Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Allegorie del capitolo quinto

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Allegorie del capitolo quinto

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Capitolo quinto Capitolo sesto
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ALLEGORIE DEL CAPITOLO QUINTO.


Così discesi del cerchio primaio, ec.

Mostrato che la ragione ha il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati per lo lavacro del battesimo lavati dal peccato originale, procedendo più avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualità delle colpe più gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la divina giustizia dannati sieno coloro i quali in esse colpe morirono, fa due cose nel presente canto. Primieramente in persona di Minos gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra in questo cerchio secondo esser dannati que’ peccatori, li quali oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il concupescibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi cotali alquanti, acciocchè più pienamente si comprenda la sua intenzione. Dico adunque, che primieramente la ragione ne dimostra qui in persona di Minos la severità della [p. 64 modifica]divina giustizia, intorno alla qual dimostrazione son da considerare due cose. La prima, perchè più in questa parte, che più su, o più giù, questa divina giustizia ne sia mostrata. La seconda, perchè più in persona di Minos, che d’un altro. Dico, che perchè la divina giustizia ne sia più qui, che in alcun’altra parte dimostrata, può essere la ragion questa. È la giustizia virtù, la qual secondo i meriti retribuisce a ciascheduno: e quantunque questa virtù strettamente usi il suo oficio intorno agli atti degli uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle quali ella del tutto è schifa d’intramettersi, estimando ottimamente fare il suo oficio quando quelle cotali cose sostenne; in quanto non le pare quelle cotali cose, o meritorie o non meritorie che sieno, essere state causate da alcuna ordinata volontà, o da iniquità di malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere degli animali, ne’ quali non è alcuna ragione; e queste cotali operazioni son quelle de’ furiosi, e de’ mentecatti, e de’ fanciulli e degl’ignoranti; perciocchè in quelle cose, le quali questi cotali fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e dove elezione e volontà esser non può intorno all’adoperare, non pare che caggia nè esaminazione nè giudicio della giustìzia: e di sopra a questo luogo, se ben si riguarda, non son puniti alcuni altri, se non questi cotali, cioè mentecatti o furiosi, o fanciulli o ignoranti, come è dimostrato; intorno a’ quali se la giustizia non s’interpone, era di soperchio e mal conveniente averla tra loro e di sopra a loro dimostrata, perciocchè quanto a quegli [p. 65 modifica]ella sarebbe stata oziosa, il che la virtù non patisce. Ad averla più giù che questo luogo dimostrata, e’ ne seguivano alcuni inconvenienti: primieramente pare, che avesse potuto de’ peccatori, che alle più profonde parti dell’inferno doveano discendere, siccome incerti di sè, rimanersi nelle parti dell’inferno che state fossero superiori al luogo dove stata fosse posta la giustizia, e così non sarebbono stati secondo le colpe commesse puniti: e oltre a ciò sè vogliam dire, essa medesima giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera d’Acheronte, similmente gli farebbe pronti a discendere infino là dove ella fosse, ne seguirebbe, che quegli che non son degni di scendere tanto giù quanto ella fosse, vi scenderebbono alla esaminazione e al giudicio; e così sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate; il che è contro agli effetti della giustizia: e però ottimamente in questa parte la discrive l’autore, nella quale niuna cosa de’ superiori s’impaccia, nè hanno quegli che ne’ cerchi più alti esser debbono a discender giuso; nè può alcuno stare in forse di sè, nè ancora sedendo ella in su questa entrata può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che non gli convenga venire alla sua esaminazione. È nondimeno da intendere, la giustizia di Dio essere in ogni parte, e per tutto ritribuire secondochè ciascuno ha meritato: nè bisognarle fare alcuna esaminazione o inquisizione de’ nostri meriti o delle nostre colpe, come alla giustizia de’mortali bisogna; perciocchè nel cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere son presenti e conosciute da lei, ma ella ancora [p. 66 modifica]vede e conosce e discerne tutti i pensier nostri, e da che cagion