Il conte di Cavour in parlamento/Introduzione
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INTRODUZIONE.
Non ispetta alla presente generazione lo scrivere la storia compiuta della politica del conte di Cavour. I pochi uomini nei quali egli ebbe fiducia e che presero parte a’ suoi lavori debbono serbare verso la memoria dell’uomo di Stato quel secreto che avrebbero mantenuto all’intimo amico, al venerato maestro. Molte e varie considerazioni impongono ai suoi confidenti e alla stessa sua famiglia un riserbo, che non è punto necessario alla fama del conte di Cavour, la quale è anzi destinata a farsi più grande quanto più il vero sarà conosciuto.
Ma, benchè le memorie del nostro grande italiano non possano essere pubblicate, com’egli soleva dire spesso, se non fra cinquant’anni, dai suoi pronipoti, alcuna cosa potrebbe pur farsi, a nostro avviso, per appagare la curiosità legittima e benevola dei contemporanei. Egli visse gran parte della vita pubblica in mezzo alle lotte del Parlamento; quivi egli amava esporre le sue idee: quivi più che mai aveva coscienza della sua morale ed intellettiva grandezza: quivi spesso un’interruzione, un assalto facevano rilucere il suo pensiero d’inusitato splendore.
Raccogliere i suoi discorsi più importanti e offrirli al pubblico in forma acconcia ed economica, è forse il solo omaggio che per noi si possa rendere a quella venerata memoria. Noi abbiamo assunto codesto officio, il quale non richiedeva se non un’abnegazione assoluta ed un coscienzioso rispetto dei pensieri del nostro maestro. Ma, nel rileggere queste eloquenti pagine, piene d’utili insegnamenti, le ricordanze mi si affollano nell’animo. Io ne registro alcune in questa breve Introduzione, limitandomi scrupolosamente agli ultimi anni della vita di lui, a quelli nei quali ebbi l’onore di esercitare presso il conte di Cavour le mie modeste funzioni. Senza rammentare i fatti che tutti ricordano, senza arrogarmi di dare un giudicio dell’opere sue, e senza propormi neppure di comporre la sua biografia, io mi sforzerò di aggiungere alcuni tratti famigliari alla possente immagine che spicca fuori dal libro che pubblichiamo. Alcuna volta io ho dovuto, malgrado mio, mettere me stesso in iscena o parlare di me; sarà debito di giustizia il riconoscere che non lo feci se non quando era inevitabile.
Ognuno conosce le doti intellettuali del conte di Cavour; ma le inestimabili sue doti morali son note a pochi. Agli occhi dei suoi politici avversari egli pareva uomo astuto ed ambizioso cui non ripugnassero mezzi tenebrosi pur di giungere allo scopo: avido del potere, celante il suo dispotismo sotto maschera liberale, scettico e corruttore ad un tempo. Spesso, quand’io gli traduceva gli articoli dei giornali austriaci, ove il Seelen und Reisverkaufer tornava ad ogni momento, vedevo corrergli sul viso l’indignazione e lo sprezzo, cui succedeva tosto uno schietto e sonoro scoppio di risa. Il vero si è che quel preteso Machiavello si burlava assai della matricolata furberia che gli veniva attribuita. Egli diceva sovente: «Sono assai meno astuto di quello che si compiacciono di dire: vo per le vie maestre, e credono che io vada pei viottoli: dico aperto quello che penso, e mi regalano reticenze ed ambagi d’ogni maniera.» Ricco, di nobile lignaggio, noto omai come uomo politico de’ primi, recava maraviglia a me il vederlo rassegnarsi ad essere fatto segno a certe accuse, lui, che non aveva alcuno dei fini privati che s’attribuiscono d’ordinario alla cupidigia del potere.
Una sera, durante uno dei momenti più dolorosi della questione di Nizza e della Savoia, gli manifestai francamente il mio pensiero. «Certo, diss’egli, voi date nel segno. Se il Re mi nominasse anche duca di Leri, come dicono ora i giornali austriaci, io non iscambierei con quel titolo il mio nome di conte di Cavour. Ho quattrini quanti mi bastano pei miei bisogni, sebbene io non sia tanto ricco quanto si crede: e mai non sarò così popolare quanto dopo le battaglie di Magenta e alla vigilia di quella di Solferino. Ma che volete? Ho l’ambizione di servire all’Italia: metto a rischio per lei di buon grado la mia fama e la mia popolarità. Se non mirassi ad altro che all’utile privato, invece d’indurre l’Italia e l’Europa ad acconsentire alla cessione di Nizza e della Savoia, darei la mia dimissione e pago d’una gloria acquistata a buon mercato, mi ritirerei a Leri, e lascierei che il paese se la cavasse in mezzo a questa pericolosa crisi politica.»
