Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo I/Allegorie del terzo capitolo

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Allegorie del terzo capitolo

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ALLEGORIE DEL TERZO CAPITOLO


Per me si va nella città dolente.

Nel principio del presente canto si continua l’autore alle cose dette nella fine del precedente, laddove disse, per le vere dimostrazioni fattegli dalla ragione, sè avere la viltà dell’animo posta giuso, essersi ritornato nel proponimento primo; e così dietro alla ragione essersi rientrato nel cammino da dovere poter pervenire allo stato della grazia, e quindi ad eterna salute come desiderava: e camminando mostra sè alla porta dello inferno essere pervenuto. E sono intorno al senso allegorico di questo canto da considerare tre cose. La prima è, quello che l’autore voglia intendere per questa porta. La seconda, come si conformi il supplicio dato a’ cattivi con la colpa loro. La terza, quello che l’autore voglia sentire per lo fiume d’Acheronte e per lo nocchiere; ed oltre a ciò, per lo accidente a lui avvenuto: e queste vedute assai convenientemente senza il senso allegorico del presente canto. Avendo adunque riguardo a parte delle parole scritte sopra la porta, la quale l’autor descrive, e alla ampiezza di quella, e similemente all’averla senza alcun serrame trovata, possiam comprendere quella essere la via della morte conciosiacosachè il nostro Signore dica nell’Evangelio: intrate per [p. 205 modifica]angustam portam, qui lata, et spatiosa via est, quae ducet ad perditionem, et multi sunt, qui intrant per eam. E così per questa via il peccato ne mena a dannazione eterna: ed è questa via ampia, a farne chiari agevole cosa essere il peccare, e quello essere assoluto da ogni strettezza di regola: il che delle virtù non avviene, le quali son ristrette e limitate dalli loro estremi. L’essere senza alcun serrarne, ne mostra assai chiaro in ogni ora, in ogni tempo essere a ciascun, volendo, possibile d’entrare nella via della morte, ed andare ad eterna perdizione. E ancora si può per l’ampiezza di questa porta comprendere, essa in tanta larghezza1 distendersi, che in qualunque parte del mondo l’uom pecca, trovi di questa porta la larga entrata. E fu aperta questa dalla superbia dell’angiolo malvagio, il quale primieramente ardì di levare la fronte contro a colui che creato l’avea, nè mai poi si richiuse; dentro alla quale entrata l’umana considerazione, dietro a’ passi della ragione, nel vestibulo della perdizione eterna vede i cattivi e inerti, come nella lettera è dimostrato, correre dietro ad una insegna aggirandosi; e questi essere agramente stimolati da mosconi e da vespe: e il sangue di questi dolenti essere ricevuto da putridi vermini, li quali perciò all’entrata della perduta vita dimostrati ne sono, acciocchè da essi prendiamo, quanto abbominevole colpa sia quella inerzia, veggendo essa non solamente alla divina giustizia, ma ancora a’ diavoli dispiacere. E per questo siamo [p. 206 modifica]am-maestrati di guardarci da quella; acciocchè in tanta miseria non divegnamo, che egualmente a’ buoni e a’ malvagi siamo odiosi. Pare adunque questo vizio consistere in una freddezza d’animo, la quale occupate non solamente le potenze intellettive, ma eziandio le sensitive, tiene coloro ne’ quali esso dimora del tutto oziosi, intanto che brevemente niuna opportunità pare che muover gli possa ad alcuno atto operativo. E per questo non come uomini, ma come bruti animali, anzi come vermini putridi e fastidiosi menano la vita loro. E in questo pare loro, per quel che comprender si possa, sentire alcun diletto: il quale perciocchè da viziosa cagione è preso, senza colpa esser non puote. E però spenta la lor sensualità, e tolta via la gravezza del misero corpo consenziente alla viltà dell’animo, avendo quel conoscimento assoluti, che perduto aveano legati, dal vermine della coscienza morsi, e per quello conoscendo sè niuno onesto segno nella lor misera vita aver seguito, ora senza prò seco dicendo: così dovremmo aver fatto; non tardi nè lenti, ma correndo seguitano quel segno che seco estimano dovere vivendo aver seguito. E perciocchè questo lor vermine non muore, il seguono in giro; a dimostrare che come nel cerchio non alcun principio nè fine, così questa lor fatica non debba giammai avere requie nè riposo. E a questo atto gli sollecita il vermine della coscienza con due stimoli, con mosconi e con vespe, li quali continuamente gli trafiggono. Li quali mosconi e vespe, sono da intendere per la memoria di due loro singulari miserie, nelle quali nella loro dolorosa vita presero alcuni [p. 207 modifica]piaceri: le quali furono l’una nel brutto e sporcinoso modo di vivere che tennero, l’altra nell’oziosamente vivere. E queste si deono intendere; perciocchè i mosconi sono generati da putredine d’acqua e di terra corrotte: e questi intender si deono la rimembranza della loro fastidiosa vita, la quale ora conoscono, e dispiace loro: e dispiacendo, senza prò gli affligge e infesta; sicchè assai bene dimostrano confarsi in questo la pena con la colpa. Le vespe si generano dell’interiora dell’asino similmente corrotte: e l’asino essere inerto, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per tutti. E però per le punture delle vespe amarissime, assai bene si dee comprendere, per quelle il morso doloroso della rimembranza della loro oziosità, dalla quale sono dolorosamente trafitti; come apparir può per lo sangue il quale cade dalle punture. Il loro sangue essere da puzzolenti vermini raccolto, ha a rammemorare a questi dolenti, che il sangue generato dalla digestione de’ cibi, li quali usarono vivendo, non nutricò e sostenne in vita corpi umani, anzi putridi e sozzi vermini: per le quali cose, assai bene pare si conformi alla colpa la pena di costoro. E questo basti de’ cattivi aver detto.