nascono; nè gli si possono per alcuna industria o sagacità occultare: ma conviensi a’ nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali effetti della divinità, e di qualunque altra spiritual cosa. Resta a vedere perchè più in persona di Minos, che d’alcuno altro ministro infernale, ne sia dimostrata questa giustizia: e con questo è da vedere quello che l’autore abbia voluto sentire in ciò che egli fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda, dimostrare i suoi giudicii. E avanti all’altre cose pare si richieggano ne’ ministri della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severità. Conviene essere prudente al ministro della giustizia, acciocchè egli per la prudenza cognosca le qualità delle persone nelle quali ha a vedere quello che di ragion si convenga; perciocchè altrimenti è da punire un uomo di minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli cognosca le qualità de’tempi; perciocchè altrimenti è da punire un uomo che muova o susciti un romore ne’ tempi della guerra, quando gli stati delle città stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le città sono in pace e in tranquillitade. Conviensi che egli conosca la qualità de’ luoghi: perciocchè altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio, o in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota, e non molto frequentata dall’usanza degli uomini. E conviensi per la prudenza, che egli [p. 67 modifica]sappia discernere i movimenti di quegli che peccano, di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili cose: e dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia. Conviengli oltre a questo esser costante, acciocchè da quello, che conosciuto avrà convenirsi fare, non rimuova alcuna affezione, non prego, non amore, non odio, non prezzo, non lusinghe o cose simili a queste: perciocchè dove d’alcuna, o da più di queste mosso fosse, mai giudicar non porria giustamente, e per conseguente non saria atto ministro della giustizia. Conviengli oltre alle dette cose essere severo, e massimamente dove è tolto luogo alla gratificazione. Puossi infra’ processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri della giustizia, per diversi, ma onesti accidenti, più all’una parte che all’altra esser grazioso: la qual cosa nelle cose e ne’ tempi debiti non è vizio, ma è segno d’equità d’animo nel giudicante: fuori de tempi debiti, conviene nell’esecuzioni al giudice esser severo in servare strettamente l’ordine della ragione, e di quello per cagione alcuna non uscire; e massimamente ne’ giudici di Dio, il quale insino all’estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua misericordia n’aspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se prendere la vogliamo: ma poichè a quella non ci siamo voluti volgere, e quasi a vile avendo la sua benignità ci siamo lasciati morire, essendo la sua sentenza passata in nel giudicante, con ogni servitù dee qui il ministro della giustizia quella mandare ad [p. 68 modifica]esecuzione. Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere ne’ processi delle sue operazioni, e ancora nella opinione avuta di lui da coloro, li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi a’ popoli suoi, e quegli che usavano di vivere scapestratamente, ridusse per sua industria a viver sotto il giogo della giustizia. Che egli fosse costante in non muoversi per alcuna affezione da quello che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo avuta del Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò che giusto uomo dovesse servare, cioè diliberar lui e la sua città della servitudine, siccome promesso avea. Oltre a ciò apparve la sua severità in Scilla figliuola di Niso re de’ Megaresi, la quale da disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradì il padre, e fecel signor di Megara, e a lui se ne andò; per la qual cosa quantunque ella fosse nobile femmina, e giovane e bella, e avesselo fatto signore di Megara, da niuna di queste cose mosso, lei, siccome ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si gittano i patricidi. E così li suoi comandamenti, come detto è, avendo in leggi ridotti, quelli con tanta costanza e con tanta severità servò, che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli n’empiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa, dopo la sua morte, estimarono gli uomini ne’ loro errori, lui essere appo l’anime d’inferno, essere a quel medesimo officio esercitare tra loro che in questa vita tra’ suoi esercitava eletto, [p. 69 modifica]siccome nella esposizione letterale si mostra.1 Adunque assai