Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Allegorie del sesto capitolo

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Allegorie del sesto capitolo

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Capitolo sesto Capitolo settimo
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ALLEGORIE DEL SESTO CAPITOLO


Al tornar della mente che si chiuse ec.

Nel principio di questo canto, l’autore, siccome di sopra ha fatto negli altri, così continua alle cose seguenti. Mostrogli nel precedente canto la ragione, [p. 115 modifica]come i lussuriosi i quali nell’ira di Dio muoiono sieno dalla divina giustizia puniti, e perciocchè la colpa della gola è più grave che il peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e non e’ converso, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi: a detestazion de’ quali, e acciocchè più agevolmente si comprenda quello che sotto la corteccia letterale è nascoso, alquanto più di lontano cominceremo.

Creò il nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è, e separate l’acque, e quelle, oltre all’universal fonte, per molti fiumi su per la terra divise; e prodotti gli alberi fruttiferi, l’erbe e gli animali, e di quegli riempiute l’acque, l’aere e le selve, tanto fu cortese a’ nostri primi parenti, che non ostante che contro al suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di Paradiso cacciati, tutte le sopraddette cose da lui prodotte sottomise alli lor piedi, siccome dice il Salmista: Omnia subjecisti sub pedihus ejus, oves, et boves, et universa pecora campi, et volucres coeli, et pisces maris, qui perambulant semitas maris: e come queste, così molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di sua spontanea volontà germinante. Per la qual cosa con assai leggier fatica, siccome per molti si crede, per molti secoli si nutricò e visse innociva l’umana generazione dopo ’l diluvio universale, i cibi della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era a’ rozzi popoli non men soave al gusto, che oggi sia a’ golosi di qualunque più [p. 116 modifica]morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e mille spezie di frutti, de’ quali così come spontanei producitori erano gli alberi, così similemente liberalissimi donatori. Erano oltre a ciò le radici dell’erbe, l’erbe medesime piene d’infinito salutevoli non men che dilettevoli sapori: e le domestiche greggi delle pecore, delle capre de’ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne, vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto o di calzolaio: oltre a ciò l’api, sollecito animale, senza alcuna ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mele; e la loro naturale piuttosto che provocata sete saziavano le chiare fonti, e’ ruscelletti argentei, e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime genti le recenti ombre de’ pini, delle querce, degli olmi e degli altri arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan via la noia de’ ghiacci, delle brine, delle nevi e de’ freddi tempi: le spelunche de’ monti, dalle mani della natura fabbricate, da’ venti impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenità del cielo, o i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensier di guerra, di navicazione, di mercatanzia o d’arte gli stimolava; ciascuno era contento in quel luogo finir la vita dove cominciata l’avea. Niuno ornamento appetivano, niuna questione aveano, nè era tra loro bomere, nè falce, nè coltello nè lancia, i loro esercizii erano intorno a’ giuochi pastorali, o in conservar le greggi, delle quali alcun comodo si vedeano. Era in que’ tempi la pudicizia delle femmine salva e onorata: la vita in ciascuna sua parte sobria e [p. 117 modifica]temperata, e senza alcuno aiuto di medico o di medicina sana; l’età de’ giovani robusta e solida, e la vecchiezza de’ lor maggiori venerabile e riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non malizia o falsità alcuna, ma santa e immaculata semplicità ne’petti di tutti abitava perchè meritamente, secondo che i poeti questa età descrivono, aurea si potea chiamare. Ma poichè per suggestion diabolica, siccome io credo, cominciò tacitamente ne cuori d’alcuni ad entrare l’ambizione, e quinci il desiderio di trascendere a più esquisita vita, venne Cerere, la quale appo Eleusina e in Sicilia prima mostrò il lavorio della terra, il ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò d’India il mescolare il vino col mele, e fare i beveraggi più dilicati che 1’usato; e con appetito non sobrio, furono cominciate a gustare le cortecce degli alberi indiani, le radice e i sughi di certe piante, e quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mele i sapori naturali, e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in dispregio le ghiande. Similmente avendo