Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Allegorie del nono capitolo

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Allegorie del nono capitolo

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Capitolo nono

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ALLEGORIE DEL NONO CAPITOLO


Quel color che viltà di fuor mi pinse ec.

Avendo l’autore ne’ precedenti canti, secondo la dimostrazione fattagli dalla ragione, dimostrato che peccati sien quegli a’ quali noi naturalmente tirati siamo, e ne’ quali noi per incontinenza vegnamo; e ancora quali supplicii ad essi dalla divina giustizia sieno imposti; e restandogli a descrivere quegli i quali per bestialità e per malizia si commettono, acciocchè cognosciutigli, meglio da essi guardar ci sappiamo, e ancora se in essi caduti fossimo ce ne dogliamo, e per penitenza perdono meritiamo: e parendogli opportuno a dover questo fare, di dimostrare superficialmente dove questi peccati si piangano, e in parte la cagione dalla quale pare che pervengano, primieramente scrive come alla città di Dite pervenisse, e come in quella gli fosse negata l’entrata: e appresso come da tre furie infernali fosse provocato il Gorgone, per doverlo fare rimanere: e quinci perchè quello per opera della ragione non aveva potuto avere effetto; come e per cui fosse la [p. 282 modifica]porta della città aperta, e come dentro seguendo la ragione v’entrasse disegna, e quale spezie di peccatori, entratovi, primieramente in doloroso tormento trovasse. E perciocchè a lui medesimo par sotto molto artificioso velame aver queste cose nascose, come nel testo appare, rende solleciti coloro i quali hanno sani gl’intelletti, a dovere agutamente riguardare ciò che esso ha riposto sotto i versi suoi.

È adunque primieramente da vedere quello che esso abbia voluto che s’intenda per la citta di Dite; il che se perspicacemente riguarderemo, assai ben potrem comprendere, lui voler sentire questa citta niuna altra cosa significare, che il luogo dell’inferno nel quale si puniscono gli ostinati; e ciò dimostra in due cose, delle quali descrive questo luogo essere circondato, cioè dalla palude di Stige, della quale dice i fossi di questa città essere pieni, e impedire ogni entrata, fuori che quella alla quale Flegias demonio con la sua nave producesse altrui: e appresso essa città aver le mura di ferro, le quali non si posson leggiermente rompere o spezzare. Per le quali due cose sono da intendere due singolari proprietà degli spiriti maladetti che in esso luogo tormentati sono, o vogliam dire delle anime ostinate le quali in quello luogo in diversi supplicii punite sono; ed è la prima tristizia significata per Stige, perciocchè la tristizia si può dire essere la prima radice della ostinazione, siccome appresso apparirà: la seconda è la inflessibile fermezza del malvagio proponimento, nel quale senza mutarsi consiste l’ostinato: e questa è significata per le mura del ferro, la cui durezza è [p. 283 modifica]tanta e tale, che per forza di fuoco, non che d’altra cosa, non si può liquefare, come tutti gli altri metalli fanno: e perciò per esso ferro assai ben si dimostra la seconda qualità degli animi degli ostinati, i quali nè caldo alcuno di carità, nè dimostrazione o ragione alcuna puote ammollire, nè riducere in alcuna laudevole forma. E chiama 1’autore questo luogo Dite, cioè ricco e abbondante; ed esso medesimo mostra di che ricco e abbondante sia, cioè di gravi cittadini, e di grande stuolo, cioè moltitudine: perciocchè per lo trasandare nelle colpe i più de’ peccatori, da’ peccati naturali trasvanno ne’ bestiali o ne’ fraudolenti; e così questa ultima, e più profonda parte dell’inferno, è molto più piena che la superiore. E pare che questa pestilenza entri negli animi, come detto è, per lo trasandare nelle colpe, o per bestialità o per malizia; delle quali l’una non lascia cognoscer la misericordia di Dio, e l’altra non la vuol cognoscere; e però trascorsi con abbandonate redine ne’ vizii, e in quegli per lungo trasandare abituati, gli s’hanno ridotti in costume: e quando il vizio è convertito in costume, niuna speranza di poterlo rimuovere si puote avere; e così indurati e sassei divenuti, caggiono in questo miserabile luogo, nel quale perciò è vietata l’entrata alla ragione e all’autore: alla ragione, perciocchè il costume degli ostinati è non volere, come detto è, alcuna ragione udire incontro alla loro sassea e dannosa opinione: all’autore fu vietata, perciocchè nel vizio della ostinazione non era venuto; e così parendo a’ ministri del doloroso luogo, lui non dover venire per [p. 284 modifica]rimanere, come gli altri facevano che v’entravano, non fu voluto ricevere, ma essere alla ragione e a lui stata serrata la porta, non di Dite ma dello intelletto, da’ loro avversarii, i quali con ogni lor forza e con tutto il loro ingegno adoperano, che alcuno conoscer non possa quello che, conosciuto, gli sia cagione di schifare la sua perdizione, e quel seguire che sua salute sia: che per altro non si curerebbe: demonio che l’uomo conoscesse il vizio, e ancora la pena apparecchiata a quello, se non fosse che vede che, per lo conoscere, l’uom si guarda di non cadere, e divien più costante contro alle sue tentazioni; e non conoscendolo ancora, e non essendo tanto pienamente informato, quanto bisogno fa a ciascuno che intera contrizion vuole avere, e per conseguente pervenire ben disposto alla confessione, s’ingegna di doverlo far cadere nella ostinazione, acciocchè più avanti non vada a quello che sua salute può essere. E perciocchè negli animi i quali sono in pendulo e spaventati, più leggiermente s’imprime questa maladizione, cioè l’ostinazione, vegnono le tre furie infernali orribili a vedere, e con pianti e con romore, e da loro è chiamato il Gorgone, cioè la ostinazione, cioè per quegli romori s’ingegnano d’occupare con questo vizio il petto dell’autore; ma per l’opera e dimostrazion della ragione ciò non avviene, anzi piuttosto è da lui la sua origine conosciuta, e dimostrata a noi.

