto che egli spaventa le bestie circunvicine che l’odono: e comechè assai più ce n’abbia, queste tre bastino a mostrare, per lui ottimamente potersi intendere il vizio della superbia. Dissi adunque il lione essere non solamente audace, ma temerario; perciocchè senza misurare le forze sua, non è alcuno animale sì forte, che ne sono assai più forti di lui, il quale egli non presuma d’assalire, di che egli talvolta con gran suo danno è ributtato indietro. Ed Aristotile nel terzo dell’Etica, là dove parla della fortezza, dice che l’esser temerario è vizio, in quanto il temerario presume oltre alle sue forze, quello che a lui non s’appartiene: e questo vizio è il presumere alcuno di combattere con due o con tre, o con più; conciosiacosachè ciascun debba credere uno poter quanto un altro, e con quell’uno mettersi a combattere è ardire e segno di fortezza, dove 1’andar contro a più, potendogli schifare, è temerità. In questo l’uomo superbo è simigliante al leone, perciocchè il desiderio del superbo è tanto di parere quello che egli non è, che cosa non è alcuna sì grave che egli non presuma di fare, quantunque a lui non si convenga, solo che egli creda per quello essere reputato magnanimo. E questa cechità ha giù messo in distruzione molti regni, molte provincie e molte genti. Questa fu la cagione al primo agnolo d’esser cacciato di paradiso con tutti i suoi seguaci. Questa fu cagione a Capaneo d’essere fulminato e gettato dalle mura di Tebe in terra. Questa fu cagione a Golia d’essere ucciso da David, come la Scrittura santa ne dice. Dissi ancora che il lione era rapace e soprastante: la qual cosa è quanto più può propria al superbo, al quale, quantunque ricco sia, non soffera 1’animo d’esser contento al suo, ma continuamente preme e oppressa i minori: ruba l’avere, occupa le possessioni, batte e ferisce i resistenti, e in ciascun suo atto è violento e pieno d’ogni nequizia, e in ogni cosa vuol soprastare agli altri, estimando per questo lo stato suo divenir maggiore, essere più temuto e di più eccellente animo reputato. La qual cosa condusse Giugurta re di Numidia ad essere del sasso Tarpeio gittato nel Tevero, e Jezzabel ad essere della torre sospinta, e da cavalli e da carri e dagli uomini scalpitata, e divenir loto e sterco della vigna di Nabaot: e Antioco re d’Asia e di Siria essere oltre al monte Tauro da’ Romani rilegato. Similemente dissi, che il leone era altisono nel ruggir suo, e che egli spaventa le bestie circunstanti: il che Amos profeta dice: Leo rugiet, quis non timebit? Al qual romore il vizio della superbia è evidentissimamente simigliarne, in quanto l’uomo superbo sempre usa parole altiere, spaventevoli e oltraggiose in ogni suo fatto; sempre parla di sè e de’ suoi gran fatti, e dilettasi e vuole che altri ne parli, quello estimando d’essere che i paurosi ragionano per piacergli. Per la qual bestialità Nabuccodonosor, di sè medesimo per divina operazione ingannato, lasciato il solio reale, n’andò a pascer l’erbe ne’ boschi: Simon Mago cadde d’aria e fiaccossi la coscia: Roboan re de’ Giudei, de’ dodici tribi d’Israel, perdè nove. Le quali cose sanamente considerate, assai aperto dimostrano noi dover potere per lo leone, al nostro autore apparito, intendersi il vizio della superbia, la quale all’uomo, che da lei e dall’altre nequizie si vuol partire, e tornare nel cammino della virtù, si para dinanzi agli occhi della mente, non lusingandolo, ma spaventandolo, col mostrargli che dove egli la sua maggioranza, il suo altiero stato abbandoni, egli diventa un menomo plebeo: ne sarà mai ad alcuna gran cosa chiamato, e intra’ suoi di niuna riputazione avuto. Sarà dispettato, e da coloro, li quali esso ha già premuti, offeso e scalpitato, rubato e spogliato: e se egli ancora del suo stato scende, non vi potrà quando vorrà risalire. Para ancora la gloria della preminenza, la potenza del levare in alto, e d’abbassare, secondo il suo volere, la pompa degli onori, e simili cose assai: le quali cose senza alcun dubbio hanno molto a muovere le tenere menti, e a renderle timide di cadere, e per conseguente a farle ritirare indietro dalla laudevole impresa. Ma a queste due, dice l’autore, essere ancora ad impedire il suo cammino sopravvenuta una lupa, e quella, più che l’altre due, averlo spaventato, e rispintolo indietro. Le terza bestia, che davanti all’autore sì parò, fu una lupa, fiero animale e orribile, il quale, come davanti dissi, è inteso per l’avarizia, con la quale, come costei si convenga, come nell’altre due abbiam fatto, alcune delle sue proprietà prese, con quelle del vizio conformatole, il mostreremo. Manifesta cosa è, la lupa essere animale famelico e bramoso sempre. Appresso, quando quel tempo viene nel quale ella è atta a dovere concepere, avendo molti lupi dietro continuamente, a quello il quale più misero di tutti le pare, gli altri