Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Capitolo ottavo

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Capitolo ottavo

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CAPITOLO OTTAVO


Io dico seguitando, ch’assai prima ec.

Continuasi l’autore in questo canto alle cose precedenti in questa forma, che avendo nella fine del precedente canto mostrato, come alquanto aggirata della palude di Stige pervenissero a pie d’una torre; nel principio di questo dimostra quello che avanti al piè della torre pervenissero vedessero, descrivendo poi quella che di ciò che videro seguisse: e intende l’autore dimostrare in questo, come trasportati da Flegias dimonio [p. 217 modifica]per nave, pervenissero alla porta della città dì Dite. E dividesi il presente canto in quattro parti; nella prima dimostra l’autore, come vedute certe fiamme sopra due torri, distanti l’una all’altra, un demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella Virgilio ed esso discendessero: nella seconda descrive l’autore ciò che navicando per la palude udisse, d’uno spirito chiamato Filippo Argenti: nella terza mostra, come nel fosso della citta di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero: nella quarta pone la raccolta fatta loro da’ demoni, che sopra la porta o all’entrata della porta erano; e come avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a luì se ne tornasse, e quel che dicesse: la seconda comincia quivi: Mentre noi correvam: la terza quivi: Quivi il lasciammo: la quarta quivi: Non senza prima far: dice adunque nella prima: Io dico seguitando, nelle quali parole si può alcuna ammirazion prendere, in quanto senza dirlo puote ogn’uomo comprendere, esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sì ancora che per insino a qui non ha alcuna altra volta usato questo modo di continuarsi alle cose predette; e perciò, acciocchè questa ammirazion si tolga via, è da sapere, che Dante ebbe una sua sorella, la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il quale di lei ebbe più figliuoli, tra’ quali ne fu uno di più tempo che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della persona, e così andava un [p. 218 modifica]poco gobbo, come Dante si dice che facea, e fu uomo idioto, ma d’assai buon sentimento naturale, e ne’ suoi ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; dal quale, essendo io suo dimestico divenuto, lo udii più volte de’ costumi e de’ modi di Dante: ma tra l’altre cose che più mi piacque di riservare nella memoria, fu ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in parole. Diceva adunque, che essendo Dante della setta di messer Vieri de’ Cerchi, e in quella quasi uno de’ maggiori caporali, avvenne che partendosi messer Vieri di Firenze, con molti degli altri suoi seguaci, esso medesimo si partì e andossene a Verona: appresso la qual partita, per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun suo altro che partito s’era, e massimamente de’ principali della setta, furon condennati siccome ribelli, nell’avere e nella persona, e tra questi fu Dante: per la qual cosa seguì, che alle case di tutti fu corso a remore di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. E vero che temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma, per consiglio d’alcuni amici e parenti aveva fatti trarre della casa alcuni forzieri con certe cose più care, e con iscritture di Dante, e fattigli porre in salvo luogo: e oltre a questo, non essendo bastato l’aver le case rubate, similmente i parziali più possenti occuparono chi una possessione e chi un’altra di que’ condennati; e così furono occupate quelle di Dante: ma poi passati ben cinque anni o più, essendo la città venuta a più convenevole reggimento, che quello non era quando Dante fu condennato, dice [p. 219 modifica]le persone cominciarono a domandare loro ragioni, chi con un titolo e chi con un altro, sopra i beni stati de’ ribelli, ed erano uditi; perchè fu consigliata la donna, che ella almeno con le ragioni della dota sua dovesse de’ beni di Dante raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno certi strumenti e scritture, le quali erano in alcun forzieri, i quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire, nè poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo ove disposti gli aveva: per la qual cosa, diceva questo Andrea, che essa aveva fatto chiamar lui, siccome nepote di Dante, e fidategli le chiavi de’ forzieri, l’aveva mandato con un procuratore a dover cercare delle scritture opportune: delle quali mentre il procurator cercava, dice, che avendovi più altre scritture di Dante, tra esse erano più sonetti e canzone e simili cose: ma tra l’altre che più gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però presolo, e recatosenelo, e una volta e altra rilettolo, quantunque poco ne intendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa; e però diliberò di dovergli portare, per sapere quel che fossono, ad un valente uomo della nostra città, il quale in que’ tempi era famosissimo dicitore in rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a più suoi amici fatta copia, conoscendo l’opera piuttosto iniziata che compiuta, pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che seguitando il suo proponimento vi desse fine. E [p. 220 modifica]avendo investigato e trovato che Dante era in quel tempi in Lunigiana con uno nobile uomo de’ Malespini, chiamato il marchese Moruello, il quale era uomo intendente, e in singularità suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al marchese, che gliele manifestasse e mostrasse, e così fece, pregandolo che in quanto potesse, desse opera che Dante continuasse la impresa, e se potesse la finisse. Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e avendo avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare l’impresa, al qual dicono che Dante rispose: io estimava veramente che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero nel tempo che rubata mi fu la casa perduti, e però del tutto n’avea l’animo e ’l pensier levato: ma poichè a Dio è piaciuto che perduti non sieno, ed hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare la bisogna, secondo la mia disposizione prima; e quinci rientrato nel pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo principio del canto ottavo, Io dico seguitando, alle cose lungamente intralasciate. Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa mutarne, mi raccontò già un ser Dino Perini, nostro cittadino e intendente uomo, e secondochè esso diceva, stato quanto più esser potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso diceva, non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale la donna avea mandato a’ forzieri per le scritture, e che avea trovati questi sette canti, e [p. 221 modifica]portatigli a Dino di messer Lambertuccio: non so a quale io mi debba più fede prestare, ma qual che di questi due si dica il vero o no, mi occorre nelle parole loro un dubbio, il quale io non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia: e il dubbio è questo. Introduce nel sesto canto l’autore Ciacco, e fagli predire, come avanti che il terzo anno dal dì che egli dice finisca, convien che gaggia dello stato suo la setta, della quale era Dante, il che così avvenne; perciocchè come detto è, il perdere lo stato la setta bianca, e il partirsi di Firenze fu tutto uno; e però se l’autore si partì all’ora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? E non solamente questo, ma un canto più. Certa cosa è, che Dante non avea spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere: e a me pare esser molto certo, che egli scrisse ciò che Ciacco disse poichè fu avvenuto: e però mal si conformano le parole di costoro con quello che mostra essere stato. Se forse alcun volesse dire, l’autore dopo la partita de’ bianchi esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non si confà bene con la risposta fatta dall’autore al marchese, nella qual dice, sè aver creduto questi canti con le altre sue cose essere stati perduti, quando rubata gli fu la casa; e il dire l’autore aver potuto aggiugnere al sesto canto poichè gli riebbe, le parole le quali fa a dire a Ciacco, non si puon sostenere, se quello è vero che per i due superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio n’avesse data copia a più suoi amici; perciocchè pur n’apparirebbe [p. 222 modifica]alcuna delle copie senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole alcuna memoria ne sarebbe. Ora come questa cosa si sia avvenuta o potuta avvenire, lascerò nel giudicio de’ lettori, ciascuno ne creda quello che più vero o più verisimile gli pare.