Il conte di Cavour amava il potere non per le gioie che procaccia, ma per l’altissimo scopo che si era prefisso. La febbrile attività di cui era invasato poteva ben rivolgersi ad ogni specie di lavori. «Mai (mi diceva egli un giorno mentre tornavamo da Genova a Torino), mai non conobbi la noia, codesto verme della generazione presente. Passo le ore, le notti a leggere romanzi ed articoli di riviste: ho vissuto più mesi nelle paludi di Leri per sorvegliare la coltura dei miei fondi. Quand’ero giovane, spendevo talora le notti a sciogliere nella mia mente problemi di matematica. Quando avrò terminato il mio cómpito, mi ritirerò a Leri, invecchierò nella quiete dei campi. Già ve lo dissi spesse volte: il soggiorno di Roma non ha attrattive per me. Metterò in ordine le mie carte, raccoglierò i materiali delle mie memorie e lascierò la cura di pubblicarle a mio nipote Ainardo od a’ suoi figli.» Questa facilità del fissar l’attenzione su qualunque oggetto, del passare a vicenda dai più vasti disegni politici ai più minuti particolari, mi riempiva spesso di meraviglia. Ricordo che in occasione di quello stesso viaggio, egli m’aveva chiesto di comperargli un romanzo da leggere sulla ferrovia. Scelsi, com’era naturale, opere pubblicate più di recente in Francia e in Inghilterra: ma dovetti ritornar due volte dal libraio, perchè il Conte aveva letto e conosceva tutti quei libri, cosicchè lo pregai di venire egli stesso a sceglierne altri da sè. Dopo essersi divertito alquanto del mio imbarazzo, venne e scelse un volume che per buona ventura non toccò neppure, giacchè la nostra conversazione continuò durante tutto il rapido viaggio da Genova a Torino.
In quel tempo fui testimonio d’un’ovazione fattagli dai Genovesi. Noi venivamo dal Palazzo Reale ove il Conte era smontato al ritorno da Firenze, e ci incamminavamo per le vie Balbi, Nuova e Nuovissima. La città era deserta: era una sera di domenica, e tutti erano alla passeggiata dell’Acquasola. Il Conte volle condurmi verso il luogo da lui abitato a Genova quand’era tenente nel genio, e mi mostrò la finestra presso cui soleva lavorare allora. Ad un tratto un gran rumore ci tolse a quelle reminiscenze della sua gioventù taluno aveva riconosciuto Cavour, ed aveva sparsa la notizia ch’egli si trovava in quel quartiere della città: molta gente s’era raccolta intorno a lui, e non fu senza fatica ch’egli potè sfuggire in una carrozza di piazza alla folla che gridava Viva Cavour! Viva l’Italia!
Quando fu rientrato nelle sue stanze egli mi narrò quanto fosse stato impopolare il suo nome poco tempo innanzi alla guerra d’Italia. «Molto tempo ci volle (diceva egli) per dimostrare che io non volevo punto ruinare il commercio di Genova o sacrificare questa città a Torino ed alla Spezia. Pochi anni or sono, una metà dei Genovesi era clericale, l’altra metà repubblicana. Tuttavia io non mi perdetti mai d’animo: ero convinto che verrebbe il tempo in cui Genova avrebbe capito qual è l’avvenire che io le preparo.» E quando, durante la spedizione di Garibaldi in Sicilia i mazziniani fecero inutili tentativi per provocare un’insurrezione a Genova, egli diceva: «Non avevo io ragione quando affermava che i Genovesi sono ora così ricchi da dover essere conservatori?»
Anche in Piemonte il suo genio politico aveva avuto da vincere non poche difficoltà. Il suo nome, la sua educazione più francese ed inglese che non liana, tutto gli fu ostacolo da principio. I fatti del 1849 avevano lasciato nel Piemonte come nel resto d’Italia grandissimo fermento. Massimo d’Azeglio ebbe la gloria di scongiurare i pericoli di quello stato di cose contenendo i partiti estremi, nel tempo stesso che il suo nome splendido di lealtà inspirava la massima fiducia a tutti gli Italiani. In quel tempo il Parlamento non era punto favorevole al conte di Cavour, allorchè parlava della politica interna od estera, e spesso gli accadde di dover subire i fischi delle tribune. Le sue parole incominciarono ad essere autorevoli soltanto nelle questioni di finanza. Le sue profonde cognizioni intorno alla economia politica, la facilità somma con cui trattava le questioni delle imposte, de’ prestiti, dei bilanci, lo fecero chiamare sin dal 1850 al Ministero dell’Agricoltura e del Commercio. Egli incominciò dal riformare i trattati commerciali conchiusi dalla Sardegna colle altre potenze. Abolizione delle tasse differenziali, libertà di cabotaggio, riduzione dei dazi, tutti quei principii che l’Inghilterra aveva adottati per l’impulso vigoroso e fecondo dato da Roberto Peel, furono in poco tempo sanciti dal piccolo Regno di Sardegna. Chiamato nel 1851 al Ministero di Finanza, egli continuò a lavorare senza posa, e ad ordinare il Piemonte ad esempio degli Stati più innanzi nella civiltà. Come quegli inventori che sono costretti a fabbricarsi da sè gli strumenti di cui hanno d’uopo, per compire il lavoro che hanno pensato, il conte di Cavour volle innanzi tutto fare del Piemonte uno Stato che potesse offrirsi modello alle altre parti della penisola. Trovato questo saldo punto d’appoggio, avuto fra le mani questo docile e vigoroso strumento, Cavour potè accingersi a tentare la liberazione d’Italia.