Alla qual dimostrazione voler con minor difficultà comprendere, è da vedere chi fossero queste tre furie infernali, i nomi loro e’ loro effetti, secondochè sentirono gli antichi poeti. Furono adunque le furie tre, [p. 285 modifica]e secondochè pare che tutti tengano, furono figliuole d’Acheronte fiume infernale, e della Notte: e che esse fossono figliuole d’Acheronte, il testimonia Teodonzio; e che esse fossero figliuole della Notte, appare per Virgilio, il quale così scrivendo il dimostra:

Dicuntur geminae pestes, cognomine Dirae,
Quas, et tartaream nox intempesta Megaeram
Uno eodemque tulit partu etc.

E secondochè essi vogliono, esse son deputate al servigio di Giove e di Plutone, siccome per Virgilio appare dove scrive:

Hae Jovis ad solium, saevique in limine regis
Apparent, acuuntque metum mortalibus aegris
Si quando lethum horrificum morbosque Deum Rex
Molitur, meritas, aut bello territat urbes etc.

E i loro nomi sono Aletto, Tesifone e Megera, come nel testo dimostra l’autore: e oltre a questi hanno altri più nomi, e massimamente in diversi luoghi, perciocchè chiamate sono cani infernali, siccome per i versi di Lucano si comprende, quando dice:

— — — — Jam vos ego nomine vero
Eliciam, stygiasque canes in luce superna
Destituam etc.

Sono oltre a questo appo noi chiamate furie dallo effetto loro, siccome per Virgilio appare, dove dice:

Huic Dea coeruleis unum de crinibus anguem
Conjicit, inque sinum praecordia ad intima subdit:
Quo furibunda domum monstro permisceat omnem.

[p. 286 modifica]E ancora appo noi son chiamate Eumenìde, siccome ne dimostra Ovidio dicendo:

Eumenides tenuere faces de funere raptas etc.

E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo i superiori iddìi sono appellate Dire, come per Virgilio si può vedere:

At procul ut Dirae stridorem agnovit, et alas,
Infelix crines scindit Juturna solutos etc.