Resta a vedere la terza parte, cioè quello che l’autore per lo fiume e per lo nocchiere e per lo caso, che a lui addivenne, voglia sentire. E secondochè io possa comprendere, la sua intenzione è di mostrare come in inferno, oltre al fiume d’Acheronte, si discenda: e questo mostra convenirsi fare passando il fiume, il quale in due maniere trapassarsi descrive. Delle quali dice esser la prima per la nave di Caron, nella quale come [p. 208 modifica]detto è, esso trapassa l’anime di quelli che in peccato mortale morti sono. E però avanti che della seconda maniera tocchiamo, è da vedere quello che l’autore senta per questo fiume, che per lo nocchiere, che per la nave, e che per lo remo col quale dice, che batte qualunque s’adagia. Vuole adunque per questo fiume l’autore disegnare la vita presente, la quale ottimamente dir si può simile ad un fiume; perciocchè siccome il fiume corre continuo, sempre declinando, senza mai in su ritornare, così la nostra vita dal dì del nostro nascimento, sempre e con velocissimo corso declina verso la morte senza mai indietro rivolgersi. Il che ci è, oltre alla continua esperienza, per la divina Scrittura mostrato, nella quale leggiamo: omnes morimur, et quasi aquae dilabimur in terram, quae non revetuntur, Sono oltre a ciò i fiumi, quando per abbondanza d’acque, e quando per forza di venti tempestosi. Il che similemente della nostra vita addiviene; perciocchè alcuna volta addiviene per troppa mondana felicità, che noi gonfiamo e divegnam superbi, e non ricappiendo in noi, e non essendo a’ nostri termini contenti esondiamo. E come i fiumi in danno de’ campi vicini talvolta traboccano, così noi in danno del prossimo e di noi medesimi trabocchiamo: e similmente siamo da diversi impeti della fortuna fieramente afflitti, e infestati negli animi nostri. E come il fiume volge grandissime pietre nel suo fondo, così noi nel segreto del nostro petto, continuamente rivolgiamo gravissime e noiose sollecitudini: e nè altrimenti che i fiumi con le loro circunvoluzioni talvolta traugugian le [p. 209 modifica]navi e’ navicanti così noi tranghiottisce la circunvoIuzione de’ peccati e della bocca infernale. E acciocchè io faccia fine alle comparazioni, come i fiumi molte volte afflizion pongono, così la nostra vita è piena di tribolazioni infinite: per la qual cosa, per quel medesimo nome chiamar la possiamo che questo fiume si chiama, il quale è Acheronte, che tanto suona in latino quanto cosa senza allegrezza: la quale per certo è del tutto rimossa dalla presente vita, veggendo non essere alcuno, quantunque vecchio, che con verità possa dire, sè avere avuto giammai un dì intero, senza mille angosce più cocenti che ’l fuoco.