convenientemente pare essere per la persona dì Minos in questo luogo figurata la divina giustizia. Ma che questa divina giustizia dimostri, per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno all’esecuzione de’ suoi giudicii è da vedere. Ceita cosa è, la coda essere l’ultimo membro, e l’ultima parte del corpo di qualunque animale, al quale la natura l’ha conceduta: e quantunque ella serva a più cose gli animali che l’hanno, alla presente materia non intende l’autore altro, secondo il mio giudicio, se non la strema2 e ultima parte della vita nostra, secondo la qualità della quale si forma il giudicio della divina giustizia: perciocchè quantunque l’uomo sia scelleratamente vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle mal fatte cose, e con buone compunzioni e con puro cuore si rivolge alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa, e giudicato degno di salvazione: il che in molti esempli n’è dimostrato per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale col nostro signore Gesù Cristo fu crocifisso, il quale avendo tutti i dì suoi menati male, e come peccatore [p. 70 modifica]riconosciuto, poco avanti all’ora della sua morte, con contrito cuore non dicendo altro che miserere mei, Domine, cum veneris in regnum tuum, il fece la misericordia di Dio degno d’udire dalla bocca di Cristo, Amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso: nè è dubbio alcuno, che a queste parole non seguisse l’effetto; e così solamente all’ultima parte della vita, cioè alla sua qualità, fu dalla giustizia divina guardato. E così in contrario, essendo Giuda Scariotto stato de’ discepoli di Cristo, e usato con lui e avendo la sua dottrina udita, quantunque poi male adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia di Dio, e col capestro messosi a finir sua vita, col fine suo di sè medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al profondo dello inferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con le colpe più gravi, con le quali e’ muore, del luogo il quale e’ dee in inferno avere è dimostratore.

Appresso le cose già dette, resta a vedere la qualità de’ dannati in questo secondo cerchio, e come alla qualità della lor colpa sia conforme il supplicio, il quale l’autore ne dimostra essere lor dato dalla divina giustizia. Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi; intorno al vizio de’ quali è da sapere, che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale, il quale di maschio e femmina si procrea: e ciò fa la natura avvedutamente, acciocchè per l’atto del coito, ciascuno animale generi simile a sè, e così si continui la spezie di quello: e se questa sollecitudine non [p. 71 modifica]fosse nella natura delle cose, assai tosto verrebbon meno i generati, e così rimanrebber vacui i cieli, la terra e ’l mare di possessori. È ero che ell’ha in ciascuno altro animale, che nell’uomo, posto certo modo, acciocchè per lo soperchio corrotto non periscano i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati nè raffrenati sono: e questo è non patire le femmine a’ congiugnimenti de’ maschi loro, se non alcuna volta l’anno, e questa non si prolunga in molti dì, infra’ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli alli loro maschi, e loro si concedono: e questo cotal tempo finito, o come conoscono sè aver conceputo, più lor dimestichezza non vogliono. Ma negli uomini non pose la natura questa legge; perciocchè gli conobbe animali razionali, e per quello, dover conoscere quello, e quando e quanto s’appartenesse di fare a dovere ben vivere: ma mai non mi ricorda d’aver letto, che appo coloro li quali mondanamente vivono, alcuno quello che la ragione vuole in questo atto osservasse che una femmina: e questa fu una donna d’Arabia, reina de’ Palmireni, chiamata Zenobia, della quale si legge, mai ad Odenato suo marito essersi voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in ciò questo stile, che essendo il marito giaciuto carnalmente con lei, più accostare non le si lasciava, infìno a tanto che ella conoscea se conceputo avea o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva un’altra volta, se conceputo aveva, mai insino alla purificazione dopo il parto più non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di questa reina, o come gli [p. 72 modifica]uomini io questo usino il giudicio della ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: perciocchè dove essi la ragion seguitando, dovrebber quel modo a sè medesimi porre, il quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che possono o sanno in contrario si sforzano.

Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurina, il quale quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che di tanta costanza fossero, che vedendolo non si commovessono a desiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli, per non esser cagione che alcuna incautamente la sua onestà contaminasse con appetito men che onesto preso un coltello, tutto il bel viso si guastò, rendendolo non men con le fedite deforme, che formoso fatto l’avessero le mani graziose della natura. In verità laudevole cosa fu questa, da doverla con perpetua commendazione gloriare: ma i moderni giovani fanno tutto il contrario, i costumi de’ quali avere alquanto morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrà esser piacevole ad altrui. E acciocchè io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo appo il barbiere in farsi pettinare la zazzera, in far la forfecchina, in levar questo peluzzo di quindi, e rivolger quell’altro altrove, in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi, azzimarsi, e licchigarsi e scrinarsi i capelli, ora in forma barbariccia lasciandoli crescere, attrecciandoli, avvolgendoseli alla testa, e talora [p. 73 modifica]soluti su per gli omeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto chericile raccorciandoli. E similmente ristrignersi la persona, fare epa del petto non in su’ lombi, ma in su le natiche cignendosi come gatti, allacciarsi anzi legarsi, e a’calzamenti portare le punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinare dovessono le donne, e tirarle ne’ lor piaceri: farsi le trombe alle maniche, e di quelle non mani, ma branche piuttosto d’orso cacciare. Nè vo’ dire de’ cappuccini, co’ quali o babbuini o a scottobrunzi simiglianti si fanno, nè similmente della lascivia degli occhi, co’ quali quasi sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato. E lascerò stare gli atti, gli andamenti , e’ portamenti, il cantare, e ’l carolare, e così le promesse e’ doni, de’ quali si può però più tacere che dire, sì sono in cintola divenuti stretti; e a un solo lor costume verrò, il quale quantunque a loro prestantissimo paia, perciocchè con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano, mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne, e questo è, che portano i panni sì corti, e spezialmente nel cospetto delle femmine, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse, guardandoli alle parti inferiori più assai agevolmente cognoscerebbe, che egli è maschio: e se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da poter dubitare, che infra poco tempo non si tolga ancor via quel poco di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e così non sarà da [p. 74 modifica]que’ cotali differenza alcuna da’ bruti animali. Ingegnossi la natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti del corpo, le quali a lei più occulte parvero, que’ membri de’ quali mostrandogli ciascun si dee vergognare. E oltre a ciò, l’uso della vergogna nato ci ha dimostrato, quantunque dalla natura, secondochè ella potè, nascosti sleno, di velarli e ricoprirli co’ vestimenti: e quantunque, o necessità o usanza l’altre parti del corpo scoperte patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani, che scoperte le sofferi. Gl’Indiani, gli Etiopi, i Garamanti, e gli altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano, quantunque da soperchio caldo sforzati sieno d’andare ignudi, quelle parti in alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dico io gl’Indiani o gli Etiopi, li quali hanno in sè alcuna umanità e costume? quegli popoli, li quali abitano l’isole ritrovate, gente si può dire del circuito della terra, e nella quale nè loquela nè arte nè costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente vivono, i quali popoli vivono di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica tessute, o annodate piuttosto, fanno ostacoli co’ quali quelle parti nascondono. I naufragi ancora ignudi, da tempestoso mare gittati ne’ liti, quantunque faticati e percossi dall’onde sieno, nondimeno non curandosi di tutto l’altro corpo perchè ignudo sia, quella parte, se altro non hanno, s’ingegnano di ricoprire con le mani, I poveri uomini, a’ quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono che rimanga scoperta. I mentecatti e’ furiosi e gli [p. 75 modifica]ebbri, mentrechè alquanto di sentimento hanno, si vergognano che que’ membri in aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giù ogni erubescenza, ogni fronte, ogni onesta, e tanto si lasciano al bestiale appetito, e a’ conforti del nemico dell’umana generazione sospignere, che non altrimenti col viso levato procedono, che se alcuna laudevole operazione avesser fatta o facessero. Allegano questi cotali, e in difesa del lor vituperevole costume, ragioni vie più vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo primieramente, noi seguiamo l’usanze dell’altre nazioni: così fanno gl’Inghilesi, così i