Fu Juturna dea, e questo stridore di queste Dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate uccelli in questi versi:

Jam jam linquo acies: ne me terrete timentem
Obscoenae volucres: alarum gerbera nosco etc.

Oltre a questo dice Teodonzio, queste furie appo coloro, i quali abitano alle marine, esser chiamate Arpie: descrivonle similmente con orribili forme, le quali perciocchè dall’autore descritte in parte sono, lasceremo stare al presente. Attribuiscono oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e spaventevole: e primieramente l’uficio attribuito ad Aletto appare per questi versi di Virgilio:

— — — — cui tristia bella
Iraeque, insidiaeque, et crimina noxia cordi.
Odit, et ipse pater Pluton, odêre sorores
Tartareae monstrum: tot sese vertit in ora:
Tarn saevae facies, tot pullulat atra colubris.

E un poco appresso seguita:

Tu potes unanimes armare in praelia fratres,
Atque odiis versare demos: tu verbera tectis,

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Funereasque inferre faces: tibi nomina mille,
Mille nocendi artes etc.

A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi appare: e prima Virgilio dice di lei:

Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,
Et pavor, et terror, trepidoque insania vultu etc.

A’ quali aggiugne Stazio dicendo:

— — — — suffusa veneno
Tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro
Ore vapor, quo longa sitis, morbique famesque,
Et populi mors una venit etc.

A Megera similmente aspetta quello che per gl’infrascritti versi di Claudiano si può comprendere, dove nel libro primo1 in Rufinum dice:

Quam penes insani fremitus, animique prophanus
Error, et undantes spumis furialibus irae,
Non nisi quaesitum cognata caede cruorem
Illicitumque bibit patrius quem fuderat ensis,
Quem dederint fratres etc.