Tornando adunque al testo dice, Io dico seguitando, alle cose predette, ch’assai prima, Che noi, cioè Virgilio e io, fossimo appiè dell’alta torre, alla quale nella fine del precedente canto scrive e che pervennero, Gli occhi nostri n’andar, riguardando, suso alla cima, cioè alla sommità della torre predetta: e appresso dimostra la cagione, perchè gli occhi verso la cima levarono, dicendo, Per due fiammette, cioè piccole fiamme, che vedemmo porre, in su quella sommità della torre. E un’altra, fiamma, di lungi, da questa torre, render cenno, siccome far si suole per le contrade nelle quali è guerra, che avvenendo di notte alcuna novità, il castello o il luogo vicino, al quale la novità avviene, incontanente per un fuoco o per due, secondochè insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e ville del paese; e dice che questo cenno d’una fiamma fu renduto di lontano,

Tanto, ch’a pena il potea l’occhio torre,

cioè discernere altro: ma pure poichè tolto l’ebbe, dice: Ed io mi volsi al mar, cioè all’abbondanza, di tutto il senno, cioè a Virgilio, del quale nel principio del canto precedente dice,

E quel savio gentil, che tutto seppe:

e seguitai, Dissi: questo, che dice? cioè che [p. 223 modifica]significa il fuoco, il quale è qui sopra di noi, fatto in questa torre? e che risponde Quell’altro fuoco? il quale io veggio fare sopra la torre, la quale n’è lontana, e chi son que’ che ’l fenno? questo ch’è sopra noi, e quello ancora che n’è più rimoto.

Ed egli a me: su per le sucide onde,

di Stige, le quali chiama sucide, perchè nere e brutte erano, Già puoi scorger, cioè di lontan vedere, quello che s’aspetta, di dovere avvenire per questo fuoco e per quello, Se ’l fummo, cioè la nebbia, del pantan nol ti nasconde, perciocchè la nebbia dove non si dirada, ha a tor la vista delle cose, alle quali ella è davanti, e mezza tra esse e l’occhio del riguardante. E questo avendo Virgilio risposto, seguita l’autore, e dimostra quello che seguì de’ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo, Corda, d’alcun arco, non pinse mai da sè saetta, Che sì corresse, cioè volasse, via per l’aer snella, cioè leggiere,

Com’io vidi una nave piccioletta,

Venir per l’acqua, della palude, verso noi in quella, che Virgilio diceva, già puoi scorgere ec.

Sotto il governo d’un sol galeoto.