Tedeschi, così i Franceschi e’ Provenzali: non s’avveggono i miseri, quello che essi in questa loro trascurata ragion confessino. Solevano gl’italiani, mentrechè le troppe delicatezze non gl’infermarono, dare le leggi, le fogge, e’ costumi e’ modi del vivere a tutto il mondo: nella qual cosa appariva la nostra nobilità, la nostra preeminenza, il dominio e la potenza: dove segue, se dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi, da quegli che furon nostri tributarii, nostri vassalli, nostri servi, dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava, nè sapeva, nè saprebbon, se non quanto dagl’Italiani fu loro dimostrata (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo, confessiamo d’essere noi i servi, d’esser coloro che viver non sappiamo se da loro non apprendiamo; e così d’aver loro per maggiori, e per più nobili e per più costumati. O miseri! non s’accorgono questi cotali, da quanta gran viltà d’animo proceda, che un Italiano seguiti i [p. 76 modifica]costumi di così fatte genti. E in verità, se alcuna altra onestà non dovesse da questo disonesto costume torre i giovani, ne’ quali è il fervor del sangue e le forze, e’ dovrebbe esser la grandezza dell’animo se non un giusto sdegno; non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi d’aver mai seguitato o seguitare alcun costume di così fatte genti, e ogni cosa adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono d’esser nelle lor brutte invenzioni dagl’Italiani imitate. Seguitano oltre a questo, nelli loro errori multiplicando, e dicono che i vestimenti lunghi gl’impedivano, e non gli lasciavano nelle cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano, d’ogni ragionevole sentimento voto! Così parlan questi cotali, come se coloro li quali più lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante sieno le faccende di questi tarpati; e se non che troppo sarebbe lungo il sermone, io le racconterei in parte; ma presuppognamo che pure alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto co’ panni lunghi? come i Romani li quali in continue guerre, con l’arme in dosso ogni dì combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor facesser noia i panni lunghi, ne’ quali erano in continovi e grandi eserciti. Ma forse diranno questi cotali, non esser di necessità agli uomini, li quali sono in fatti d’arme, l’avere i panni corti, come a coloro che vanno vagheggiando, o a voler dir più proprio, a color che vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi, e ch’eglino hanno le natiche tonde, e grosse le cosce: o dissensati! Solicnsl i giovani vergognare seco [p. 77 modifica]medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e oggi per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che, dira forse alcun altro, che i Romani similmente gli portavano corti come essi fanno: e nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa prova per iscritture che io abbia vedute; ma in luogo di quelle, le statue di marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano il mondo, e delle quali si trovano ancora assai, ne mostrano quali fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste io credo assai aver vedute, nè mai alcuna nè armata nè disarmata ne vidi, che o da’ vestimenti o dall’armadure non fosse almeno infino al ginocchio coperta: per la qual cosa essendo a costoro risposto, assai manifestamente si vede che assai mal procede l’argomento, che i panni lunghi impediscano. E acciocchè io non discorra per tutti, non ometterò però che io un’altra delle lor savie ragioni non discriva, perciocchè estimano quella che dir debbo essere efficacissima, e dovergli d’ogni loro disonestà render pienamente scusati. Dicono adunque, che le donne mostran loro con le poppe il petto, acciocchè più nella concupiscenza di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi voglion mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata, dove ella è abominevole tra’ sensati; ma non pensano i miseri quanto scelleratamente essi adoperano. Essi questo adoperando caccian da sè ogni reverenza materna, mostrando [p. 78 modifica]di credere che le madri tengano gli occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti de’ figliuoli esser mosse, come l’altre femmine si muovono; conciosiacosachè la natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo all’onesta della parentela: nel vero io non l’ardirei affermare, quantunque già molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire, che se ciò non addiviene, esserne la lor costanza cagione, doe del contrario è cagione il vituperevole costume de’ figliuoli: nè discrederò, che quel che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta diterminare con gli strani uomini. Appresso questo non s’accorgono i dissipiti, dove incitar credono le femmine le quali alla lor libidine desiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate, e nelle altre congiunte adoperino; le quali quantunque spesse volte caggiano ne’ lacciuoli sconciamente tesi da loro, rade volte avviene che da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti d’uomini non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le sospingono. Nè ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta età continuamente sospigne a dover prendere esperienza di ciò, che loro ancora non saria di necessita di conoscere: di che non una volta è avvenuto, che lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parli del corpo, le quali con ogni ingegno si dovrian torre de’ pensieri, ma le parole men che oneste de’ non cauti padri, aver loro prima strupatore che marito trovato. Ma ritornando alla folle ragion di costoro, dico, che quantunque biasimevol sia molto [p. 79 modifica]alle donne mostrare con le poppe il petto, non sono perciò le poppe de’ membri osceni, e che nascondere del tutto si deano; perciocchè se di quegli fossono, non l’avrebbe la natura poste in così aperta e patente parte del corpo come è il petto; anzi si sarebbe ingegnata d’occultarle, come gli altri fece. Oltre a questo, le poppe sono a’ sani intelletti venerabili, conciosiacosachè elle sieno quelle onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando i nostri primi parenti peccarono, e cognobbero la ignominia loro, non nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi siccome Adam fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di mostrare. Nè aveano i nostri parenti di cui vergognarsi, se non di Dio che creati gli avea, e di sè medesimi, dove costoro nè di Dio si vergognano nè degli uomini, Similmente quando i predetti di paradiso cacciati furono, i vestimenti che da Domeneddio furon lor fatti non ricopersono le parti superiori, nè per nasconder quelle fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali, partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di sè medesimi si vergognarono. E però potrebbono in contrario di queste loro scostumataggini dir le donne: quello che noi vi mostriamo, non fu nella nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece, dove quel che voi mostrate a noi fu ricoperto al primo nostro padre. È vero che quantunque il costume de’ giovani nella parte mostrata, biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanità delle donne, le quali d’altra [p. 80 modifica]parte non potendo nascondere il fervore inestimabile della lor concupiscenza, con industria e arte s’ingegnano in ciò che elle possono, di quello adoperare ehe possa provocare gli uomini con appetito più caldo a desiderare i loro congiugnimenti: elle si dipingono, elle si adornano, elle si azzimano, e con cento varietà di fogge sè ogni giorno trasformano, ballano, cantano, lusingano con gli occhi, con gli atti e con le parole, dove dovrebbono con onestà la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare i costumi. Di che assai manifestamente si può raccogliere, che dove questo vizio solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne il destano, il chiamano, e se egli non volesse venire il tirano, non contenti solamente a’ portamenti, ma con gli odori arabici, con le corterie, con le polveri, con le radici, e con liquori orientali, con vini, è con le vivande, e con le morbidezze, e con gli ozii e con altre cose assai lo sforzano, mostrandosi in lor danno e in lor vergogna assai mal grati della liberalità della natura usata verso di loro. E così miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la quale scelleratamente seguìta, ne trae della mente la notizia di Dio, e contro all’amor del prossimo ne sospigne a adoperare; togliendoci ancora di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine; siccome colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, vacua l’ossa, guasta lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa l’ingegno, debilita il vedere, e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte de’ giovani, e amica delle femmine, madre di bugie, nemica d’onestà, guastamento di fede, conforto di [p. 81 modifica]vizii, ostello di lordura, lusinghevole male, e abomiuazione e vituperio de’ vecchi: alla cui troppa licenza reprimere nostro signore primieramente istituì il matrimonio, nel quale non dando più che una moglie ad Adam, nè ad Eva più che un marito, mostrò di volere che uno fosse contento d’una, e una d’uno: il che poi nella legge data a Moisè espressamente comandò, ogn’altro congiugnimento vietando. E non bastando questo, per onestare il matrimonio, e ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo già da sè l’onesta pubblica separate da così fatti congiugnimenti le madri e le figliuole, e similemente i padri e i figliuoli e gli adulterii essendo stati proibiti: da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli e le sorelle, e poi più avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai, cioè quelli i quali o per consanguinità o per affinità parevano assai propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con queste segregando ancora le vergini, e gli uomini ancora e le femmine le quali ad un servigio avessero sacrate le nostre leggi: dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque in questa colpa caggiendo per incontenenza molto s’offenda Iddio, secondo la varietà delle persone divenire il peccato più e men grave. E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma tra le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle quali, acciocchè per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle distintamente mostrare. Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa spezie ha [p. 82 modifica]men di colpa che alcuna altra, e chiamasi fornicazione; il qual nome ella trasse dal luogo dove il più si solea anticamente commettere, cioè nelle fornici. Fornice si è ogni volta murata, quantunque a differenza di queste si chiamino testudini quelle de’ templi e de’ reali palagi: e fornici eran chiamate propriamente quelle, le quali eran fatte a sostentamento de’ gradi de’ teatri; i quali teatri, perciocchè la moltitudine degli uomini anticamente si ragunavan in dì solenni a vedere i giuochi i quali in essi si faceano, prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare opera al loro disonesto servigio con quelli a’ quali piaceva: e così di quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè fornicazione, Commettesi ancor questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama stupro3; ed ebbe questo vocabolo origine da stupore, in quanto quando prese l’uso, non solamente in vergine si commetteva, ma in vergine vestale; le quali vergini vestali furono sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, massimamente appo i Romani; e però pareva uno stupore, che alcuno fosse di tanta presunzione che egli ardisse a violare una vergine vestale: oggi è questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo medesimo vizio tra persone per consanguinità o per affinità congiunte si commette; perciocchè non meno stupore genera negli uditori aver con questa turpitudine maculata l’onesta del parentado, che l’aver viziala la verginità d’alcuna; [p. 83 modifica]quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo peccato, perciocchè le si toglie quello che mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno: e quanto il danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno. Commettersi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie adulterio: e venne questo nome dall’effetto del vizio, cioè adulterium, alterius ventrem terens: cioè l’adulterio è il priemere l’altrui ventre; perciocchè in esso si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, nè similmente di colei alla quale è premuta, ma del marito di lei. Commettesi ancora questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, e tra uomo sacro e femmina sacra, e tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo sacro intendere quella persona essere la quale ha sopra sè ordine sacro, siccome sono i cherici e le monache; e chiamasi questa spezie incesto; il qual nome nacque anticamente dalla cintura di Venere, la quale è da’ poeti chiamata ceston. Alla qual cosa con più evidenza dimostrare è da sapere, che tra gli altri più ornamenti che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata ceston, della quale scrive così Omero nella sua lliada: et a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria omnia ordinata eraunt, ubi inerat amicitia, atque cupido, atque facundia, blanditiae quae furatae intellectum, studiose licei scientium etc. E vogliono i poeti, conciosiacosachè a Venere paia dovere appartenere ogni congiunzione [p. 84 modifica]generativa, che quando alcuni legittime e oneste nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa sua cintura detta ceston, a dimostrazione, che quegli li quali per santa legge si congiungono sieno costretti e obbligati l’uno all’altro di certe cose convenientesi al matrimonio, e massimamente alla perpetuità d’esso. E perciocchè Venere similmente va a’ non legittimi matrimonii, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va a quelli così fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata ceston: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono incesto, cioè fatta senza questo ceston: ma questa generalmente è stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che quantunque l’altre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente s’offenda Iddio, conciosiacosachè le persone a lui sacrate di così vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato stupro, e per avventura non senza sentimento s’aggiugne; perciocchè questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio risarcire; perciocchè come la monaca sacrata mai maritar più non si puote, cosi tra congiunti può mai intervenire matrimonio, dove nell’altre spezie potrebbe intervenire. Commettesi ancora questo vizio, e nell’un sesso e nell’altro, contro alla natural legge esercitando, e questo è chiamato soddomia, da una città antica