Ma acciocchè noi possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto così mostruose favole sentissono i poeti; e primieramente quel che volessero dire, queste furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte: della qual cosa pare che questa possa essere la ragione. Pare che sia di necessità, che avendo noi separata la ragione, e seguendo l’appetito, che non avvegnendo le cose secondochè noi desideriamo, ne debba turbazion seguitare, la quale ha a torre da noi, e a [p. 288 modifica]rimuovere allegrezza; la qual perturbazione non sì riceve se non per malvagio giudicio, procedente da animo offuscato da ignoranza: e perseverando la perturbazione, e come il più delle volte avviene, divegnendo per la perseveranza maggiore, convien che proceda ad alcuno atto, siccome quella che continuamente molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sarà di necessità furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può comprender, questo atto furioso essere nato dall’aver cacciata la letizia e la quiete della mente per la turbazion presa, e questo primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto senza allegrezza: e appresso avere la perturbazion ricevuta, essere avvenuto per ignoranza d’animo: e la ignoranza è similissima alla notte e così questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza, avere causata la furia della turbazion seguita: e così si può dire, le furie essere figliuole d’Acheronte e della Notte. Essere queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per l’inferno, attissimamente si può concedere essere stato fatto, perciocchè siccome noi veggiamo, per i loro effetti infinite anime traboccavano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno par da maravigliare, conciosiacosachè Iddio sia in tutto contrario ad esse, come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio, di pace, di mansuetudine e di misericordia; ma intorno a questo si può così dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra di noi; per [p. 289 modifica]la qual cosa esso Iddio, siccome egli dice nell’evangelio, io pagherò il nimico mio col nimico mio, permette a queste furie, quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual cosa per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalità e le guerre vengono sopra di noi: e per questa così fatta permissione si posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo. Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per i nomi di queste furie sentire; e però la prima, la quale è chiamata Aletto, secondochè a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che senza riposo, acciocchè per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia, quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale siccome Fulgenzio medesimo dice, è detta così, quasi dicessimo tritonphones, il che in latino viene a dire voce d’ira, la qual voce d’ira dobbiamo intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme. La terza è chiamata Megera, e secondochè ancora Fulgenzio dice, questo nome vien tanto a dire quanto gran litigio, per lo quale dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose, e piene d’impeti furiosi e di danni inestimabili; e così della perturbazione presa non giustamente seguita o nasce l’inquietudine dell’animo; [p. 290 modifica]e dalla inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni2; e da’ romori si viene nella zuffa, e nelle morti, e nelle guerre e in ostinati odii. Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno, cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, cani; perciocchè pervegnendo ad essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano, o paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente per desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo; e non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente gridando, abbaiano come fanno i cani, i quali contro a’ lor maggiori niuna altra cosa adoperan che l’abbaiare. Appo noi, i quali siamo in mezzo tra ’l cielo e 1’inferno, e perciò si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato, son chiamale furie, e Eumenide; e questo perciocchè esse con più focosa noia intendono il perturbato, in quanto essendo stimolato, perciocchè ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che