Galeotti son chiamati que’ marinari, i quali servono alle galee; ma qui, licenza poetica, nomina galeotto il governatore d’una piccola barchetta; e dice, che questo galeotto,

Che gridava: or se’ giunta, anima fella,

cioè malvagia; e come assai appare, l’autore in questo quinto cerchio non ha ancor mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento [p. 224 modifica]de’ dannati in esso, nè che con alcuno atto lo spaventi, come suol fare ne’ cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo: e questo è artificiosamente fatto, perciocchè non sempre d’una medesima cosa si dee in un medesimo modo parlare: ponlo adunque, per variare alquanto il modo del dimostrare, qui infra ’l cerchio, perciocchè tutto è del quinto cerchio ciò che si contiene infino all’entrata della città di Dite. E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare, par che sien dirizzate dal demonio, pure all’un di lor due, cioè a Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere, questo demonio avere da occulta virtù sentito, l’autore non venir come dannato, e però lui non avere in esso alcuna potestà; ma esso gridar contro a Virgilio, acciocchè l’autore spaventasse, e spaventandolo, il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere le colpe de’ peccatori e i tormenti dati a quelle; acciocchè per lo conoscer delle colpe, apparasse quello che era da fuggire, e per la pena prendesse timore, e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa caduto fosse. Al qual demonio così gridante disse Virgilio: Flegias, Flegias, era questo il proprio nome del demonio che la nave menava, il quale Virgilio quasi dirisivamente due volte nomina, seguitando, tu gridi a voto, cioè per niente, Disse lo mio signore, e poi soggiugne la cagione, per la quale Flegias grida a voto dicendo, a questa volta, che qui se’ venuto, Più non ci avrai, che tu t’avessi, se non passando il loto, cioè il padule pieno di loto. E [p. 225 modifica]questo detto, dimostra quello che a Fleglas paresse, queste parole udendo e credendole, e dice:

Quale è colui che grande inganno ascolta,

Che gli sia fatto, che prima si turba, e poi se ne rammarca, con gli amici e con altrui,

Tal si fe’ Flegïas nell’ira accolta,

parendogli essere ingannato in ciò, che alcun di lor due non dovesse rimanere, e che esso invano passasse il loto, che forse mai più avvenuto non gli era. E avanti che più si proceda, è da sapere che, secondoche scrive Lattanzio, in libro Divinarum, institutionum, questo Flegias fu figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante, e fastidioso contro agl’iddii: ebbe questo Flegias, secondochè Servio dice, due figliuoli, Issione e una Ninfa chiamata Coronide, la quale essendo bellissima, piacque ad Apolline, iddio della medicina, di che seguì che Apolline giacque con lei, e ingravidolla, ed essa poi partorì un figliuolo, il quale fu chiamato Esculapio; la qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfo, e quivi mise fuoco nel tempio d’Apolline, il quale a que’ tempi dall’error de’ gentili era in somma reverenza e divozione quasi di tutto il mondo; perciocchè quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne sue concorreva: e fu questo tempio arso da Flegias, secondochè scrive Eusebio in libro Temporum, l’anno 23 di Danao re degli Argivi, il quale fu l’anno della creazione del mondo 3752. E oltre a questo scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale [p. 226 modifica]perciocchè vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la creatura, già perfetta, del ventre e allevata; e questi che così eran tratti de’ ventri delle madri eran consegrati ad Apolline, in quanto per beneficio della sua deità, cioè dell’arte della medicina, erano in vita tratti. Scrivono oltre a ciò i poeti, che Apolline essendo turbato di ciò, che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò, e mandonne l’anima sua in inferno, e condannolla a questa pena, che egli stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il quale parea che ogn’ora gli dovesse cadere addosso, di che egli sempre stava in paura: e di lui scrive Virgilio nel sesto dell’Eneida:

— — — — Phlegyasque miserrimus omnis
Admonet, et magna testatur voce per umbras:
Discite justitiam moniti, et non temniere divos etc.

lo duca mio: poichè l’autore ha dimostrato, Flegias essersi turbato del non dovere acquistar più che sol passando il loto, ed egli scrive come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias, perchè comprender si può, che altra via non v’era da potere più avanti procedere, senza valicar per nave il palude, e dice, discese nella barca, E poi mi fece entrare, nella barca, appresso lui,

E sol quando fu’ dentro parve carca,

in che assai ben si comprende, che lo spirito non è d’alcun peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da Virgilio, dove dice nel sesto dell’Eneida, come Enea trapassò per nave Acheronte dicendo così: [p. 227 modifica]

— — — — simul accipit alveo
Ingentem Æneam: gemuit sub pondero cymba
Sutilis, et multam accepit rimosa paludem etc.

poi segue l’autore:

Tosto che ’l duca ed io nel legno fui,

cioè nella barca: e usa qui l’autore il general nome delle navi per lo speziale, perciocchè generalmente ogni vasello da navicare è chiamato legno, quantunque non s’usi se non nelle gran navi, Segando se ne va, dice segando, in quanto come la sega divide il legname in due parti, così la nave, andando per l’acqua sospinta da’ remi o dal vento, par che seghi, cioè divida l’acqua, l’antica prora, antica la chiama, perciocchè per molti secoli ha fatto quello uficio; prora la chiama, ponendo la parte per lo tutto, perciocchè ogni nave ha tre parti principali, delle quali l’una si chiama prora, quantunque per volgare sia chiamata proda da’ navicanti, e questa è stretta e aguta, perciocchè è quella parte che va davanti che ha a fender l’acqua: l’altra parte si chiama poppa, e questa è quella parte che viene di dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo de’ timoni, i quali in quella parte, l’uno dal lato destro e 1’altro dal sinistro son posti; per i quali, secondochè mossi sono, la nave va verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama carena, e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la poppa e la proda. Seguita che questa antica proda, per lo disusato carico, sega, Dell’acqua, del palude, più che non suol con altrui, cioè con gli spiriti, i quali in essa sogliono esser portati da Flegias. Mentre noi [p. 228 modifica]corravam. Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore fa quattro cose: primieramente dimostra, come un pien di fango fuori dell’ acqua del palude gli si dimostra: appresso scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in dispregio il fangoso che gli si dimostrò: oltre a ciò pone, come quel fangoso fosse lacerato dall’altre anime de’ dannati che quivi erano: ultimamente descrive, come ne’ fossi venissono della città di Dite. La seconda comincia quivi: Lo collo poi, La terza quivi: Ed io: maestro. La quarta quivi: Lo buon maestro. Dice adunque nella prima parte, Mentre noi corravam, cioè velocemente navicavamo, la morta gora, gora è una parte d’acqua tratta per forza del vero corso d’alcun fiume, e menata ad alcun mulino o altro servigio, il quale fornito si ritorna nel fiume onde era stata tratta; per lo qual nome l’autore nomina qui, licenza poetica, il palude per lo quale navicava; e per dar più certo intendimento che di quello dica, cognomina questa gora morta, cioè non moventesi con alcun corso, siccome i paludi fanno: Dinanzi mi si fece, uscendo dell’acqua del palude, un pien di fango, un’anima d’un peccatore,

E disse: chi se’ tu, che vieni anzi ora?

cioè anzi che tu sia morto? Ed io a lui, risposi: s’io vengo, non rimango; perciocchè io non son dannato, e uscirò di qui per altra via: Ma tu, che domandi, chi se’, che sì se’ fatto brutto? dal fango il quale hai addosso. Rispose: quella anima: vedi che son un che piango: risposta veramente d’uomo [p. 229 modifica]stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non rispondere se non per rintronico.

Ed io a lui: con piangere, e con lutto,

pongono i gramatici essere diverse significazioni a diversi vocaboli i quali significan pianto; dicon primieramente, che flere, il quale per volgare noi diciam piagnere, fa l’uomo quando piagne versando abbondantissime lagrime: plorare, il qual similmente per volgare viene a dir piagnere, e piagnere con mandar fuori alcuna boce: lugere, il qual similmente per volgare viene a dir piagnere, è quello che con miserabili parole e detti si fa: e dicono etimologizzando, lugere, quasi luce egere, cioè avere bisogno di luce: e questo pare che sia quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico, perciocchè chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto, quasi all’oscuro piagnamo: ma meglio credo sia detto, quegli che per cotale cagion piangono avviluppati per lo dolore nella oscurità della ignoranza, aver bisogno in lor consolazione della luce della verità, per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire: e però quando questo avviene, che alcuno ne muoia, non essere altrimenti da piagnere, che noi facciamo per gli altri effetti naturali: e da questo lugere viene lutto, il vocabolo che qui usa l’autore: ejulare, che per volgare viene a dir piagnere, e secondo piace ai gramatici, piagnere con alte boci; e dicesi ab hei, quod est interjectio dolentis: gemere ancora in volgare viene a dir piagnere, e quel pianto che si fa singhiozzando: ululare in volgare vuol dir [p. 230 modifica]piagnere: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere, esser quella che fanno le femmine quando gridando piangono: e però dicendo l’autore a questa anima, che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna inculcazione di parole come alcuni stimano, apparendo che le spezie dei pianto sieno intra sè diverse; segue adunque,

Spirito maladetto, ti rimani,

in questo tormento,

Ch’io ti conosco, ancor sii lordo tutto.

Questo gli dice l’autore, perciocchè esso da lui domandato chi el fosse, non l’avea voluto dire. Allora stese al legno, quella anima, ambe le mani: e questo si dee credere quella anima aver fatto siccome iracundo, il quale per vaghezza di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse, l’autore, perciocchè ingiurioso si reputava l’autore aver detto di conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso: Perchè il maestro accorto, della intenzione di quest’anima adirata, lo sospinse, cioè il rimosse dalla barca,