schifati, si concede. E oltre a ciò, il lupo è animale sospettissimo, continuo ci guarda d’intorno, e quasi in parte alcuna non si rende sicuro, credendo dalla coscienza sua medesima accusato. Dico adunque, la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel medesimo essere l’uomo avaro; perciocchè quantunque l’uomo avaro abbia quello che gli bisogna onestamente e in qualunque guisa ragunato, forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel contento, ma da maggior cupidità acceso, e da nuova sete stimolato, in ciascun suo esercizio più che mai si mostra affamato: per sodisfare a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestà, niuna falsità, o altra nequizia nella quale non si mettesse. Per la qual cosa Virgilio nel terzo dell’Eneida, fieramente la sgrida dicendo:
— — — — — Quid non mortali a pectora cogis, Auri sacra fames?
Secondariamente il vizio dell’avarizia si mette in uomini cattivi e pusillanimi, il che appare, in quanto in alcun valente uomo o magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno così, le loro operazioni il dimostrano. Metterassi l’avaro in una piccola casetta, e in quella in continua dieta, per non spendere, dimorando senza muoversi, dieci e venti anni presterà ad usura, vestirà male e calzerà peggio, rifiuterà gli onori per non onorare: e dove egli dovrebbe de’ suoi acquisti esser signore, esso, diventa de’ suoi tesori vilissimo servo: e quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi più diritti all’altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sè esser povero, e mostrasi: e brevemente, facendosi de’ beni della fortuna 6 tristissima parte, quanto l’animo suo sia piccolo e misero manifestamente dimostra. Nelle quali cose si può comprendere, l’avarizia accompagnarsi con la più misera condizion d’uomini che si trovi, come la lupa col più tristo de’ lupi si congiugne. Appresso questo dissi, il lupo essere sospettoso animale: la qual cosa essere l’avaro i suoi costumi il dimostrano. Esso con alcuno suo amico non comunica la quantità de’ suoi beni, sospicando non la gran quantità palesata gli generi aguati o invidia: e oltre a ciò, niuna fede presta all’altrui parole: sempre suspica che viziatamente parlato gli sia per sottrargli alcuna cosa: in niuna parte estima essere assai sicuro, e di ciascuno che guarda la porta della sua casa teme non per doverlo rubare la riguardi. Alcun sonno non puote avere intero, nè riposata alcuna notte: ogni piccol movimento di qualunque menomo animale suspica non andamento sia de’ ladri; e non fidandosi delle casse ferrate, i suo danari sì fida alle cave e fosse sotterranee. Chi potrebbe assai pienamente innarrare i sospetti de’ miseri avari, li quali tutti in sè convertono lacciuoli, li quali già hanno tesi ad altrui? E perciò dovendo bastare quello che detto n’è, credo assai convenientemente l’avarizia o l’avaro convenirsi alla lupa, la quale piena di spavento si para davanti a colui, il quale i disonesti guadagni e altre men che buone opere vuole lasciare, per dovere in miglior via ritornare: e nel cuore gli mette cotali pensieri: che fai tu, misero? ove vuo’ tu andare? da qual parte comincerai tu a rendere i furti, le ruberie, e le baratterie, e i denari in mille modi male acquistati? vuo’ tu lasciare quello che tu hai, per quello che tu non sai se tu t’avrai? vuo’ tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto, quanto tu hai messo in ragunare? vuo’ tu venire alla mercè degli uomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuo’gli tu vedere morir di fame? come farà la tua bella donna; e tu misero, come farai? tu diventerai favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sarà chi ti voglia vedere nè udire: tu puoi ancora indugiare: ogni volta, eziandio morendo, può’ tu lasciare il suo a coloro da’ quali tu l’hai avuto: egli sarà il meglio che tu ancora attenda a guadagnare. E con questa e con simili dimostrazioni che il misero fa, per sodducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempre s’oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e avuta poco a prezzo la grazia di Dio nella nostra miseria ricaggiamo, e per conseguente in eterna perdizione ruiniamo: nè a guardarcene mai c’induce l’età piena d’anni; perciocchè quantunque gli altri vizii invecchino con gli uomini, sola l’avarizia irringiovenisce. E di ciò faccian verissimi testimonii Tantalo, Mida e Crasso, li quali morendo, prima lei abbandonarono, che essa da loro vivendo fosse abbandonata. Poterono adunque questi vizii essere all’autore in singularità cagione di resistenza e di paura. Ma che direm noi in generalità, che questi tre animali significhino in altri assai, che dal vizio partendosi vogliono alla virtù ritornare? Nulla altra cosa m’occorre, alla quale queste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello, il che è a tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne, il mondo, e il diavolo: e per la carne intendere la lonza, per lo mondo il leone, e il diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano, e stanno intenti alla nostra dannazione. La carne lusinga con la dolcezza de’ diletti temporali, sotto a’ quali ha nascoso il veleno infernale, il quale noi, come il pesce con l’esca piglia l’amo, così quasi sempre co’ diletti prendiamo; e di ciò velenati, miseramente moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n’ammaestra, e sollecita di stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: Vigilate, et orate: spiritus quidem promtus, caro autem infirma. E san Paolo similemente ne rende avveduti e cauti quando dice: Spiritus concupiscit adversus carnem: et caro adversus spiritum. Vogliendone per questo ammaestrare, che noi siamo e avveduti e forti a resistere alle tentazioni carnali. E il simigliante fa il mondo: questi ne para dinanzi gli splendor suoi, gl’imperii, i regni, le provincie, gli stati e la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sotto la sua falsa luce, i tradimenti, le violenze gl’inganni, le guerre, l’uccisioni, l’invidie, e i furori, e i cadimenti e altre cose assai, senza le quali nè pigliare nè tenere si possono queste preeminenze, questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e ciascuna n’ha a privare di pace, e di riposo, e della eterna beatitudine. Susseguente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile divoratore, pieno d’ingegno e d’avvedimento nel male adoperare, ne minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della sua via usciremo; attorniandoci sempre con aguati, non forse da quelle dovessimo deviare. E in tanta ansietà con le sue dimostrazioni assai volte ci reca, che toltoci lo sperar della divina misericordia, a volontaria morte c’induce: e così impedisce tanto chi vuole alla via della verità ritornare, che egli nelle tenebre eterne il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl’impedimenti e le noie che preparate e date da’ nostri nemici ne sono, e il nostro ben volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della lettera l’autore ne dimostra.
Mentre ch’io ruinava in basso loco.
Nella precedente parte di questo Canto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore aver conosciuto il suo stato, e desiderar d’uscir di quello, e tornare alla via della verità, da lui per lo mental sonno smarrita: e oltre a ciò quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via impediscano: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampo mandatogli, acciocchè schifato lo impedimento delli detti vizii esso possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute: e come questo mandato gli fosse, più distintamente si mostrerà nel Canto seguente. E perciocchè, come noi per esperienza vegglamo, coloro i quali delle infermità si lievano essere deboli e male atanti della persona, così creder dobbiamo esser l’anima, la quale dalla infermità del peccato levandosi, s’ingegna di tornare alla sua sanità: e come il nostro corpo infermo, senza l’aiuto d’alcun bastone sostener non si puote, nè muoversi ad alcuno atto utile, così l’anima nostra, dal peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza, non può aoperare in sua salute. E perciò intende qui l’autore di mostrarci, come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietà diritti a’ nostri bisogni, ne manda la sua seconda grazia, cioè la cooperante: con 1’aiuto e con la dimostrazione della quale noi prendiarn forza, e noi medesimi ordiniamo: e riconosciute con più avvedimento le nostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia, perseverando, ci facciam degni, e quando della quarta. Le quali cose in questa parte l’autore sotto il velame de’ suoi versi intende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante: e lui prende come sufficiente, sì per discrezione, e sì per iscienza, e si ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio. E oltre a ciò, perciocchè Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora, perciocchè il trattato dee essere poetico, era più conveniente un poeta che alcun altro sublime uomo; e però prese lui piuttosto che alcun altro, perciocchè egli tra’ latini ottiene il principato. E costui, dice, gli apparve nel gran diserto, cioè in quella parte dove l’anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e dagli spaventamenti de’ suoi viziosi pensieri ritratta nel profondo delle miserie, del quale del tutto era disposto d’uscire, si ritrovava senza consiglio alcuno e senza conforto. Ed è in questa parte da intendere in questa forma, che Virgilio, laddove bisogno sarà nella presente opera, s’intenda per la ragione a noi conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati animali razionali; perciocchè la ragione è quella parte