più di lui vaglia, e però parendogli equivalere, e non potere secondo l’appetito correndo pervenire alla vendetta, tutto in sè si rode; e ultimamente non potendo a tanta passione sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minori fanno, prorompe furioso alle esecuzioni del suo appetito, e le più delle volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire, le furie esser chiamate Eumenide, che tanto viene a dire quanto buone; perciocchè essendo così chiamate per contrario, mai in altro che in male non riescono a [p. 291 modifica]ciascuno che ad esse si lascia sospignere. Sono queste medesime, come detto è, appo gl’iddii, cioè appo gli eccelsi e grandi uomini, chiamate Dire, cioè crudeli, dalla crudeltà la quale essi siccome potenti per ogni menoma perturbazione usano ne’ minori: e sono ancora chiamate uccelli dalla velocità del furore, perciocchè velocissimamente da ogni piccola perturbazione ci commuovono, e fannoci dalla mansuetudine trascorrere nel furore. Arpie son chiamate quasi rapaci; e perciocchè gli uomini di mare, e quegli ancora che alle marine abitano, con tanto fervore prorompono alla preda, che in cosa alcuna da’ superiori discordanti non paiono. Gli ufici loro attribuiti, perciocchè assai per le molte cose dimostrate di loro, e ancora per i versi medesimi che gli descrivono, si possono comprendere, senza altramenti aprirgli trapasseremo; e così ancora gli abiti loro orribili. E possiamo per tante cose comprendere l’animo, nel quale le perturbazioni sono, e per conscguente tanti e sì orribili commovimenti, quanti hanno a suscitare e a conservare, e ancora ad accrescere li mal regolati appetiti, non potere in quello trovare alcun luogo amore, nè carità di Dio o di prossimo, o virtuoso pensiero; e per questo, siccome in luogo freddissimo e terreo, essere ogni attitudine e opportuna disposizione a doversi creare e imprimere il ghiaccio e la durezza dell’ostinazione: e per questo artificiosamente fingere l’autore queste furie gridare, acciocchè in lui, posto nel luogo dove ha la tristizia di Stige e il furor degl’iracundi contemplato, possano col romore loro mettere con paura [p. 292 modifica]perturbazione, acciocchè per gli stimoli di quella recati nell’animo, esso divegna atto a dover ricevere quella impressione, che pare il debba fare perpetuo cittadino d’inferno, cioè l’ostinazione. E quinci descrive l’autore, essendo già la perturbazione venuta per la separazion della ragione, alquanto da lui dilungata per l’andare a parlare, cioè a tentare l’entrata nel luogo degli ostinati, e poi per lo invilimento di quella, per lo non potere avere ottenuto quello che disiderava, che la ostinazione chiamata dalle furie, cioè provocata dalle misere sollecitudini dell’animo suo, veniva: e deonsi queste perturbazioni e sollecitudini intendere, essere quelle che a ciascun peccatore possono intervenire nel mezzo delle meditazioni delle lor colpe, e massimamente quando per falsa estimazione paion loro quelle esser maggiori che la misericordia di Dio, come parve a Caino e a Giuda, e quinci di quella disperandosi, caggiono in ostinazione, e sè medesimi reputando dannati, continuamente di male in peggio adoperando procedono. Ma perciocchè l’autor dice, che questa ostinazione era dalle furie per lo nome di Medusa chiamata, è da vedere quello che per questa Medusa sia da sentire, cioè come s’adatti alla intenzione, lei avere per l’ostinazione piuttosto che alcuna altra cosa chiamata; e primieramente è da vedere quello che favolosamente ne scrivano i poeti, e poi quello che sotto il favoloso parlare abbiano voluto sentire. Scrivono adunque, secondochè Teodonzio afferma, che Forco figliuolo di Nettuno Iddio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole, delle quali la prima fu [p. 293 modifica]chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza Euriale, e tutte e tre furono chiamate Gorgoni: e secodochè testimonia la fama antica, non ebbero tra tutte e tre che uno occhio, il quale vicendevolmente usavano: e come scrive Pomponio Mela nella sua cosmografia, esse signoreggiarono l’isole chiamate Orcade, le quali si dicono essere nel mare oceano etiopico, di rincontro a quegli Etiopi che son cognominati Esperidi: la qual cosa par che testimonii Lucano dove scrive:

Finibus extremis Libyes, ubi fervida tellus
Accipit Oceanum demisso Sole calentem,
Squalebant late Phorcynidos arva Medusae etc.

E dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che chiunque le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la maggiore delle tre, siccome Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre ad ogni altra femmina bella; e intra l’altre cose più ragguardevoli della sua bellezza, dicono essere stati i suoi capelli, i quali non solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro; dallo splendore dei quali preso Nettuno, giacque con lei nel tempio di Minerva; e di questo congiugnimento vogliono nascesse il cavallo nominato Pegaso: ma Minerva turbata della ignominia, nella qual pareva il suo tempio divenuto per questo adulterio, acciocchè non rimanesse impunita, dicono che i capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa, di bellissima femmina divenne una cosa mostruosa. La qual cosa essendo per fama divulgata per tutto, pervenne in Grecia agli orecchi di Perseo, in quei [p. 294 modifica]tempi valoroso e potente giovane; laonde egli a dover questa cosa mostruosa tor via venne di Grecia, là dove Medusa dimorava, e quivi armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa, e con essa se ne ritornò in Grecia. E questo quanto alle fizioni basti, e veggiamo quello che sotto questo voglian sentire coloro che finsono, e poi al nostro proposito il recheremo. Puossi adunque leggiermente concedere queste sorelle essere state figliuole di Forco; ma perchè dette sieno figliuole d’un mostro marino, credo preso fosse dalla loro singular bellezza, l’ammirazion della quale non lasciava credere al vulgo ignorante, lor potere esser nate di femmina come l’altre nascono; ma di questo sia la quistione terminata. Che esse avessero tra tutte e tre solamente un occhio, par che credano Sereno e Teognide, antichissimi istoriografi, per ciò essere detto, perchè esse tutte e tre fossero d’una medesima e ugual bellezza, e per questo fosse un medesimo il giudicio di tutti coloro i quali le riguardavano: altri voglion dire che esse tra tutte e tre avessero un solo regno, e quello vicendevolmente reggessero, e per quello vedessero, cicè valessono. L’esser giaciuta con Nettuno, niuna altra cosa dimostra se non essersi dilettata dell’abbondanza delle cose, e però nel tempio di Minerva, perchè ella mostrò molte lucrative arti, per le quali l’abbondanza diventa maggiore. I crini esser convertiti in serpenti, niuna altra cosa vuole mostrare se non le sustanze temporali, le quali per i capelli si dimostrano, convertirsi in amare e mordaci sollicitudini di coloro che l’hanno; perciocchè temono or [p. 295 modifica]di questa e or di quella cosa ec. Che esse convertissono in sassi coloro i quali le riguardavano, credo essere stato detto, perciocchè tanta e sì grande era la lor bellezza, che come da alcuno veduta era, così diventava stupido e attonito, e quasi mutolo e immobile per maraviglia, non altrimenti che se sasso divenuto fosse. Gorgoni furon chiamate, perciocchè secondochè Teodonzio dice, essendo dopo la morte del padre loro rimase ricchissime, con tanta sollecitudine e avvedimento curarono le cose, nelle quali consistevano le loro ricchezze, le quali il più erano in terre, che dalli loro uomini furono chiamate Gorgoni, il qual nome suona cultrici di terra3. Ma Fulgenzio, il quale intorno alle fizioni poetiche ebbe mirabile e profondo sentimento, par che senta tutto altrimenti; perciocchè egli scrive essere tre generazioni di paura, le quali per i nomi di queste tre sorelle si dimostrano; e primieramente dice, che Steno è interpetrata debilità, cioè principio di paura, il quale solamente debilita l’animo di colui in cui cade. Appresso dice, che Euriale è interpetrata lata profondità, cioè stupore o amenzia, la quale con un profondo timore sparge e disgrega l’animo debilitato. Ultimamente dice, che Medusa significa oblivione, la quale non solamente turba l’avvedimento dell’animo, ma ancora mescola in esso caligine e oscurità. Delle quali cose possiamo al nostro proposito raccogliere, sotto il nome di questa Medusa essere, come di sopra è stato detto, chiamata la ostinazione, in [p. 296 modifica]quanto essa faceva chi la riguardava divenir sasso, cioè gelido e inflessibile. Ma son molti i quali per avventura non s’accorgono quando questo Gorgon riguardano; e però è da sapere che sono alcuni i quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, nelli loro figliuoli, ne’ lor bei palagi, ne’ lor bei giardini, e questi paion loro da dover preporre ad ogni letizia di paradiso: altri tengono l’animo fisso ad i lor cavalli, a’ lor fondachi, alle lor botteghe, a’ lor tesori: altri agli stati e agli onori pubblichi e a simili cose, e non s’accorgono che questo cotal riguardare è riguardare il Gorgone, cioè gli ornamenti terreni, da’ quali e’ traggono quella durezza che gli converte in pietra, la quale è