Dovremo noi dire però che sin dal 1849, sin dai giorni seguenti alla battaglia di Novara, il conte di Cavour mirasse all’unità italiana? Ella è una domanda codesta che mi fu fatta spesso: Cavour innanzi alla pace di Villafranca era egli unitario o federalista? So che negli anni della gioventù la coscienza istintiva della sua potenza intellettuale gli dava il presentimento d’avere ad essere un giorno Ministro d’Italia. Pare a me tuttavia che prima di Villafranca il Conte non avrebbe disdegnato assolutamente una federazione italiana. Pratico e lucido ingegno, egli non proponevasi mai una mèta immaginaria e inaccessibile ma nel tempo stesso egli non si contentava mai di conseguire meno del possibile. Il suo sguardo non oltrepassava mai i confini del reale; ma il reale era pel suo genio orizzonte ben più vasto che non sia per gli altri uomini. Egli mi disse che per la pace di Villafranca appunto divenne impossibile la federazione. Se il Programma di Milano fosse stato compiuto, se l’Italia fosse divenuta libera dall’Alpi all’Adriatico, i sovrani di Napoli e di Toscana, e fors’anche il pontefice, avrebbero potuto piegare per avventura ad una politica veramente nazionale; la confederazione si sarebbe potuta tentare con maggiore o minore probabilità di buon esito. Ma l’Austria essendo rimasta accampata fra il Mincio ed il Po, gli Italiani non poterono illudersi al punto da sperare che la politica degli antichi alleati della Casa d’Absburgo potesse mutarsi ad un tratto. L’istinto della difesa distolse l’Italia dal concetto federativo, ch’era del resto concetto di transizione, e maturò rapidamente il disegno dell’unità.
Mi sia concesso il far osservare in quali errori possono cadere i più chiari scrittori quando non conoscono i fatti con sufficiente esattezza. Nel suo libro sulla Chiesa e le Società Cristiane il Guizot, dimenticando che per la pace di Villafranca non s’era punto compiuta l’opera dell’indipendenza, e che anzi l’Austria n’era rimasta di tanto più forte, inquantochè colle stesse posizioni strategiche aveva un territorio meno esteso da difendere e da sorvegliare, accusa il conte Cavour d’avere senza necessità tolto a Mazzini il concetto unitario nel solo intento di soddisfare all’ambizione piemontese. Codesto è, mi sia concesso dirlo, uno strano errore. Nel 1848 l’Italia era piuttosto federalista che non unitaria: il che prova appunto che il lavoro delle società secrete non aveva fatto frutto, poichè venti anni di cospirazioni non avevano potuto formare un gran partito unitario. L’unità non cessò d’essere un sogno, se non quando una sola delle dinastie regnanti nella penisola si consacrò con eroica fedeltà alla difesa della causa nazionale. Da quel giorno in poi la decadenza delle altre dinastie fu decretata nel cuore degli Italiani: il regno di Vittorio Emanuele su tutta l’Italia cominciò il domani della battaglia di Novara. L’unità divenne allora possibile, ma non fu riconosciuta necessaria se non dopo la pace di Villafranca. Nel 1848 Cavour potè essere federalista come Balbo, Gioberti e Rossi: dopo Villafranca non è forse temerità il supporre che Rossi sarebbe divenuto unitario come Cavour. Quanto a Gioberti, il suo libro del Rinnovamento civile non ne lascia alcun dubbio.