dell’uomo, nella quale si dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare; conciosiacosachè essa ne fia da Dio data, non solamente a cooperare con l’altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a guidare ogni nostra operazione in bene: la qual cosa ella fu mossa e ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser donna e imperadrice de’ nostri sensi: ma quando la sensualità, per le nostre colpe, la caccia del luogo suo, e signoreggia ella, la ragion tace, e diventa mutola, non comanda, non dispon più secondo il suo consiglio le nostre operazioni. E perciocchè sotto i piedi della sensualità era nell’autore lungo tempo giaciuta, si può dire, che nel primo muover delle sue parole paresse fioca. Questa adunque, come il desiderio della virtù torna, abbattuta la sensualità, risurge, e torna nella sua sedia, e manifestasi alla destituta anima, constituita nel diserto, cioè nel luogo d’ogni virtù d’ogni buona operazione vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni sua opportunità: e avanti ad ogni altra cosa, fa in sè medesima maravigliar l’anima riconosciuta; perchè lasciando di salire a Cristo, il quale è principio e cagione d’intera beatitudine, si lascia dallo spaventamento de’ vizii sospignere allo inferno. Della qual cosa segue, che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l’avarizia, e qual sia il fine suo; cioè che dalla liberalità, la quale è morale e laudevole virtù, ella sia scacciata, superata, e vinta, e in inferno; laonde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessa all’umana generazione, la trasse, e menolla nel mondo, acciocchè per la sua opera, l’anime create ad esser beate fossero laggiù traboccate, onde ella era stata menata. E di questo seguita che poichè per lo impedimento de’ vizii, quella via più propinqua di salire a Dio gli era tolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscire della via del peccato, e a Dio ritornarsi, seguire la ragione dimostratrice della verità, a vedere que’ luoghi che nel testo si leggono. Intorno alla qual cosa è da sapere, non essere senza misterio, volendo uscire dello stato della miseria, e ritornare nella grazia, tenere il cammino che la ragion dimostra all’autore convenirsi tenere: e la ragione può esser questa. Opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare quello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe punite, non è dubbio seguire nell’anima ben disposta il timor di Dio, il quale è principio della sapienza, come il Salmista ne dice: e questo timore di Dio, incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e pentimento delle cose non ben fatte: dalla quale, secondochè la censura ecclesiastica ne dimostra, si viene alla confessione, e da quella alla satisfazione; dopo la quale si saglie alla gloria, come possiamo ordinatamente comprendere nel cammino che il nostro autore tiene seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne può la nostra ragion dimostrare; perciocchè tutti sono atti civili e morali, e reduttibili agli spirituali. Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien qui luogo della grazia cooperante, gli dà, cioè che egli per lo inferno, cioè per gli atti degli uomini terreni, li quali a rispetto de’ corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in Inferno; e tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggi positive, e la divina dannino, conoscerà quello da che astener si dee ciascuno che secondo virtù vuol vivere, e quello che seguendol merita pena; e qual pena secondo le leggi temporali, e secondo l’eterne; conoscerà la giustizia di Dio, e meritamente avrà timore dell’ira sua. E da questo luogo, già delle cose men che ben fatte pentendosi, venga a veder color che son contenti nel fuoco, cioè nell’afflizione della penitenza; acciocchè quindi, dietro alla guida della Teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragione non può comprendere, salga purgato delle offese all’eterna beatitudine. Ed in questo mi pare consista la sentenza dell’allegoria di questo primo Canto. Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale par che dirizzi l’animo ciascuno che il presente libro legge, e quella desidera di sapere, cioè quello che l’autore abbia voluto sentire per quel veltro, la cui nazione dice esser tra feltro e feltro. E per quello che io abbia potuto comprendere, sì per le parole dell’autore, sì per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun sentimento, l’autore intende qui dovere essere alcuna costellazione celeste, la quale dee negli uomini generalmente imprimere la virtù della liberalità, come già è lungo tempo, e ancora della persevera quel vizio dell’avarizia. Il che l’autore assai chiaro dimostra nel Purgatorio, dove dice:
O Ciel, nel cui girar par che si creda
Le condizion di quaggiù tramutarsi,
Quando verrà, per cui questa disceda?
Cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s’intende il vizio dell’avarizia. E perciocchè queste impressioni del cielo, conviene che quaggiù s’inizino e comincino ad apparere i loro effetti, o per alcuni uomo, o per più, par l’autore qui sentire, che per uno si debbano gli altri effetti di questa impression dimostrare: il quale metaforice chiama veltro; perciocchè i suoi effetti saranno del tutto così contrarii all’avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al lupo, E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua debba essere tra feltro e feltro. Or non so io, se questo dovere avvenire, l’autore ne’ moti futuri de’ superiori corpi si vide, o se per alcune altre conietture ciò dovere avvenire s’ha avvisato; è nondimeno assai chiaro i costumi degli uomini mutarsi, e d’una parte in altra trasportarsi; perciocchè siccome ne mostrano le istorie de’ gentili, e ancora dell’altre, l’imperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re, fu molte centinaia d’anni sotto gli Assiri, sotto i Medi, e sotto i Persi; e lungamente avanti vi era stata la religione e la scienza, le quali come prima là erano state, così primieramente se ne partirono, e vennerne in Egitto, e d’Egitto in Grecia: e poi da Alessandro re di Macedonia fu d’Asia l’imperio trasportato in Grecia, donde la scienza, la religione e l’armi, poi partendosi ne vennero appo i Latini, e qui per lungo spazio furono: poi di qui paiono andate in ver ponente, essendo appo i Tedeschi e appo i Galli, e par già che il cielo ne minaccia di portarle in Inghilterra. Il che peravventura potrà, se piacer fia di Dio, dì questa costellazione che l’autor dice avvenire. E questa è quella parte dalla quale muove tutto il dubbio che nella presente discrizione si contiene: la qual parte io manifestamente confesso ch’io non intendo: e perciò in questo sarò più recitatore de’ sentimenti altrui che esponitore de’ miei. Vogliono adunque alcuni intendere per questo veltro doversi intendere Cristo, e la sua venuta dovere essere nell’estremo giudicio, ed egli dovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nella esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma questa opinione a niun partito mi piace; perciocchè Cristo, il quale è signore e creatore del cielo e d’ogni altra cosa, non prende i suoi movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, siccome ogni altra creatura, seguitano il suo piacere, e fanno i suoi comandamenti; e quando quel tempo verrà, sarà il cielo nuovo, e la terra nuova, e non saranno più. uomini, ne’ quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver luogo: e la venuta di Cristo non sarà allora salute nè d’Italia nè d’altra parte, perciocchè solo la giustizia avrà luogo, e alla misericordia sarà posto silenzio, e il diavolo co’ suoi seguaci tutti saranno in perpetuo rilegati in inferno. E oltre a ciò, Cristo non dee mai più nascere, dove l’autor dice che qnesto veltro dee nascere. Nè si può dire qui, l’autore aver qui usato il futuro per lo preterito, quasi e’ nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che era povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione non procederebbe; perciocchè sono MCCCLXXIII. anni che nacque, e ne’ tempi che nacque era la potenza di questo vizio nelle menti umane grandissima; nè poi si vede, non che essere scacciata, ma nè mancata. Nè si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vil nazione; egli fu figliuolo del re del cielo e della terra, e della Vergine, che era di reale progenie; e sed e’ volessono, ella era povera, la povertà non è vizio, e perciò non ha a imporre viltà nel suggetto perciocchè noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali poverissimi, e ricchissimi di vertù e di santità. Perchè dico io tante parole? Questa ragione non procede in alcuno atto. Altri dicono, e al parer mio con più sentimento, dover potere avvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno poveramente, e di parenti di bassa ed infima condizione nato (il che paiono voler quelle parole tra feltro e feltro, in quanto questa spezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima) potrebbe per virtù e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire, e in tanta eccellenza di principato, che dirizzandosi tutte le sue operazioni a magnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno acquisto di reami o di tesoro; ed avendo in singulare abominazione il vizio dell’avarizia; e dando di sè ottimo esemplo a tutti nelle cose appartenenti alla magnificenza; e la costellazione del cielo essendogli a ciò favorevole, che egli potrebbe, o potrà, muovere gli animi de’ sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie, e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed essendo salute di quella umile Italia, la qual fu già capo del mondo, e dove questo vizio, più che in alcuna altra parte pare aver potenza, sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo: e così d’ogni parte discacciatola, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in abusione: o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizii son tutti, e