alcuni, in lor danno divenuti ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del mare, e di ritenere ne’ boschi le fiere, e ancora d’ingannare gli uccelli del cielo; furono da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la terra riposatasi lungamente cominciata a fendere, e ’l mare a solcar da’ navilii, e portare d’un luogo in un altro, e recare i viziosi principii, si mutaron con gli esercizii gli animi. E già in gran parte, siccome più atta a ciò, Asia sì per gli artificii di Sardanapalo re degli Assiri, e sì per gli altrui, da questa [p. 118 modifica]dannosa colpa della gola, come l’incendio suol comprender le parti circustanti, così l’Egitto, così la Grecia tutta comprese, in tanto che già non solamente ne’ maggiori, ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ’l vino, e in ogni cosa lasciata l’antica semplicità. Ultimamente sparto già per tutto questo veleno, agl’Italiani similmente pervenne; e credesi che di quello i primi ricevitori fossero i Capovani, perciocchè nè i Quintii Curzii, nè i Fabrizii, nè i Papirii nè gli altri questa ignominia sentivano. E già era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco Magno re d’Asia e di Siria da Scipione Asiatico, quando primieramente il lavorare divenne di mestiere arte. E intra ’l mestiere e l’arte è questa differenza, che il mestiere è uno esercizio, nel quale niuna opera manuale che dall’ingegno proceda s’adopera, siccome è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non fa altro che dare danari per denari: o come era in Roma il cuocere a’ tempi che io dico, ne’ quali si mettea la carne nella caldaia, e quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigii, faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a poterla rompere e tritar co’ denti. Arte è quella intorno alla quale non solamente l’opera manuale, ma ancora l’ingegno e 1’industria dell’artefice s’adopera, siccome è il comporre una statua, dove a dovere proporzionarla debitamente si fatica molto l’ingegno; e sì come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi si richiede l’artificio del cuoco, in fare che quel che si cuoce sia saporito, sia odorifero, sia bello all’occhio, [p. 119 modifica]non abbia alcun sapore noioso al gusto, come sarebbe, o troppo salato, o troppo acetoso, o troppo forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di fritto, o di sapor simile, del quale il gusto è schifo. Era adunque al tempo di sopra detto mestiere ancora il cuocere in Roma, in che appare la modestia e la sobrietà loro; ma poichè le ricchezze e’ costumi asiatichi v’entrarono, con grandissimo danno dell’imperio, di mestiere arte divenne; essendone, secondochè alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si sparse per tutto, acciocchè i membri dal capo non fosser diversi; e non che le ghiande, e’ salvatichi pomi e l’erbe, o le fontane e’ rivi fossero in dispregio avute, ma e’ furono ancora poco prezzati i familiari irritamenti della gola; e per tutto si mandava per gli uccelli, per le cacciagioni, per i pesci strani, e quanto più venien di lontano, tanto di quegli pareva più prezzato il sapore. Nè fu assai a’ golosi miseri l’avere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle cose le quali dovevano poter dilettare la gola, ed empiere il ventre misero, ma diedono e danno opera, che nelle cose le quali sè e’ loro deono corrompere fossero gli odori arabici, acciocchè confortato il naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero più forte all’ingiurie de’ vapori surgenti dallo stomaco, e l’appetito più fervente al desiderio del consumare. Nè furono ancora contenti a’ cibi, ma dove l’acqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti modi d’accenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie di vini hanno trovate; e non bastando i sapor varii che la varietà [p. 120 modifica]de’ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie gli trasformano in varie spezie di sapori e di colori. E acciocchè più lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno introdotto, che ne’ triclinii, nelle sale, alle mense sieno intromessi i cantatori, i sonatori, e’ trastullatori e’ buffoni; e oltre a ciò mille maniere di confabulazioni ne’ lor conviti, acciocchè la sete non cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno si ragiona, come Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo della luna, della varietà degli elementi; e da questi subitamente si trasva alle spezie de’ beveraggi che usano gl’Indiani, alle qualità de’ vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore de’ galli, alla soavità de’ cretici; nè passa intera alcuna novelletta di queste, che rinfrescare i vini e’ vasi non si comandi. Ed è tanto questa maladizione di secolo in secolo, d’età in età perseverata e discesa, che