Sebbene avesse più che altri mai sofferto vedendo la guerra in tal guisa troncata ad un tratto, Cavour fu primo ad accorgersi che quella pace di Villafranca avrebbe pur potuto recare indirettamente utili effetti all’Italia. Quand’io nel dicembre 1859 andai a prendere gli ordini suoi pei preparativi del nostro viaggio a Parigi (è noto che Cavour era stato nominato plenipotenziario al Congresso, di cui pareva imminente l’adunanza), stupii di trovarlo così gaio ed in buona salute. L’avevo veduto al ritorno da Villafranca pallido, invecchiato in tre giorni di parecchi anni: un viaggio in Savoia e nella Svizzera, alcuni mesi passati a Leri, avevano bastato a rimetterlo[1]. Certo, il nuovo orizzonte che gli si apriva innanzi agli occhi contribuiva a dargli quella gaiezza di cui mi maravigliavo. Egli era allora impaziente di ritornare agli affari. Riunire prima l’Emilia, poi la Toscana: era
questo il programma che, condotto ad effetto, renderebbe possibile l’unità italiana. Tutti sanno com’egli riuscisse a compiere questi disegni, ed ho già parlato delle angoscie da lui
sofferte per gli affari di Nizza e di Savoia. Non mi è
lecito estendermi su questo argomento. Dirò tuttavia
ch’io ebbi allora occasione di assistere alla elaborazione d’uno dei suoi grandi discorsi. Non mi pare
inutile l’indicare quale fosse il suo metodo. Per lo
più egli aspettava che la discussione incominciasse e
durasse per un giorno o due. Seduto tranquillamente
sul banco dei Ministri, giocando colla sua stecca e
sopportando gli assalti dei suoi avversari con tutta
la calma d’uno sperimentato combattente, pareva non
far punto attenzione a quanto si diceva: in realtà
non gli sfuggiva neppur una sillaba. A poco a poco,
per un processo intellettivo di cui era appena consapevole, il disegno del suo discorso gli si trovava compiuto in capo. Senza scriver verbo, senza prendere
appunti, tranne quando aveva cifre o dati da addurre,
bastava a lui il pensare un’ora o due il mattino del
giorno in cui contava di parlare, per rivestire le sue
idee della forma più acconcia. Negli ultimi anni egli
aveva preso l’usanza di farmi assistere alla ripetizione
generale dei suoi discorsi. Seduto dirimpetto a me, egli
cercava sul mio volto, che non potè mai celargli nulla,
l’impressione che la sottile e forte orditura della sua
argomentazione sopra di me produceva. Talvolta m’interrogava coll’occhio o mi costringeva a fargli osservazioni sui punti di cui non era pago abbastanza.
Egli abborriva dall’enfasi e dalla rettorica: mirava
anzitutto all’evidenza, ed a parer mio vi giungeva.
Senza cader mai nella esagerazione o nel paradosso,
metteva innanzi le questioni in aspetto nuovo; ma così
naturalmente, che spesso gli avversari di buona fede
stupivano d’aver potuto giudicare altrimenti.
Egli evitava con cura i luoghi comuni, ma le sue idee, benchè nuove, pareva appartenessero a tutti, perchè
tutti vi riconoscevano quanto v’era di sostanziale
nella discussione, quanto risultava dalle ragioni veramente potenti cui lo stato delle cose era soggetto.
Quando parlava italiano, il suo eloquio era difficile,
rotto, quasi penoso ad udire: tuttavia, se si esaminano le votazioni delle Camere, si troverà che per
lo più la chiusura della discussione era pronunciata
subito dopo i suoi discorsi. Senza ch’egli avesse le
splendide doti dell’oratore, ne aveva però la più
essenziale: l’ingegno flessibile e luminoso, che deduce
i suoi argomenti l’uno dall’altro, con vittoriosa semplicità, con chiarezza irresistibile. Niuna interruzione
poteva rompere il logico filo delle sue idee. Spesso,
quand’io ascoltavo dalle tribune della Camera il discorso preparato il mattino innanzi a me, ho potuto
notare la fedeltà della sua memoria. Talora le parole
stesse che mi avevano colpito destavano a vicenda, ora
gli applausi, ora l’ilarità della Camera; più sovente
egli improvvisava la frase, ma l’idea era costantemente la stessa, ed io avrei potuto annunziare a chi
mi stava accanto per quali serie di corollari egli
giungerebbe alla sua conclusione. Avendogli io un
giorno manifestata la mia maraviglia per codesta
esattezza, egli mi rispose: «Non sarei tanto sicuro
di me se scrivessi il mio discorso. Invece di seguire
soltanto l’idea e, quanto alla frase, di fidarmi dell’improvviso, sarei costretto ad attenermi letteralmente allo scritto; e quand’anche avessi dietro un
suggeritore, come accade a taluno dei miei onorevoli
avversari, perderei spesso il filo del mio discorso.