donde ella primieramente surse intra’ mortali. E a roborare 7 questa loro opinione inducono questi cotali i tempi già stati, cioè quegli ne’ quali regnò Saturno, li quali per li poeti si trovano essere stati d’oro, cioè pieni di buona e di pura simplicità, e ne’ quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e per conseguente, se questo fu, anche dover potere essere, che questi sotto il governo d’alcuno altro uomo sarebbono. Alcuni altri accostandosi in ogni cosa alla predetta opinione, dando del tra feltro e feltro una esposizione assai pellegrina, dicendo sè estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalità, doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello imperio di mezzo, laddove estimano essere adunate le maggiori ricchezze e moltitudini di tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E la ragione con la quale la loro opinione fortificano è, che dicono essere antico costume degl’imperadori de’ Tartari, le magnificenze de’ quali e le ricchezze appo noi sono incredibili, morendo essere da alcuno de’ loro servidori portato, sopra un’asta, per la contrada dove more, una pezza di feltro, e colui che la porta andar gridando: ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta di tutti i suoi tesori: e poichè questa grida è andata, in questo feltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosi senza alcun altro ornamento il seppelliscono. E per questo dicon così: questo veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa costellazione, nascerà in Tartaria tra feltro e feltro, cioè regnante alcuno di questi imperadori il quale regna tra feltro, adoperato nella morte del suo predecessore, e quello che si dee in lui nella sua morte adoperare. Questa opinione sarebbero di quelli che direbbono avere alcuna similitudine di vero, la quale non è mia intenzione di volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è in quanto dicono, quegli imperadori aver grandissimi tesori; e perciò quivi mostra, istimino dall’abbondanza de’ tesori riservati, e sendo sparti, doversi la gola dell’avarizia riempiere, e gli effetti magnifichi cominciare, il che mi par piuttosto da ridere che da credere: perciocchè quanti tesori fu mai sotto la luna, o sarà, non avrebbe forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d’infiniti, che sempre sopra la terra ne sono. Che dunque più? tenga di questo ciascuno quello che più credibile gli pare, che io per me credo, quando piacer di Dio sarà, o con opera del cielo, o senza, si trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra il primo Canto, basti d’avere scritto, sempre a correzione di coloro che più sentono che io non faccio. Possono per avventura essere alcuni li quali forse stimano, non solamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro, e ne’ divini, ne’ quali figuratamente sì parli, ogni parola aver sotto sè alcun sentimento, diverso da quello che la lettera suona; e però non essendo nel precedente Canto ad ogni parola altro sentimento dato che il litterale, diranno nell’aprire l’allegoria essere difettuosamente da me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenza di chi il dicesse, questi cotali sono della loro opinione ingannati; perciocchè in ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno a nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa non ascondono; ma però vi si pongono, perchè quelle che figurano possan consistere: siccome per esempio si può dimostrare in assai parti nella presente opera. Che ha a fare al senso allegorico,
La sesta compagnia in duo si scema?
Che n’ha a fare,
Così discesi del cerchio primaio?
Che molte altre a queste simili? E se queste se ne tolgono, come potrà seguire l’ordine della dimostrazione che l’autore intende di fare? Come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono? Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere, di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell’Apocalissi, e nn in altra parte della Scrittura, tanti essere i misterii quante son le parole; conciosiacosachè nell’Apocalissi, per eccellenza quello si creda avvenire, che in alcun altro libro della sacra Scrittura non avviene. Tuttavia, acciocchè più pienamente si creda non ogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo Agostino nel libro dell’eterna Jerusalem, dicendo: Non omnia, quae gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propter illa, quae aliquid significant afferuntur; solo enim vere terra praescinditur; sed ut hoc fieri possi, aratri membra sunt necessaria. Et soli nervi in citaris, atque hujusmodi vasis musicis aptantur ad cantum; sed ut aptari possint, insunt etiam in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed etiam ea, quae percussa resonant, hinc connectuntur, etc. E perciò estimo, che molto più onesto sia a credere ad Agostino, che stoltamente opinare quello che manifestamente si può riprovare: e quinci prendere certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non per negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l’allegoria essere stata intralasciata.
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