infino a’ nostri tempi, con molte maggior forze che ne’ passati, è pervenuta; e secondo il mio giudicio, dove che ella abbia molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella con più fervore eserciti stimoli e vinca gli appetiti che ella fa appo i Toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel tempo presente, con dolore il dico: e se l’autore non avesse solamente Ciacco nostro cittadino, esser dannato per questo vituperevol vizio, nominato, forse senza alcuna cosa dire de’ nostri esecrabili costumi mi passerei: questo adunque mi trae a dimostrare la nostra dannosa colpa, acciocchè coloro i quali credono che dentro a’ [p. 121 modifica]luoghi riposti delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco insieme e con gli altri s’avveggano e arrossino della disonestà la quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma pure alcuna cosa ne dirò. È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a me ne paia, l’eccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa, nè nelle cose pubbliche nè nelle private, che a mangiare o a bere non riesca. In questo i denari pubblici sono dagli uficiali pubblici trangugiati, 1’estorsioni dell’arti, e ne’ sindacati il mobile de’ debitori dovuto alle vedove e a’ pupilli; le limosine lasciate a’ poveri e alle fraternite, l’esecuzioni testamentarie, le quistioni arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici, ma i religiosi divorano. E questo miserabile atto non ci si fa come tra cittadino e cittadino far si soeca, anzi è tanto d’ogni convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense pontificiali, gli splendori imperiali son da noi stati lasciati a dietro; nè ad alcuna quantunque grande spesa, quantunque disutile, quantunque superflua sia si riguarda, ogni modo, ogni misura, ogni convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi ne’ nostri conviti le confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini non d’una ma di molte maniere; e son di quegli che, senza vergogna, d’oro velano il color delle carni, con vigilante cura e con industrioso artificio cotte. Lascio stare gl’intramessi, il numero delle vivande, i savori di sapori e di colori diversissimi, e le importabili some de’ [p. 122 modifica]taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante e tali, che non dico i servidor che le portano, ma le mense, sopra le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Nè è penna che stanca non fosse volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagie, le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi descrivere. E or volesse Iddio, che solo a’ principi della città questo inconveniente avvenisse, ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta, che coloro ancora, i quali e la nazione e lo stato ha fatti minori, queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da ciò, appetiscono e vogliono come maggiori. In queste così oneste e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri s’empiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vuole riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono intollerabili, i savii bestiali; per le quali cose vi si tumultua, millantavisi, dicevisi male d’ogni uomo e di Dio; e talvolta non potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia il cane, sozzamente si vota quello che ingordamente s’è insaccato. E in queste medesime così laudevoli cene, s’ordina e solida lo stato della repubblica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi l’opportunità cittadine, e i fatti delle slngulari persone, ma il come, nel giudicio de’ savii rimanga. In queste si condanna e assolve, cui il vino conforta, o cui l’ampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro a’ quali i preghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o avvocati, le [p. 123 modifica]più delle volte ottengono nelle loro bisogne. Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli da esso molto offeso sia. Ma che che esso alle misere anime s’apparecchi nell’altra vita, è assai manifesto lui a’ corpi essere assai nocivo nella presente: perciocchè se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro che l’usano, essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo, e innanzi tempo divenir vecchi; perciocchè il molto cibo vince le forze dello stomaco, iniantochè non potendo cuocere ciò che dentro cacciato v’è per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto, convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi, tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan le giunture, creano le podagre, fanno l’uom paralitico, fanno gli occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano di cattivo colore, le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il fiato o debile o fetido senzachè essi, e meritamente, senza modo tormentano il fianco di questi miseri che nel divorar si dilettano. Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano, urlano e abbaiano come cani. Così adunque la rozza sobrietà, la rustica simplicità, la santa onestà degli antichi, le ghiande, le fontane, gli esercizii e la libera vita è permutata in così dissoluta ingluve ebrietà e tumultuosa miseria, come è dimostrato; e perchè possiam comprendere, l’autore sentitamente [p. 124 modifica]aver detto, la dannosa colpa della gola. La quale ancora più dannosa cognosceremo, se guarderemo e a’ pubblici danni e a’ privati, de’ quali ella è per lo passato stata cagione. I primi nostri padri, siccome noi leggiamo nel principio del Genesi, gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo furon cacciati del Paradiso, e noi con loro insieme; e oltre a ciò, per questo a sè e a noi procuraron la temporal morte e l’eterna, se Cristo stato non fosse. Esaù per la ghiottornia delle lenti, le quali tornando da cacciare vide a Jacob suo fratello, perdè la sua primogenitura. Jonata figliuolo di Saul re, per l’avere con la sommità d’una verga, la quale aveva in mano, gustato d’un fiaro di mele, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi sacerdoti per avere gustati i sacrificii della mensa di Bel, furono il dì seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nell’Evangelio, il quale continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in inferno. Come i Troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in far festa, così furon da’ Greci presi; e quel che l’arme e l’assedio sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ’1 vino d’una cena. I figliuoli di Job mangiando e bevendo con le lor sorelle, furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta gente d’Annibale, la quale nè il lungo cammino, nè i freddi dell’Alpi, nè l’armi de’ Romani non avean mai potuto vincere, da’ cibi e dal vino de’ Capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi. Noè avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo da Cam suo figliuolo [p. 125 modifica]veduto disonestamente dormire e ischernito. Lot per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole recato a giacer con loro. Sisara bevuto il latte di mano di Jael, e addormentatosi, fu da lei con uno aguto fittogli per le tempie ucciso. Leonida Spartano ebbe tutta una notte, e parte del seguente dì, spazio di uccidere e di tagliare insieme co suoi compagni l’esercito di Serse seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne avendo molto bevuto, diede ampissimo spazio d’uccidersi a Giudìt. E le figliuole di Prito re degli Argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta bestialità, che esse stimavano d’esser vacche. Ma perchè mi fatico io tanto in descrivere i mali per la gola stati, conciosiacosachè io conosca quegli essere infiniti? E perciò riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si puote per le cose predette, tre maniere son di golosi, delli quali l’una pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi senza saziarsi; e questi sono simili alle bestie, le quali senza intermissione, sol che essi trovino, che il dì e la notte rodono; e di questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di golosità, madre di oziosità e di pigrizia, siccome quella che ad altro che al ventre non serve. La seconda pecca nel disordinato diletto del bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i dilicati e saporosi vini, ma quegli ogni misura passando ingurgitano, non avendo riguardo a quello che contro a questo nel libro della Sapienza ammaestrati siamo nel quale si legge; Ne intuearis [p. 126 modifica]vinum, cum stavescit in vitro color ejus: ingreditur blande, et in novissimo mordebit, ut coluber. Per la qual cosa di questa così fatta spezie di golosi maravigliandosi Job dice: Numquid potest quis gustare, quod gustatum affert mortem? Nè è dubbio alcuno la ebrietà essere stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato. È questa golosità madre della lussuria, come assai chiaramente testifica Jeremia dicendo: venter mero aestuans, facile despumat in libidinem, E Salomon dice: luxuriosa res est vinum, et tumultuosa ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens. E san Paolo volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente ammaestrandoci dice: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria. È ancora questa spezie di golosità pericolosissima inquanto ella, poichè è il bevitore privato d’ogni razional sentimento, apre, e manifesta, e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana; di che grandissimi e innumerabili mali già son seguiti e seguiscono tutto il dì. Ella è prodiga gittatrice de’ suoi beni e degli altrui, sorda alle riprensioni, e d’ogni laudabile