L’abitudine che avevo in gioventù di risolvere
mentalmente dei problemi di matematica, mi mise » in grado di accumulare nel cervello una lunga serie di teoremi e di deduzioni che conservano il loro ordine di battaglia e non mi danno alcun impaccio.»
Egli amava spesso parlare dei suoi studi matematici e diceva che ogni questione di morale o di politica è una curva di cui è d’uopo integrare con cura tutti gli elementi. Mi parve un giorno ch’egli desse troppa importanza agli studi matematici nella preparazione della vita politica, ed osai dirgli che certo non avrebbe dato a Newton il governo dell’Inghilterra, benchè avesse scoperto le leggi della gravitazione. Egli lasciò sfuggire un leggero sorriso, e confessò che gli studi economici e storici, i viaggi, l’esperienza degli uomini gli avevano giovato quanto lo studio delle scienze esatte. Cionullameno egli pretendeva d’essere un grande ignorante, perchè, diceva, non conosco nè greco nè latino. Poi, soggiungeva ridendo, «non ho mai scritto versi, e m’è più facile far l’Italia che un sonetto.» Egli abborriva dal dilettantismo e si accusava perfino di non aver gusto per le arti belle, d’essere senz’orecchi per la musica, senz’occhi per la pittura e la scultura. Però costrinse Verdi ad accettare la deputazione e diceva: «Chi ha composto il Trovatore può bene aver seggio nel Parlamento.» Un giorno lo vidi a Bologna rimanere in estasi innanzi alla Santa Cecilia di Raffaello, e si discusse fra noi della bellezza comparativa di quel quadro e della Madonna della Seggiola. La sua indifferenza per le arti belle era più apparente che reale: amava parere, più che non fosse, privo di senso estetico.[2]
Lo stesso dicasi rispetto alla filosofia. Più d’una volta, con quel benevolo sorriso che animava il suo discorso, mi disse: «Qual è la vostra opinione sul me, sul soggetto e l’oggetto, il finito e l’infinito? Per me, lascio tutte queste belle cose a mio fratello: abbiamo spartito fra noi: a lui l’ideale, a me il reale.» - Malgrado queste celie, egli era ben lungi dall’essere indifferente al gran problema del destino umano. Credeva fermamente al progresso, e questo, secondo lui, poggia sopratutto sulla educazione popolare. Egli rigettava il socialismo, reputandolo negazione della libertà, nella quale poneva la formola suprema della politica interna dello Stato. Ma dichiarava di riconoscere la necessità della tassa dei poveri in Inghilterra: giacchè, diceva, non v’ha diritto al lavoro, ma v’ha obbligo di assistere gli indigenti. Pochi giorni prima della sua morte egli dava prova della sua cura per le sorti degli operai. V’era sciopero de’ fornai a Torino egli fece chiamare il suo fornaio, lo interrogò familiarmente circa le condizioni imposte dai padroni di bottega ai loro operai: il giorno dopo ricevette una deputazione dei padroni, e stava per riceverne una anche degli operai quando cadde malato. Egli opinava infatti dovere il Governo astenersi da ogni ingerenza in siffatti casi, ma essere obbligo degli uomini eminenti per educazione e per ricchezza il provvedere per quanto sia possibile al benessere delle moltitudini. Discorreva spesso della necessità di affrontare coraggiosamente le crisi e gli inconvenienti inseparabili dall’esercizio della libertà, cui voleva illimitata, e subordinata soltanto alle guarentigie del diritto di tutti. Egli applicava arditamente queste idee sia nella cerchia economica, sia nelle materie della politica, della morale e della religione; forse non vi ebbe mai fra i popoli di stirpe latina un uomo che avesse concetto così ampio, rispetto più vero e profondo della libertà. Tutti sanno ch’egli rifiutò di chiedere alla Camera, all’infuori dei tempi di guerra, pieni poteri ch’egli non volle mai assumere una dittatura, che l’Italia gli avrebbe pure affidata senza esitare. Tanta era la sua convinzione su questo argomento che soleva ripetere: «È d’uopo che l’Italia si faccia per mezzo della libertà: altrimenti bisogna rinunciare a farla.» In momenti di vera rivoluzione, quando Napoli era appena stata annessa al regno d’Italia egli volle lasciar sussistere piena libertà di stampa; e quando gli si opponeva che i giornali in Italia benchè liberissimi sono di rado buoni così politicamente come letterariamente, egli diceva: «i giornali non sono buoni, ma l’opinione pubblica non è cattiva.» Egli pensava che la libertà di stampa rende inutile la polizia politica: laddove ognuno può dir senza pericolo il suo pensiero, a niuno giova il nasconderlo. V’ebbe un giorno chi volle dimostrargli l’opportunità di stabilire un giornale ufficioso destinato a difender la politica del governo. Egli rispose: «Volete rendere uggiose le idee giuste e sane? esponetele in forma officiale od officiosa. Se la vostra causa è buona, facilmente senza pagarli, scrittori che la difenderanno con maggiore zelo ed ingegno che non giornalisti stipendiati.» Quando si pensi che queste parole erano pronunciate da chi era stato da dodici anni, ed era ancora in quel tempo bersaglio ad accuse ed a calunnie violentissime, non è possibile non ammirare la generosità dell’animo suo e la elevatezza del suo ingegno.