E sopra questo è una nave, nella quale dall’una riva all’altra sono l’anime trasportate. È manifesta cosa di legni leggieri comporsi le navi, e quelle, senza molta acqua prendere, sopra essa dimorare: per la qual mi pare si possa sentire le nostre concupiscenze, le quali leggieri e mutabili, non altrimenti per la presente vita trasvolano, che facciano sopra l’onde le navi; e seco d’uno appetito in un altro trasportano coloro, li quali miseramente desiderano; nè prima a riva gli pongono, che in perpetua perdizione gli conducono: come per essa dice l’autore, che Caron trasportava l’anime in perpetua doglia.

È appresso di questa nave nocchiere un demonio chiamato Caron, bianco per antico pelo, il quale nella lettera dicemmo essere stato figliuolo d’Erebo e della Notte. Per lo quale assai apertamente vedere si puote intendersi il Tempo; perciocchè il Tempo fu figliuolo d’Erebo, cioè del profondo consiglio di Dio, II quale creò lui come l’altre cose e non essendo [p. 210 modifica]avanti la creazion del mondo alcuna luce sensibile nel mezzo delle tenebre, le quali avanti la creazion del mondo erano, produsse lui come cominciò a distinguer quelle in dì distinti, come nel principio del Genesi si legge. E quinci, perchè nelle tenebre prodotto fu, sentirono i poeti lui essere figliuolo della Notte, cioè delle tenebre. Il nome del quale, Servio sopra l’Eneida di Virgilio dice esser Caron, quasi Cronon: e questo vocabolo in latino viene a dire tempo; il quale l’autore dice essere bianco per antico pelo, descrivendolo dall’accidente della vecchiezza degli uomini, nella quale noi divegnamo canuti: e per questo vuol dimostrare il Tempo essere vecchio, cioè, già è lungo spazio stato prodotto. E nel vero assai è vecchio, perciocchè secondo si comprende in libro temporum d’Eusebio, egli è dalla creazion del mondo, infino a questo anno, perseverato 6572 anni, o in quel torno. E perciò si pone nocchiere sopra questo fiume; perciocchè dir si puote, il tempo esser quello che in sè il dì della nostra natività ne riceve, e con le sue revoluzioni avendone dalla riva del nostro nascimento levati, ne mena per la presente vita, qual più e qual meno, e trasportalo all’altra riva, cioè al dì della morte. È vero che egli è qui posto dall’autore a trapassare l’anime che muoiono nell’ira di Dio, e ciò non è senza cagione; perciocchè quelle che questa mortal vita finiscono nella grazia di Dio, non si dicono, secondochè i santi dicono, morire, ma d’una vita trapassare in altra, e quella essere eterna, nella quale il tempo non ha alcuna cosa a fare; perciocchè l’eternità non patisce alcuna [p. 211 modifica]dimensione di tempo. De’ dannati non si può dir così; perciocchè di questa vita vanno in morte perpetua; e perciò pare che il tempo abbia a determinare con certo numero d’anni e di dì lo spazio della presente vita, la quale quantunque piena d’afflizioni e di fatiche sia, è nondimeno beata stata a’ dannati, per rispetto di quella alla quale in morte perpetua son trapassati.