Dicendo: via costà con gli altri cani,

de’ quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli co’ denti, come quivi dice si stracciavano gl’iracundi. Lo collo poi. Qui comincia la seconda particella della seconda parte principale, nella quale Virgilio fa festa all’autore, perciocchè ha avuto in dispregio lo spirito fangoso: e mostra in questa particella l’autore una spezie d’ira la quale non solamente non è peccato ad averla, ma è merito a saperla usare: la qual virtù, cioè sapere usare questa [p. 231 modifica]spezie d’ira, Aristotile nel quarto dell’Etica chiama mansuetudine: e quegli cotali che questa virtù hanno, dice che s’adirano per quelle cose, e contro a quelle persone contro alle quali è convenevole d’adirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e quanto tempo: e questi che questo fanno dice che sono commendabili: e seguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare che la ragione ordinerà, cioè in quelle cose nelle quali s’adira tanto tempo essere adirato, quanto la ragione richiederà. Questa cotale spezie d’ira n’è conceduta da’ santi: dice il Salmista: irascimini, et nolite peccare; volendo per queste parole che ne sia licito il commuoversi per le cose non debitamente fatte, siccome fa il padre quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al discepolo, o 1’uno amico all’altro, acciocchè per quella commozione egli l’ammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non come uomo che della ingiuria, la quale gli pare, per lo non ben far d’alcuno, desideri vendetta, e fatta la debita ammonizione, ponga giù l’ira; e in questa maniera adirandosi, e per così fatta cagione non si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi, come spesso nella Scrittura si legge; e il Salmista spesse volte prega che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sì, che esso contra di lui si debbe adirare: e da questa ira dobbiam credere essere stato commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando preso un mazzo di funi, cacciò del [p. 232 modifica]tempio i venditori e’ comperatori, dicendo: Domus mea, domus orationis etc. Questa spezie d’ira chiamano molti sdegno, e così mostra di volere qui intender l’autore, il quale non voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti e savii; e tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è più savio in cui egli cade; perciocchè quanto più è savio l’uomo, tanto più cognosce le qualità e’ motivi de’ difetti che si commettono, e per conseguente più si commuove: e però dice Salomone: ubi multum sapientiae, ibi multum indignationis. E vuole l’autore in questa particella mostrare questa virtù essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si mostra per lo suppllcio de’ dannati in questo cerchio esser commosso, come ne’ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta festa abbracciandolo, e chiamandolo alma sdegnosa, e in benedicendo, in segno di congratulazione, la madre di lui: e questa festa, questa congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia l’essere sdegnoso. È il vero, che come di molte altre cose avviene, questo adiettivo, cioè sdegnoso, spessissimamente in mala parte si pone: il che quantunque non vizii la verità del subietto, nondimeno è da discreti da’ distinguere e da riguardare, dove debitamente e non debitamente si pone; e dove non debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie d’ira, le quali di sopra son mostrate esser dannose. Dice adunque il testo così: Lo collo poi, che dal legno ebbe cacciata quella anima iracunda, con le braccia mi cinse, [p. 233 modifica]abbracciandomi, Baciommi il volto, in segno di singulare benivolenza perciocclhè noi abbracciamo e baciamo coloro i quali noi amiamo molto: e dice il volto, non dice la bocca, acciocchè per questo noi sentiamo primieramente l’onestà del costume, perciocchè il baciar nel volto è segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo sia alcuna volta, le più delle volte è segno lascivo: e oltre a ciò il volto nostro è detto volto da volo vis, perciocchè per quello ne’ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e perciocchè il voler del cuore dell’autore era buono e onesto, Virgilio approvando quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del corpo dell’autore nella quale quella buona disposizione si dimostrava; e disse: alma sdegnosa, non disse iracunda, ma sdegnosa, in quanto giustamente adirandosi, e quanto si conviene servando l’ira, mostrò lo sdegno della sua nobile anima, Benedetta colei che in te, cioè sopra te, si cinse: cingonsi sopra noi le madri nostre mentre nel ventre ci portano: e dice qui l’autore, Benedetta, a dimostrazione che come l’albero il qual porta buon frutto si dice benedetto, così ancora si dice benedetta la madre che porta buon figliuolo. E in questa parte non si commenda poco l’autore, ma egli è in ciò d’aver per iscusato, in quanto non fa questo per commendar sè, ma per commendar la virtù della mansuetudine, della quale era di necessità di trattare in questa parte, acciocchè noi non credessimo ogni ira esser peccato. Questi, che ti si mostrò, fu al mondo, cioè in questa vita, persona [p. 234 modifica]orgogliosa, cioè arrogante: Bontà, cioè virtù, non è, che sua memoria fregi, cioè adorni perciocchè le virtù adornano così il nome e la memoria dell’uomo nel quale state sono, come il fregio adorna il vestimento: Così, cioè come fu arrogante nel mondo, s’è l’ombra sua qui furïosa, per rabbia e per dolore del tormento. Quanti si tengono or lassù: poichè egli ha biasimata la furiosa e sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio a biasimare, sotto i nomi de’ più eminenti principi, i fastidii e le stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma eziandio di molti plebei, i quali per apparere d’esser quel che non sono, si sforzano d’esser ponderosi ne’ passi, gravi nel parlare, e nell’adoperare di sentimento sublime, dove nell’effetto di niuno valore sono, dicendo, Quanti si tengono or lassù, cioè nel mondo, il quale è di sopra da noi, gran regi, cioè gran maestri; nondimeno il re è dinominato da rego regis, il quale quantunque a molti sieno le loro teste ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e però dice l’autore bene, si tengono, ma perchè essi si tengano, essi non sono; a dimostrazione della qual verità ottimamente favella Seneca Tragedo in quella tragedia la quale è nominata Tieste, dove dice: non fanno le ricchezze i re, non il colore del vestimento tirio, non la corona della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate de’ lor palagi: re è colui il quale ha posta giù la paura e ciascun altro male del crudel petto: re è colui il quale non è mosso dalla impotente ambizione, e dal favore non stabile del [p. 235 modifica]precipitante popolo: sola la buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di cavalli nè d’armi: re è colui il quale alcuna cosa non teme da non temere. Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi quegli i quali degnamente si possano tenere re: non sono adunque re questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni, e perciò meritamente seguita, che questi cotali che re si tengono, perchè posson far male quando vogliono,