La libertà d’insegnamento era a’ suoi occhi il vero corollario della libertà della stampa. Sapendo quanto funesti effetti abbia avuto in Italia il sistema d’educazione esclusivamente accademico seguito sino ai giorni nostri, egli avrebbe voluto volgere a profitto delle scuole tecniche d’arti e mestieri il danaro speso nel formare avvocati e professori. Convinto della necessità di spingere gli Italiani a lasciare lo studio delle parole per quello delle idee e dei fatti positivi, non avrebbe esitato, quando si fosse provveduto efficacemente alla istruzione elementare, a sopprimere il Ministero dell’istruzione pubblica, lasciando così alla libertà illimitata di discussione la cura di levare a maggiore altezza la cultura scientifica e letteraria. Negli ultimi anni della sua vita egli meditava inoltre due grandi e nuove applicazioni di quel concetto di libertà ch’è base di tutta la sua politica. Egli voleva dotare l’Italia della libertà amministrativa e della libertà religiosa. Un sistema d’accentramento analogo al francese, non era, secondo lui, adatto all’Italia. Senza disconoscere i vantaggi che codesta riunione di tutte le forze nazionali può offrire in certi casi, senza dissimulare che tale forma di governo è pressochè indispensabile nei tempi di guerra o d’interna agitazione, il conte Cavour teneva per fermo che l’Italia dovesse organarsi in modo da godere di tutta quella libertà amministrativa ch’è conciliabile coll’unità politica. Egli aveva pertanto accolta in massima l’istituzione delle regioni proposte dal Farini e dal Minghetti. Pronto a rinunciare a quel sistema se il voto del Parlamento gli fosse contrario, aspettava che la discussione pubblica gli facesse note intorno a ciò le intenzioni del paese, ed intanto non vedeva mal volentieri che i deputati nominati nelle parti della penisola più lontane da Torino si mostrassero più solleciti d’assicurare l’unità che non di rispettare le libertà amministrative. Egli sperava che l’esempio d’un Parlamento, più geloso ancora di quel che non fosse il potere esecutivo, di dare al Governo centrale tutta la forza e l’autorità necessaria, avrebbe posto termine all’accusa mossa contro il Gabinetto di Torino di volere sottomettere l’Italia al dominio piemontese. V’erano tuttavia concessioni ch’egli non era disposto a fare: quelle cioè che avessero recato detrimento alla libertà dei Comuni. Negava al Governo la facoltà di por mano nella gestione dei beni comunali, e non riservava a lui se non un semplice diritto di sorveglianza, del quale avrebbe fatto altresì volentieri rinunzia a favore della provincia, o d’altra corporazione amministrativa intermedia. Io gli dimostravo talora, e con me molti altri, che la libertà illimitata del Comune non sarebbe stata senza danni in quelle parti d’Italia in cui la popolazione è poco gli citavo l’esempio di certe città nelle educata quali l’amministrazione è ora meno buona di quel che fosse quando il governo aveva più mano nelle faccende comunali. Egli rispondeva: «Vi accontentereste di lasciare ad uno straniero l’amministrazione delle vostre sostanze, soltanto perchè egli avesse fama d’essere buon amministratore? I Comuni sono nello stesso caso. L’interesse dei contribuenti è la migliore guarentigia d’una retta amministrazione. Con un buon sistema elettorale, colla stampa che denuncia ogni abuso, io non vedo perchè gli abitanti del Comune non debbano amministrarsi meglio da sè, che non sotto la direzione di agenti governativi.» Voleva quindi che i Consigli comunali avessero la libera scelta dei sindaci, pei quali richiedeva soltanto alcune guarentigie di capacità e di moralità.
M’accadeva talora involontariamente d’esporgli le mie obbiezioni: ma ciò, anzichè spiacergli, gli andava a genio, ed egli mi incoraggiava colla maggiore bontà a discutere. Colpito dalla grandezza e dal valore pratico de’ suoi disegni, io l’ascoltavo in silenzio, pieno d’ammirazione rispettosa. Allora egli mi assediava di domande, e con voce quasi carezzevole, mi diceva: «Suvvia, fatemi le vostre obbiezioni.» Già convinto dentro di me ch’egli aveva le mille volte ragione, io m’arrischiavo a manifestargli qualche dubbio che il potente suo ingegno dissipava con mirabile prontezza.