di complessione fredda e secca; per la qual possiamo intendere, questi cotali essere freddi del divino amore e della carità del prossimo; in tanto secchi, in quanto i terren secchi nè ricevono alcun seme, nè fanno alcun frutto. Così adunque divenuti, e caduti nella perseveranza del peccare, quasi della divina misericordia disperandosi, strabocchevolmente si lasciano andare in qualunque colpa, dicendo sè sapere quel che hanno, e non sapere quel che avranno, e che se pure avviene che perdano i beni dell’altra vita, non voler perdere quegli di questa. E puossi dire che a coloro avviene i quali nel furore iracundo trascorrono, in quanto niuno altro giudicio che il loro seguir vogliono; o a coloro i quali oltre ad ogni debito gli animi pongono, i quali smisuratamente procuran d’avere i piaceri delle cose terrene, e tanto in esse s’invescano, che cosa che contro a questo piacer [p. 297 modifica]faccia udir non possono4. E quantunque questo atto furioso non paia, egli è, perciocchè la perturbazione si prende5 dell’animo dalla nostra insaziabilità; e però non avendo nè quello nè tanto quanto vorremmo, ci turbiamo in noi medesimi contro alla fortuna, e spesse volte contro a Dio, che quello non ne concedono di che a noi pare esser degni: e da questa perturbazione nascono gli stimoli, i quali il dì e la notte ne infestano a dovere trovar modo come pervenir possiamo a quello che noi desideriamo: e da questi stimoli nascon le disposizioni, le quali sempre dannose sono; e appresso a questo seguono gli atti e le operazioni, le quali pognamo ad avere quello che bisogno non era: e questi nel giudicio de’ savi uomini, piuttosto da furioso animo che da composta mente procedono: e in questi intanto ci abituiamo, che nè salutevol consiglio nè altro ce ne può rivocare; e così come se veduto avessimo il Gorgone sassei diventiamo, cioè ostinati coltivatori delle terrene cose. Era adunque a questo provocata Medusa, acciocche veduta, cioè ricevuta nella mente dell’autore, lui avesse fatto sasseo divenire, e per conseguente ritenuto in inferno, cioè intorno agli esercizii terreni, e avesse lasciata stare la buona disposizione nella quale era entrato dietro alla ragione per acquistare i frutti celestiali; ma ciò non potè avvenire; [p. 298 modifica]perciocchè la ragione il fece volgere in altra parte, che in quella donde dovea mostrarsi il Gorgone, cioè il fece volgere ad altro studio, che a riguardare le vanità temporali, e a porvi l’animo: il che pregava il Salmista quando diceva, Averte oculos meos, ne videant vanitatem, cioè con affetto riguardino costoro le cose temporali, le quali son tutte vane, come dice l’Ecclesiaste, Vanitas vanitatum, et omnia vanitas. E non solamente fu la ragion contenta d’avergli imposto che con le mani gli occhi chiudesse, ma essa ancora con le sue proprie gliele chiuse. E non dobbiam qui intendere degli occhi corporali, ma delle nostre affezioni mosse e sospinte da due potenze dell’anima, cioè dall’appetito irascibile e dal concupiscibile: questi son da chiuder con le mani, cioè con l’operazioni della ragione, le quali quante volte questi appetiti raffrenerà, e adopereranno che l’uomo più che il dovere non s’adiri o concupisca, tante cesserà che il Gorgone veder non si possa, cioè non si caggia nella ostinazione: e seguita di questo, che a coloro i quali con fermo animo seguitano la ragione, Iddio dovunque lor bisogna manda il suo sussidio, il quale in questo luogo l’autore figura per l’angelo, il quale aperse la porta: ed è questo divino aiuto di tanta virtù e di tanta potenza, che ogni infernale arroganza, i demoni, le furie, il Gorgone, e l’anime de’ dannati, pien di paura e di sbigottimento, impetuosamente gli fuggon davante, lasciando aperta ed espedita la via a dover poter vedere e conoscere ciò, che per la lor salute bisogna a coloro i quali sperano in lui: e quelito credo che sia [p. 299 modifica]quello, al quale vedere l’autore sollecita gl’intelletti sani. Entrando poi dietro alla ragione a discernere distintamente le colpe de’caduti nella ostinazione, e i tormenti dati a quelle, acciocchè da esse cauto divenutone si sappia guardare, e dalla paura del divino giudicio compunto, proceda al sacramento della penitenza, mediante il quale possa alla gloria pervenire. Ma da vedere ne resta quello che esso intenda per lo supplicio dato agli eresiarci. Sono gli eresiarci, siccome assai chiaro si legge nel testo, in sepolture da eterno e cocentissimo fuoco tormentati, nel qual supplicio io intendo disegnarsi l’apparenza in questa vita degli eretici, e la pena loro attribuita nell’altra. Dico adunque che per le sepolture 1’autor vuol dimostrare di questi peccatori l’apparenza in questa vita, acciocchè noi non siam troppo correnti a credere al giudicio degli occhi nostri, il quale essendo spesse volte falso, ne induce o può inducere in parte, della quale o non possiamo uscire, o con difficultà n’usciamo. Possonsi adunque gli