chiamata Soddoma, li cittadini della quale in ciò dissolutissimamente viziali furono; ma perciocchè questa spezie ha molto più di gravezza e di offesa che alcuna delle [p. 85 modifica]predette, non dimostra l’autore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce troppo più giù, come si vedrà nel canto decimoquinto del presente libro. È il vero, che quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che l’una meriti vie maggior pena che l’altra, non appare però nel supplicio attribuito al lussurioso 1’autore punire una più gravemente che un’altra; ma noi dobbiamo credere, quantunque distinte non sieno le pene, quella che egli attribuisce a tutte, dovere più amaramente priemere coloro che più gravemente hanno commesso. Ma deducendoci da queste più generali dimostrazioni, a quelle che più particular sono, dico, che perciocchè il peccato della carne è naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagion di molti mali, nondimeno per la opportunità di quello, e perchè pur talvolta se ne aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dell’inferno, il quale è più dal centro della terra che alcuno altro rimoto, e più vicino a Dio, vuole l’autore questo peccato esser punito: l’origine del quale, secondochè di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli, la quale parrebbe ne dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la quale ne dimostra quel che far dobbiamo, e quel che fuggire; e oltre a ciò il libero arbitrio, nel quale è podestà di seguire qual più gli piace: e quantunque questa attitudine n’abbia a rendere inchinevoli a ricever le forme piaciute, e quelle desiderare e amare, nondimeno se ’l calor naturale, ed eziandio [p. 86 modifica]l’accidentale non accendessero, e accendendo confortassero l’appetito concupiscibile, desto dalle cose piaciute, e inchinato dall’attitudine, non è da dubitare che la concupiscenza indebolirebbe, e leggiermente si risolverebbe, secondochè la sentenza di Terenzio par che voglia, là dove dice, Sine Cerere et Baccho friget Venus, Pare adunque questo caldo aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigidità del vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che in questa colpa trasvanno, siccome cosa che è per la sua frigidità contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito: e che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò, che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e perciò di sua natura sarà il vento frigidissimo: oltre a questo, e le cose inducenti all’atto libidinoso e la libidine, considerata la qualità di questo vento, oltre alla freddezza sono ottimamente da lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per molte vigilile, per molto perdimento di tempo, per. molto dispendio, e per molte fatiche tutte dannose e da vituperare, le quali se alcuna volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta nè finisce il suo desiderio d’aver copia di veder la cosa amata, d’aver copia di parlarle, d’aver copia d’abbracciarla e di baciarla, se tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne, acciocchè possa [p. 87 modifica]ogni parte del corpo toccare, con ogni parte essere tocco e strlgnersi, e della morbidezza di quello miseramente consolarsi; mostrando per questo, l’ultimo e maggiore diletto di così miserabile appetito, stare nelle congiunzioni corporali ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme l’una e l’altra punisce perciocchè dove la predetta fu molto desiderata e molto dilettevole a’ corpi, così questa è odiata, e s’elle potesser fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata impetuosissima; e quanto per venire al peccato i pensieri del cuore e i movimenti del corpo con fatica s’esercitarono, cotanto nello eterno supplicio loro gira e rivolge e trasporta; e oltre a ciò, in quella cosa che fu più desiderata da loro, e che maggior piacere prestò a’ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli aflllgge; intantochè essi molto più desiderano di mai non toccarsi, che di toccarsi non desideraron peccando: e la cagione è manifesta; perciocchè l’impeto di questa bufera, il quale in qua e in la, e di giù e di su gli trasporta, con tanta forza l’un nell’altro riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi: le quali cose se bene si considerano, assai bene si vedrà, l’autore far corrispondersi col peccato la pena.

  1. Il Manoscritto ha così. Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos in questo luogo la divina giustizia dimostri. Per lo ravvolgimento della coda di Minos intorno all’eaecuzione de’ suoi giudicii è da vedere. Certa cosa è ec. Non so se quel di più che si legge nella prima edizione provenga da un altro MS. o pure dalla fantasia dell’editore. Ho creduto, come lezione più completa, doverla rispettare, benchè ne sia sospetta la provenienza.
  2. Anche qui il MS. legge assai diversamente: e ultima parte della divina giustizia, perciocchè quantunque l’uomo ec.
  3. Strupo.