La questione romana fu specialmente il soggetto di lunghi e frequenti colloqui. Io sapevo che sin dai principii della sua vita politica egli aveva propugnato nel giornale Il Risorgimento la teoria dell’assoluta separazione e dell’indipendenza reciproca dei due poteri. Sapevo ch’egli era contrario all’incameramento dei beni ecclesiastici; ch’egli pensava con Tocqueville esser utile che il clero abbia, mercè la proprietà del suolo, durevole comunione d’interessi colla civile società; non ignoravo insomma che il conte Cavour era così lontano dal fanatismo irreligioso come da quello della superstizione, e spesso era stato umile strumento d’una protezione che mai non mancò a quegli ecclesiastici degni di tal nome che ricorrevano al grande ministro. Tuttavia, benchè io concordassi con queste sue opinioni, quando egli manifestò per la prima volta il suo disegno di negoziar colla Corte Romana per offrirle la compiuta libertà ecclesiastica in iscambio della rinuncia al potere temporale, fui sbigottito dalle difficoltà e dai pericoli di quella impresa. Un giorno, seduto, come spesso, al suo desco mentre faceva colezione, mi feci coraggio, e gli parlai più a lungo e con maggiore ardimento. Pareva a me che la sua speranza d’indurre la Corte Romana ad accogliere le sue idee fosse chimerica, almeno sinchè l’Austria era accampata in Italia. Io soggiungeva ch’è natura dei poteri spirituali il non abdicare mai, e che il Papato sembravami destinato a perdere a poco a poco la sua temporale autorità, per effetto della indifferenza generale. Invitarlo a trasformarsi col disputargli un ultimo pezzo di territorio, forzarlo ad incominciare in forma nuova la carriera di nuovi destini, pareva a me pericoloso partito, giacchè s’andava incontro alla possibilità di far rivivere con una specie di martirio un ’ istituzione avente per base unica il principio d’autorità, e che è quindi inconciliabile colle società moderne, le quali poggiano sul principio di libertà. Ammettendo pure l’ipotesi che il Papa rinunciasse al potere temporale, io temevo le conseguenze di un’assoluta libertà ecclesiastica sui popoli dell’Italia meridionale, così superstiziosi ancora, così poco innanzi nell’istruzione elementare.
Egli ascoltò senza interrompermi queste osservazioni, poi rispose colla sua consueta vivacità: «Non ho i vostri timori: ho più di voi fiducia negli effetti della libertà. Potete voi immaginare l’Italia senza Roma, ed assegnare a Roma altra parte che quella di metropoli d’Italia? Non vedete ch’è giunto il momento di sciogliere quella questione del potere temporale che fu in ogni tempo l’ostacolo maggiore allo svolgimento della nazionalità italiana; e che il solo modo di sciogliere quella questione si è il rassicurare il mondo cattolico circa le sorti che l’Italia nuova darà al Papato? S’ingiuria il cattolicismo dichiarandolo inconciliabile colla libertà. Io sono convinto invece che non appena la Chiesa avrà assaporato i frutti della libertà, si sentirà ringiovanita da quel nutrimento salubre e vivificatore. Per qual ragione i cattolici sinceri e savi che sin dal 1831 chiedevano per la Chiesa la soppressione d’ogni privilegio, vale a dire l’applicazione del diritto comune, non accetterebbero ora una soluzione che porrebbe fine ad una mostruosa condizione di cose? Voi dite che il Papato non vorrà mai abdicare: io non domando un’abdicazione esplicita, mi contento d’una tacita rinuncia. D’altronde credete voi che il Papa abbia ancora un regno da abdicare? Pensate forse che il potere temporale viva ancora davvero? La prova ch’egli è morto si è che l’occupazione di Roma per parte delle milizie francesi non desta alcuna gelosia nelle altre potenze cattoliche. Sarebbe egli stato lo stesso dal XIII al XVI secolo? Non è forse evidente che il papa cessò d’essere principe sovrano dacchè vive non con mezzi propri ma di elemosine, dacchè accetta con ripugnanza una protezione che abborre? Quando l’Europa sarà persuasa che noi non vogliamo recare danno al cattolicismo, troverà naturale e conveniente che la bandiera italiana sventoli a Roma invece d’una bandiera straniera. L’assunto non è facile, ma è degno tanto più d’essere compiuto. Non è indarno che l’Italia indugiò tanto a ricuperare l’indipendenza e l’unità. La ricostituzione della nostra nazionalità non dev’essere sterile pel resto del mondo. A noi spetta di porre fine alla grande battaglia fra la civiltà e la Chiesa, fra la libertà e l’autorità. Checchè voi diciate, io nutro la speranza di indurre a poco a poco i preti più colti, i cattolici sinceri a concordare meco. E chi sa ch’io non possa dall’alto del Campidoglio firmare una nuova pace di religione, un trattato che recherà alle sorti avvenire dell’umana società effetti ben più grandi che non ebbe la pace di Vestfalia!»