costume guastatrice. La terza maniera de’ golosi, i quali in ciascheduna delle predette cose fuori d’ogni misura bevendo, e mangiando e agognando, trapassano il segno della ragione, de’ quali sì può dire quella parola di Job, bibunt indignationem, quasi aquam; ma secondochè si legge nel salmo: amara erit potio bibentibus illam: e come Seneca a Lucillo scrive nella XXIV. Epistola: Ipsae voluptates in tor mentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; [p. 127 modifica]ebrietates, nervorum torporem, tremoremque, libidines, pedum, manuum, et articulorum omnium depravationes etc. Questi adunque tutti ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e ad udire, uomini anzi bestie, pieni di vane speranze, son voti di pensieri laudevoli, e strabocchevoli ne’ pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanze temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine, e trastullo de’ sobrii: e perciocchè ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma sè medesimi guastano, non solamente a’ sensati uomini, ma ancora a Dio sono tanto odiosi, che morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione son giustamente dannati; e secondochè l’autor ne dimostra, nel terzo cerchio dell’inferno, della loro scellerata vita sono sotto debito supplicio puniti. li quale, acciocchè possiamo discernere più chiaro come sia con la colpa conforme, n’è di necessità di dimostrare brevemente. Dice adunque l’autore, che essi giacciono sopra il suolo della terra marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che il porco giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso grandine grossa, e acqua tinta e neve, la quale essendo loro cagione di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani: e oltre a ciò se alcuno da giacer si leva o parla, giace poi senza parlare o urlare infino al dì del giudicio. E oltre a ciò sta loro in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre teste e altrettante gole, nè mai ristà [p. 128 modifica]d’abbaiare; e ha questo demonio gli occhi rossi e la barba nera e unta, e il venire largo, e le mani unghiate, e oltre all’abbaiare, graffia, e squarcia e morde i miseri dannati, i quali udendo il suo continuo abbaiare desiderano d’essere sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la dìvina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come essi oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero in riposo del cibo ingluviosamente preso, così pare convenirsi, che contro a loro voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi giacciano in eterno distesi; con loro spesso volgersi testificando i dolorosi movimenti, i quali per lo soperchio cibo, già di diverse torsioni loro furon cagione; e come essi di diversi liquori e di varii vini il misero gusto appagarono, così qui sieno da varie qualità di piova percossi ed afflitti; intendendo per la grandine grossa che gli percuote, la crudità degl’indigesti cibi, la quale per non potere essi per lo soperchio dallo stomaco esser cotti, generò ne’ miseri l’aggroppamento de’ nervi nelle giunture; e per l’acqua tinta non solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio de’ quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe, per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo versarono: e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati; e così come essi non furono contenti solamente alle dilicate vivande, nè a’favorosi vini, nè eziandio a’ falsamenti spesso escitanti il [p. 129 modifica]pigro e addormentato appetito, ma gli vollono dall’indiane spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia, che essi sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano in luogo delle mense splendide il fastidioso letto che l’autore descrive. E appresso, come essi furono detrattatori, millantatori e maldicenti, così siano a perpetua taciturnità costretti, fuor solamente di tanto, che come essi con gli stomachi traboccanti, e con le teste fummanti, non altrimenti che cani abbaiar soleano, così urlando come cani la loro angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a disegnare il peccato della gola, acciocchè la memoria e il rimprovero di quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e in luogo della dolcezza de’ canti, i quali ne’ lor conviti usavano, abbiano il terribile suono delle sue gole, il quale gl’intuoni, e senza pro’ gli faccia desiderar d’esser sordi. Ma resta a vedere quello che l’autore voglia intendere per Cerbero, la qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta è stato detto, fu cane di Plutone re d’inferno, e guardiano della porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi voleva, ma uscire alcuno non lasciava. Ma qui, come detto è, l’autore discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento assai bene si conforma l’etimologia del nome: vuole, secondochè piace ad alcuni, tanto dir Cerbero, quanto creon voras, cioè divorator di carne; intorno alla qual cosa, come più volte è detto di sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e perciò in questo dimonio più che in alcuno altro il figura, [p. 130 modifica]perchè egli è detto cane, perciocchè ogni cane naturalmente è goloso, nè n’è alcuno, che se trovo à da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto, che gli convien venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i golosi. Per le tre gole canine di questo cane, intende l’autore le tre spezie de’ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio caninamente latrare, vuole esprimere l’uno de’ due costumi, o amenduni de’ golosi: sono i golosi generalmente tutti gran favellatori, e ’l più in male, e massimamente quando sono ripieni, il quale atto si può dire latrar canino, in quanto non espediscon bene le parole, per la lingua ingrossata per lo cibo; e ancora perchè alquanto rochi sono per lo meato della voce, il più delle volte impedito da troppa umidità: e oltre a ciò, perciocchè i cani, se non è, o per esser battuti, o perchè veggion cosa che non par loro amica, non latran mai, il che avviene spesse volte ad i golosi, i quali come sentono, o che impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che essi aspettano di mangiare, incontanente mormorano e latrano: e oltre a questo sono i golosi grandi agognatori, e come il cane guarda sempre più all’osso che rode il compagno, che a quello che esso medesimo divora, così i golosi tengono non meno gli occhi a’ ghiotti bocconi che mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a quello il quale ha in bocca: e così sono addomandatori e ordinatori di mangee, e divisatori di quelle. E in quanto dice, questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol s’intenda un degli effetti della gola ne’ golosi, a’ quali [p. 131 modifica]per soperchio bere, i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano umori nella testa, i quali poi per gli occhi distillandosi, quelli fa divenire rossi e lagrimosi. Appresso dice, lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto mangiare non si possa fare senza difficultà nettamente, e così non potendosi, è di necessita ugnersi la barba, o ’l mento o ’l petto; e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo demonio sia nera, perciocchè il più ogni unzione annerisce i peli, fuor che i canuti. Potrebbesi ancora qui più sottilmente intendere e dire, che conciosiacosachè per la barba s’intenda la nostra virilità, la quale quantunque per la barba s’intenda, non perciò consiste in essa, ma nel vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto l’uomo virtuosamente adopera, e allora rende gli operatori chiari, e splendidi e degni d’onore; dove qui per la virilità divenuta nera, vuole l’autor s’intenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta malvagia. Dice oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il molto divorar de’ golosi, i quali con la quantità grande del cibo, per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla natura sua; e che è ancora molto più biasimevole, tanto talvolta dentro vi cacciano, che non sostenendolo la grandezza del tristo sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a gittar fuori. E in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuol che s’intenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande; e oltre a questo il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che più [p. 132 modifica]che alcuna altra gli piaccia. Appresso dove l’autor dice, questo demonio non tener fermo alcun membro, vuol che s’intenda la infermità paraletica, la quale ne’ golosi si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco: o secondochè alcuni altri vogliono, ne’ bevitori per lo molto bere, e massimamente senz’acqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare gl’incomposti movimenti dell’ebbro. Oltre a ciò, la dove l’autore scrive, che questo demonio come gli vide aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol descrivere un altro costume de’ golosi, i quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza de’ golosi, la quale consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por non si puote, se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o bere; la qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per non avere a litigar della verità con così fatta gente, fa prestamente, volendo piuttosto gittar via quello che al ghiotto concede, che, come è detto, porsi in novelle con lui; perciocchè come questo è dal savio uomo fatto, così è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio: e in questo pare, che si termini in questo canto l’allegoria.