Che qui staranno, come porci in brago,

e meritamente, acciocchè nel brago e nella bruttura riconoscano i mali usati splendori nella vita presente; e che ancora più vituperevole fia, morranno, Di sè lasciando, in questa vita, orribili dispregi, cioè memoria di cose orribili, e meritamente da dispregiare state operate da loro. Ed io: maestro. Qui comincia la quarta particola della seconda parte principale di questo canto, nella quale l’autore descrive, come secondo il suo desiderio vide straziare all’anime dannate quello pien di fango che davanti gli s’era parato: e primieramente apre il suo desiderio a Virgilio dicendo,

Ed io: maestro, molto sarei vago

Di vederlo attuffare, costui il quale tu mi di’ che fu persona orgogliosa; e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo, di vedere gl’incorregibili punire, in questa broda. Il proprio significato di broda, secondo il nostro parlare, è quel superfluo della minestra, il quale davanti sì leva a coloro che mangiato hanno: ma qui l’usa l’autore largamente, prendendolo per l’acqua di quella palude [p. 236 modifica]mescolata con loto, il quale le paludi fanno nel fondo, e perciocchè così son grasse e unte come la broda,

Anzichè noi uscissimo del lago,

cioè di questa palude. È il lago una ragunanza d’acque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa, per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal palude, in quanto il lago ha grandissimo fondo, ed hal buono, ed è in continuo movimento, per le quai cose l’acqua senza corrompersi vi si conserva buona, dove la palude ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa: pone adunque qui l’autore il vocabolo del lago per lo vocabolo della palude, usando la licenza poetica, e largamente parlando.

Ed egli a me: avanti che la proda,

cioè l’estremità di questa palude, la quale l’uomo, come de’ fiumi, chiama riva; ma pone l’autore questo vocabolo proda, perciocchè egli è proprio nome di quelle rive dove i navilii pongono; e ciò è perchè sempre i navilii accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla riva,

Ti si lasci veder, tu sara’ sazio:

di quel che desideri: e poi ancora gliele rafferma dicendo; Di tal disio, chente tu di’ che hai, converrà che tu goda, cioè ti rallegri. Dopo ciò poco, cioè poco dopo queste parole di Virgilio, vidi quello strazio Far di costui, del quale io desiderava, alle fangose genti, cioè agl’iracundi i quali erano in quel palude,

Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

[p. 237 modifica]Tutti gridavano, que’ dannati, animando l’un l’altro ad offender quest’anima: e che gridavano? a Filippo Argenti: quasi voglian dire, corriam tutti addosso a Filippo Argenti. Fu questo Filippo Argenti, secondochè ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi de’ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento, e da questo trasse il soprannome: fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto, e di maravigliosa forza, e più che alcuno altro iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione: nè di sue opere più si sanno che queste due, assai ciascuna per sè medesima biasimevole: e per lo suo molto essere iracundo, scrive l’autore, lui essere a questa pena dannato:

E ’l fiorentino spirito bizzarro,

cioè iracundo; e credo questo vocabolo bizzarro sia solo de’ Fiorentini, e suona sempre in mala parte; perciocchè noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, nè mai da quella per alcuna dimostrazione rimanere si possono, In sè medesmo, vedendosi schernire, o assalire dagli altri, si volvea co’ denti, per ira mordendosi. Quivi ’l lasciammo, procedendo avanti, che più non ne narro, che di lui dopo questo si seguisse.

Ma negli orecchi mi percosse un duolo;

qui si può comprendere quello che poco avanti dissi, venire a ciascuno senso quello che da essi si percepe, in quanto dice che un duolo, cioè una voce dolorosa gli percosse gli orecchi, di là venendo dove [p. 238 modifica]quella dolorosa voce era nata, e segue, Perche io, avendolo udito, per conoscere onde venisse, avanti, cioè innanzi a me, intento, a riguardare, gli occhi sbarro, cioè quanto posso apro. Lo buon maestro. Qui comincia la quarta particella della seconda parte principale del presente canto, nella quale l’autore dimostra come venissero ne’ fossi della città di Dite: dice adunque,

Lo buon maestro disse: omai figliuolo,
S’appressa la città, che ha nome Dite,

Co’ gravi cittadin, non gravi per costumi o per virtù, ma per peccati, col grande stuolo, cioè con la gran quantità.

Ed io: maestro, già le sue meschite

meschite chiamano i Saracini i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi chiamiamo chiese quelle che ad onor di Dio facciamo: e perciocchè questi così fatti luoghi si sogliono fare più alti e più eminenti che gli edificii cittadini, è usanza di vederle piuttosto uno che di fuori della città venga, che l’altre cose; e perciò non fa l’autor menzione dell’altre parti della città dolente, ma di questa sola, chiamandole meschite, siccome edificii composti ad onor del demonio, e non di Dio,

Là entro certo nella valle cerno,

dice nella valle, perciocchè la città era molto più bassa che esso non era, e dice le discernea,

Vermiglie, come se di foco uscite

Fossero: e questo dice a rimuovere una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha [p. 239 modifica]alcuna volta detto, sè non potere guari vedere avanti pur lo fummo del palude; e così vuol dire, che nè ancora qui vedrebbe quelle meschite, se non fosse che esse medesime si facevan vedere per l’essere affocate, cioè rosse. E quei mi disse: il fuoco eterno,

Ch’entro l’affuoca, le dimostra rosse,

cioè roventi:

Come tu vedi in questo basso inferno.

Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite, la qual fu necessaria d’aprire, acciocchè egli non estimasse quelle essere dipinte, ed egli soggiugne:

Noi pur giugnemmo dentro all’alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata:

vallo, secondo il suo proprio significato, è quello palancato, il quale a’ tempi di guerre si fa dintorno alle terre, acciocchè siano più forti, e che noi volgarmente chiamiamo steccato; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual fuor delle mura si fa per afforzamento della terra: e perciò dice l’autore, che giunse nelle fosse che vallano, cioè fanno più forte quella terra: Le mura, di quella terra, mi parea, che ferro fosse: dice quelle essergli parute esser dì ferro, a dimostrazione della fortezza di questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dell’Eneida così:

Porta adversa ingens, solidoque adamante columnae:
Vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
Coelicolae valeant: stat ferrea turris ad auras:

[p. 240 modifica]

Tisiphoneque sedens, palla succinta cruenta
Vestibulum exsomnis servat noctasque, diesque.
Hinc exaudiri gemitus, et saeva sonare
Verbera: tum strider ferri, tractaeque catenae etc.

Non senza prima far ec. Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l’autor descrive la raccolta fatta loro da’ demoni i quali erano in su la porta di Dite, e come a Virgilio serrarono la porta nel petto e in questa parte fa due cose: primieramente descrive cui trovassero all’entrare della porta di Dite, e come Virgilio domandasse di parlar con loro, appresso dimostra, come si sconfortasse per l’andar Virgilio a loro, e comincia questa particella quivi: Pensa lettor. Dice adunque primieramente,

Non senza prima far grande aggirata,

nelle quali parole dimostra, che lungamente andassero per li fossi di quella città, avantichè essi giugnessono là dove era la porta di quella, e però segue: Venimmo in parte, dove ’l nocchier, cioè Flegias: ed è questo nome nocchiere il proprio nome di colui, al quale aspetta il governo generale di tutto il legno; e a lui aspetta di comandare a tutti gli altri marinari, secondochè gli pare di bisogno; e chiamasi nocchiere quasi navichiere, forte, Uscite, ei gridò, qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il costume degl’iracundi intorno al parlare, i quali non pare il possan fare se non impetuosamente e con romore: qui e l’entrata, della città di Dite. Io vidi più di mille, cioè molti, in su le porte, di questa città di Dite, Da ciel [p. 241 modifica]piovuti, Cioè demoni, i quali cacciati di paradiso in guisa di piova caddero nell’inferno, che stizzosamente, cioè iracundamente, Dicean, con seco medesimi: chi è costui, che senza morte, cioè essendo ancor vivo,

Va per lo regno della morta gente?

cioè per l’inferno, il quale veramente si può dire regno della morta gente, in quanto quegli che vi sono son morti della morte temporale, e morti nella morte eternal.

E ’l savio mio maestro fece segno,

a questi demoni,

Di voler lor parlar segretamente.

Per lo qual segno essi,

Allor chiusero un poco il gran disdegno,

non dice che il ponesser giuso, ma alquanto col non parlare così stizzosamente il ricopersono: e qui disdegno si prende in mala parte, perciocchè negli spiriti maladetti non può essere nè è alcuna cosa che a virtù aspetti, e disser: vien tu solo, qua a noi, e quei sen vada, cioè Dante,

Che sì ardito, dietro a te, entrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada,

per la quale è venuto dietro a te: e chiamala folle, non perchè la strada sia folle, perciocchè non è in potenza la strada di potere essere o folle o savia, ma a dimostrare esser folli coloro i quali si adoperano, che per essa convenga loro iscendere alla dannazione eterna: Provi, se sa, tornarsene indietro solo, che tu qui, con noi, rimarrai, Che gli hai scorta, insino a questo luogo, sì buia contrada, [p. 242 modifica]cioè si oscura. E vuole in queste parole l’autore quello dimostrare che negli altri cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun de’ ministri infernali sempre all’entrar del cerchio sia spaventato; e così qui dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro dalla città di Dite, introduce questi demoni a doverlo spaventare, acciocchè del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere perduto in inferno discendere. Pensa, lettor: qui comincia la seconda particella di questa quarta parte principale, nella quale l’autore mostra come si sconfortasse: Pensa, lettor, che queste cose leggerai, se io mi sconfortai,

Nel suon delle parole maladette,

cioè dette da quegli spiriti maladetti; e soggiugne la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo,

Ch’io non credetti ritornarci mai,

cioè in questa vita, vedendomi torre colui che infin quivi guidato m’avea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un passo. E però da questa paura sbigottito, dice,

O caro duca mio, che più di sette,

cioè molte, ponendo il finito per l’infinito,

Volte m’hai sicurtà renduta, e tratto
D’alto periglio che incontro mi stette;

cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti l’ira di Carone, di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono;

Non mi lasciar, diss’io, così disfatto,

[p. 243 modifica]come io sarei qui ritrovandomi senza le: E se l’andar più oltre, cioè più giuso, ci è negato,

Ritroviam l’orme nostre insieme ratto,

per la via tornandoci per la quale venuti siamo. E quel signor, Virgilio, che lì m’avea menato,

Mi disse: non temer, che ’l nostro passo,

cioè l’entrare nella città di Dite, Non ci può torre alcun, quasi dica, quantunque costoro faccian le viste grandi, e dican parole assai, essi non posson però impedire l’andar nostro; e pone la cagione perchè non possono, dicendo, da tal n’è dato, cioè da Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa.