Ma da vedere è quello che intender voglia l’autore per lo remo di questo nocchiere. E il remo uu bastone lungo, col quale il nocchiere fa muovere la sua nave, e con esso la mena e dirizza d’un luogo ad un altro. Col quale remo l’autor dice, questo dimonio battere l’anime le quali s’adagiano nella sua nave; intendendo per questo la sollecitudine di coloro, li quali all’acquisto delle cose temporali son tutti dati; perciocchè questa sollecitudine dalla varietà del tempo, e dalla qualità delle cose imprese stimolata, non lascia alcun cupido sentire alcun riposo, ma egualmente il dì e la notte, o in pensieri o in opera gli tiene occupati: e sempre con nuove dimostrazioni, a varie operazioni gli sospigne, molesta e affligge, in guisa che, non che riposo prendere, ma elle non lasciano altrui avere spazio di respirare. E se di ciò per avventura alcuno esemplo aspettaste, lasciando stare la sollecitudine pastorale de’ sommi pontefici, le grandi imprese de’ re, de’ principi e de’ signori, riguardate con l’occhio della mente quelle de’ mercatanti, co’ quali noi continuamente siamo, ogni piccolo movimento, ora in Inghilterra, ora in Fiandra, ora in Ispagna, ora in Cipri, ora in una parte e ora [p. 212 modifica]in un’altra, sollecitando, ricordando avvisando li fa scrivere, non lettere, ma vilumi a’ lor compagni: e innanzi tratto sempre con sospetto l’apportate ricevono: ogni vento gli tien sospesi a’ loro navilii: nè si piccolo romore di guerra nasce, che essi incontanente non temano delle mercatanzie messe in cammino: e quanti sensali parlan loro, tauti fan loro mutare animi e consigli. Chi potrebbe esplicare quante sieno le cose, che agli avviluppati nelle cose temporali rompino, turbino, guastino, impediscano i desiderati riposi? Niuna scrittura è che appieno gli potesse mostrare. E così i dolenti, che hanno torto il desiderio della eterna beatitudine alle cose che perir debbono, sono nella presente vita in continua afflizione, e di qui trapassano alla perpetua.

La cagione perchè questo demonio niega di passare l’autore, puote esser questa, perciocchè egli non potrebbe ancora conducer l’autore alla riva opposita, conciosiacosachè ancora venuto non sia l’ultimo dì dell’autore, il quale ancora vivea: e appresso sentiva il demonio, l’autore non essere in disposizione ch’egli volesse passare per dover di là dimorare. E perciò non apparteneva al ministro della divina giustizia, al quale è commesso di trapassare i malvagi, di trapassar similemente quelli che malvagi non sono, e vanno per esser buoni, siccome l’autore andava. E però gli dice,

Più lieve legno convien che ti porti:

volendo per questo mostrare, che quanto la colpa è più lieve, più lievemente trapassi Acheronte. E quelle sono da dir più lievi, le quali talvolta si posson por [p. 213 modifica]giuso, come puote l’uom por giù le sue colpe per la penitenza, che quelle che in eterno non si posson metter giù, come quelle sono nelle quali l’uomo si muore. E non è da credere, che attualmente l’autore in inferno andasse, o che questo fiume, o questo nocchiere, e l’altre cose che qui e altrove si pongono, vi sieno, ma conviensi a’ nostri ingegni in questa maniera parlare, acciocchè essi con minore difficultà possino dalle cose attualmente descritte comprendere le spirituali, le quali per opera d’immaginazione o di meditazione s’intendono. Non ha la divina volontà bisogno d’alcuno uficiale, basta in lui semplicemente il volere, e quello incontanente è mandato ad esecuzione, siccome dice il Salmista: Dixìt et facta sunt mandavit, et creata sunt. Ma questo noi non comprenderemmo, se in alcuni termini dimostrativi non ne fosse posto dinanzi quello che Iddio dispone e adopera, siccome nelle cose dette si può comprendere, cioè noi vivere ed essere dal tempo menali alla morte, e dopo quella, se male vivuti siamo, dannati. E così possiam questa maniera, del passare in inferno, dire che sia per sentenza diffinitiva data da Dio, siccome da giudice il quale esser non può in alcuna cosa ingannato: e come quegli cotali, che da questa sentenza dannati sono, hanno il fiume valicato, in rem judicatam son trapassati senza dovere sperare, che mai per alcuna cagione cotal sentenza si debba o possa rivocare; quantunque scioccamente Origene, per altro prudentissimo e grandissimo litterato uomo, mostrasse di credere, Iddio alla fine del mondo dovere, [p. 214 modifica]non che d’altrui, ma eziandio de’ demoni, aver misericordia, e perdonar loro e menargli in ita eterna. La seconda maniera del passare in inferno, cioè di valicare il fiume d’Acheronte, par che l’autore voglia qui essere per una spezie di sentenza, la quale si chiama interlocutoria, la quale nostro Signore dà in questa forma. Che qualunque uomo che cade in peccato mortale, sia incontanente messo nella prigion del diavolo: ma nondimeno esserci con questa condizione, che se egli d’avere commesso quel peccato, per lo quale è servo del diavolo divenuto, si vuole riconoscere, e per penitenza riconciliarsi a Dio, che egli possa così uscire della detta prigione e ritornare in sua liberta; e dove riconoscer non si voglia, s’intenda in perpetuo esser dannato a dovere stare in quella prigione, nella quale noi miseri Tutto ’l dì caggiamo, e all’unghie del diavolo di nostra volontà le gole porgiamo: la qual cosa avvenire descrive l’autore sotto questa fizione. Dice adunque per sè medesimo, e così ciascun può per sè medesimo intendere, che, la terra lagrimosa, cioè la presente vita, la quale è piena di lagrime e di miserie, diede vento,