eretici simigliare alle sepolture, le quali spessamente sono ornatissime di marmi, d’intagli d’oro, di dipinture e d’altre cose dilettevoli a riguardare, e questo dalle parti esteriori, e poi aprendole, si trovano dentro piene d’ossa e di corpi morti, fetidi e orribili a riguardare, senza senso, senza potenza o virtù alcuna in sè avere: e così gli eretici, veggendo i loro atti esteriori, paiono persone oneste, venerabili, mansueti e divoti, e da dovere essere da ciascun buono uomo desiderata la loro amicizia, e la loro conversazione: ma come il discreto uomo gli apre e riguardagli [p. 300 modifica]dentro, cioè per i ragionamenti loro comprende qual sia il loro stato intrinseco, esso gli trova pieni di perverse e dannabili opinioni, di malvagia dottrina, e d’intendimenti intorno a’ sensi della Scrittura di Dio tanto discordanti alla verità, che assai manifestamente appare, loro esser pieni di cose troppo più abominevoli, che l’ossa o’ corpi de’ morti non sono; perciocchè l’ossa de’ morti, quantunque sieno orribili a riguardare, non possono ad alcuno nuocere; ma il puzzo del veneno delle opinioni degli eretici, è cosa la quale uccide l’anime che dentro a sè il ricevono; e perciò gli eretici sono ne’ loro intrinseci sentimenti, molto più sozzi e più orrìbili ch’e’ sepolcri aperti, e per questo assai convenientemente si possono assomigliare a’ sepolcri: e quinci estimo, perciocchè ne’ sepolcri, a’ quali i lor corpi simiglianti furono, portarono la loro eretica pravità, e quella di quegli traendo seminarono e sparsero, e con esso loro molti stolti nelli loro errori trassono, che l’autore volesse che essi nell’altra vita ne’ sepolcri piagnessero insieme con i loro seguaci. E perciocchè essi le loro false e riprovate opinioni, siccome freddi dell’ardore dello Spirito santo, ostinatamente servarono, credo voglia l’autore, che nel fuoco eterno senza pro’ si riscaldino, e la lor freddezza maturino. Ma potrebbesi qui muovere un dubbio e dir così: e’ pare che l’autor voglia nel canto XI. di questo libro, che dentro alla città di Dite si punisca solamente la bestialità e la malizia; e queste mostra punirsi in diversi cerchi, i quali descrive essere di sotto al luogo, dove allora si ritrova, e passato questo luogo dove gli [p. 301 modifica]eretici son puniti; e di fuori della città mostra punirsi solamentte l’incontinenza; e di questi eretici nona fa in questa discrizione menzione alcuna, e perciò pare che ella sia spezie singulare per sè di peccato: che spezie dunque diremo che questa sia? Al qual dubbio si può così rispondere; la eresia spettare a bestialità, e in quella spezie inchiudersi; perciocchè bestial cosa è, estimare di sè medesimo quello che estimar non si dee, cioè di vedere e di sapere d’alcuna cosa più che non veggono o sanno molti altri, che di tale o di maggiore scienza son dotati; e volere oltre a ciò ostinatamente tenere ferma la sua opinione contro alle vere ragioni dimostrate da altrui: la qual cosa gli eretici sempre feciono e fanno, con tanta durezza di cuore tenendo e difendendo quello che vero credono, che avanti si lascerebbono e lasciano uccidere, che essi di quella si vogliano rimuovere, siccome noi al presente veggiamo in questi, i quali tengono che da Celestino in qua alcun papa stato non sia, de’ quali oltre a seicento, in questa pertinacia perseverando, sono stati arsi; e perciò meritamente reputar si posson bestiali. Ma incontanente da questo surgerà un altro dubbio, e dirà alcuno: se gli eretici son bestiali, perchè non sono essi puniti più giù dove gli altri bestiali si puniscono? E a questo ancora si può rispondere in questa guisa: pare che gli eretici abbiano meno offeso Iddio, che quegli bestiali che più giù puniti sono, e perciò qui e non più giù si puniscono: e che essi abbiano meno offeso Iddio che coloro, pare per questa ragione. Il peccato il quale gli eretici hanno commesso, non è stato [p. 302 modifica]commesso da loro per dovere offendere a Dio, anzi è stato commesso credendosi essi piacere e servire a Dio, in quanto estimavano le loro opinioni dovere essere rimovitrici di quegli errori, i quali pareva loro che non ci lasciavano debitamente sentir di Dio, e per conseguente non ce lo lasciassono debitamente onorare e adorare: là dove i bestiali che più giù si puniscano, desiderarono e sforzaronsi quanto poterono, bestemmiando e maladicendo, d’offendere Iddio, e oltre a ciò, adoperando violentemente e bestialmente contro alle cose di Dio; e però pare, questi cotali debitamente più verso il centro essere puniti, che gli eretici.

FINE DEL TOMO SECONDO

  1. Il Codice dice, de Laudibus Stiliconis.
  2. Obgurgazioni, ha il MS.
  3. Codice legge: cubrici di terra.
  4. Il Codice ha diversaraente disposto questo periodo, e invece dei quattro versi e mezzo sopra notati, non legge che il seguente: o a coloro i quali smisuratamente procuran d’avere. E quantunque questo atto ec.
  5. Questo si prende manca nel MS.