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso,

faticato per la paura,

Conforta, e ciba di speranza buona;

e poi pone di che egli debba prender la speranza buona dicendo,

Ch’io non ti lascerò nel mondo basso,

cioè nell’inferno, il quale più che alcuna altra cosa è basso. Così sen va, verso que’ demoni, e quivi m’abbandona Lo dolce padre, cioè lascia solo di sè: ed io rimango in forse, E ’l sì, e ’l nò, che egli debba a me ritornare come promesso m’ha, o rimaner con coloro, siccome essi il minacciavano, dicendo, tu qui rimarrai, nel capo mi tenzona, cioè nella virtù estimativa, la quale è nella testa. E poi segue, Udir non potei quel, che a lor, cioè a que’ demoni, sì porse, cioè si disse;

Ma el non stette là con essi guari,
Che ciascun dentro a prova si ricorse.

[p. 244 modifica]Chiuser le porte, della città, quei nostri avversari Nel petto, cioè contro al petto, al mio signor, che fuor rimase: puossi per questo atto fatto da’ demoni comprendere, che Virgilio dicesse loro esser piacer di Dio che esso mostrasse 1’inferno a colui il quale con seco avea, e che essi avendo questo in dispetto, acciocchè egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porte, E rivolsesi a me, tornando, con passi rari. Disegna in queste parole l’autore, l’atto dì coloro i quali per giusta cagione sdegnano e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come gl’iracundi corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò che alcuno ha men che bene adoperato. Poi segue: Gli occhi alla terra, bassi, nel quale atto si manifesta la turbazione del mansueto, dove in contrario l’iracundo leva la lesta, e fa romore, e le ciglia avea rase D’ogni baldanza, in quanto il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtù l’impeto, il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito, cioè senza alcuno ardire, dove gl’iracundi col capo levato paiono baldanzosi e arditi; e dicea ne’ sospiri, cioè sospirando dicea, nel quale sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del mansueto:

Chi m’ha negate le dolenti case?

quasi dica, questi demoni, i quali sono in ira di Dio, e niente contro a Dio possono, hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti: la qual cosa, perciocchè era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di sospirare e di rammaricarsi. E a me disse, non ostante la sua perturbazione: tu, [p. 245 modifica]perch’io mi adiri, di quella ira la quale è meritoria, Non sbigottir, cioè non te ne entri alcuna paura, per ciò ch’io vincerò la pruova, dell’entrar dentro alla città, Qual, ch’alla difension, che io non v’entri, dentro s’aggiri, cioè si dea da fare perchè io non v’entri. Questa lor tracotanza, del fare contro a quello che debbono, non m’è nuova,

Che già l’usaro in men segreta porta,

che questa non è, e contro al signor del cielo e della terra, cioè di Gesù Cristo: e dice men segreta, in quanto quella è all’entrata dell’inferno, e questa è quasi al mezzo; perchè assai appare, questa essere più segreta e più riposta che non è quella: e questo fu, secondochè si racconta, quando Cristo già risuscitato scese all’inferno a trarne l’anime de’ santi padri, i quali per molte migliaia d’anni l’avevano aspettato; intorno al quale il principe de’ demoni co suoi seguaci fu di tanta presunzione, che egli ardi ad opporsi in ciò che esso potè, perchè Cristo non liberasse coloro i quali lungamente avea tenuti in prigione, e per questo metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dell’inferno, e rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della quale fa qui menzione l’autore, cioè la men segreta, alla qual poi non fu mai fatto alcun serrame, siccome esso medesimo dice,

La qual senza serrame ancor si truova,

Nè si dee intendere d’alcuna altra; perciocchè secondo la descrizione dell’autore, nell’inferno non ha che due porte, delle quali è l’una quella di che di sopra è detto, e della quale esso dice qui, [p. 246 modifica]

Sovr’essa vedestù la scritta morta, (cioè)
Per me si va nella città dolente ec.

la qual chiama scritta morta, perciocchè ha a significare a quegli che per essa entrano eterna morte: ed evvi oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale Cristo non discese, perciocchè si crede, che nel primo cerchio dell’inferno, cioè nel limbo, erano quegli i quali Cristo ne trasse, e poi seguita: E già di qua da lei, cioè da quella prima porta, la qual senza serrame ancor si trova, discende l’erta, erta è a chi volesse tornare in suso, ma discendendo, come far conviene a chi dalla prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir china: ma come spesse volte fa l’autore, usa un vocabolo per un altro, Passando per li cerchi, dell’inferno, senza scorta, cioè senza guida, siccome colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza, alla quale ogni cosa è manifesta,

Tal, che per lui ne fia la terra aperta,

di tanta potenza sarà, siccome appresso appare, dove dice l’autore, che toccata la porta di quella solamente con una verga l’aperse.