Che balenò una luce vermiglia,

cioè uno splendore grande, in apparenza vano e fugace siccome è il vento, il quale niuno può nè pigliar né tenere, e sempre fugge. E questo splendore, dice essere stato balenato da questa cosa vana, a dimostrazione che della vanità delle cose della presente vita nasca questa luce a guisa di baleno, il lume del quale essendo subito reca seco ammirazione, e poi [p. 215 modifica]subitamente si converte in nulla, siccome noi veggiamo avvenire de’ fulgori temporali, che testè sono, e testè non sono. Or nondimeno sono appo la nostra fragilità di tanta forza, che spesse volte occupano tanto le menti d’alcuno, e con tanta affezione desiderati sono, che lasciata la debita notizia di Dio o dello splendore eterno, per qual via, e per li vizii e per le malvage operazioni si trascorre in essi. Di che assai appare a questi cotali ogni sentimento razionale esser tolto, ed essi cadere nelle colpe e nelle miserie del peccato, come cade colui il quale è soprappreso dal sonno. E fa in questo l’autore debita comparazione; perciocchè quantunque peccando mortalmente nella infernal morte si caggia, nondimeno è questa morte in tanto simile al sonno, in quanto l’uomo si può da essa destare mentre nella presente vita dimora, siccome nel principio del seguente canto mostra l’autore d’essere stato desto, ma da grave tuono, la gravità del qual tuono possiam dire essere stata alcuna di quelle cose, con le quali d’avanti nel principio del primo canto del presente libro dicemmo, che Domeneddio toccava il peccatore colla grazia operante, quando in alcuno la mandava. E meritamente qui possiam repetere quello che nel predetto luogo dicemmo, l’autore per lo sonno non essersi accorto come nella prigione del diavolo s’entrasse, cioè come si trapassasse il fiume d’Acheronte; ma destandosi, e trovandosi dall’altra parte del fiume, assai leggiermente conoscer si può, la sua colpa e la sentenza di Dio avervelo trasportato: e questo trasportamento sarebbe stoltizia a credere che corporale fosse stato. Fu [p. 216 modifica]adunque spirituale, come spiritualmente intendere si dee noi per lo peccato divenir servi del diavolo. E quantunque a quelli che in questa forma trapassano in inferno sia licito volendo il poterne uscire, non posson però uscirne per tornarsi addietro per la via donde entrarono; perciocchè per lo peccato non si può di peccato uscire, come quelli farebbono che per quella via n’uscissono per la quale v’entrarono, ma conviensene uscire per la via opposita al peccato, la quale nulla altra è che la penitenza. E a pervenire a questa via, mostra l’autore essergli convenuto tutto l’inferno trapassare, e di quello, per la parte opposita a quella onde v’entrò, esserne uscito. E questa via, se noi riguardiam bene, il conduce a piè del monte della penitenza, dove trova Catone, che a quella il dirizza e sollecita.

  1. Discendersi.