Egli terminò il nostro colloquio con queste nobili parole. Io stimai di doverle riferire, quali mi sono rimaste in mente, senza neanco nascondere le mie dubbiezze, perchè queste fanno risaltar vieppiù il forte e deliberato convincimento del conte Cavour. Non è più lecito infatti il porre in dubbio la sincerità di quest’uomo di Stato in quell’ardito tentativo. Eppure, perfino in Italia, uomini che appartengono al partito liberale si sono stranamente ingannati sui motivi che indussero il conte Cavour a far dichiarare solennemente dalle Camere che Roma debb’essere capitale d’Italia. A qual fine (spesso si chiese) prendere possesso anticipatamente d’una città ch’è occupata nel tempo stesso e dalla Francia e dalla Santa Sede? Dire che non s’ha ad andare a Roma se non dopo di essersi messi d’accordo col mondo cattolico non equivale forse al rimandare la rivendicazione della nostra capitale sin dopo l’adempimento d’una condizione ineseguibile? Così, anche per alcuni tra i fautori del conte Cavour, quell’atto non sarebbe stato se non un meschino strattagemma. Non potendosi (dicevano) rinunciare per sempre alla riunione di Roma all’Italia, e non volendo in realtà spogliare Torino dei privilegi d’una capitale, si rimandava pomposamente lo scioglimento della questione al tempo in cui sarebbe stata conclusa una transazione che nulla fa sperare prossima o possibile.
Ben diversi furono gli intendimenti del conte Cavour. Certo, sarebbe stato grave per lui il togliere a Torino il grado e lo splendore di una capitale. Ma egli non avrebbe esitato fra questo, che sarebbe stato in certa guisa per lui un atto personale d’abnegazione, e il fermo convincimento in cui era della necessità che Roma fosse in avvenire la capitale del nuovo regno. Egli era così certo che i cittadini torinesi avrebbero accettato volenterosi il nobile sacrificio, che ripetè più volte, dopo il suo discorso su Roma, di essere pronto a dare la sua dimissione da deputato, certo come era che i suoi elettori torinesi avrebbero rinnovato il suo mandato colla stessa unanimità. Ed io potei quindi osservare che niuno degli argomenti addotti da Massimo d'Azeglio nel suo celebre opuscolo su Roma potè smuovere dal suo convincimento il Presidente del Consiglio. Con quel celebre voto il conte di Cavour mirava a raggiungere immediatamente un duplice scopo. In primo luogo egli faceva cessare una sorgente perenne di agitazione, e troncava d’un colpo le discussioni sulla scelta d’una capitale, le quali già nel 1848, quando v’era gara soltanto tra Torino e Milano, avevano recato gli effetti più disastrosi. Nel tempo stesso riusciva a condur seco il Parlamento sulla via che egli s’era tracciata rispetto alla Santa Sede, e faceva sancire sin d’allora il gran principio della Chiesa libera nel libero Stato. Togliendo in tal modo ogni ragione alle risposte evasive del cardinale Antonelli ed ai suoi rifiuti d’entrare in negoziati, levandogli con quelle pubbliche e solenni dichiarazioni ogni pretesto di metter dubbi sulla buona fede del Gabinetto torinese, il conte Cavour intendeva costringere la Santa Sede a scegliere fra la libertà religiosa e le reliquie del potere temporale. Quelle dichiarazioni insomma erano un appello al mondo cattolico: esse miravano a provocare il giudizio della pubblica opinione sulla separazione dei due poteri, ed a cattivare a poco a poco le anime sinceramente religiose al sistema del grande ministro italiano.
E qui mi sia concesso parlare alquanto d’ uno dei più notevoli tratti del suo carattere: vale a dire della sua estrema riverenza verso l’opinione pubblica. La quale pareva a lui la vera regina del mondo. Egli pensava niuna mutazione di fatto poter essere durevole, se prima non fosse maturata nelle idee. Già mentovai il suo rispetto per la libertà della stampa: e certo è superfluo parlare dell’importanza che avevano a’ suoi occhi le discussioni parlamentari. Com’egli lo dichiarò alla Camera dei deputati, le sue note diplomatiche erano rivolte assai più ai popoli che ai governi stranieri. Egli faceva di ragion pubblica tutto ciò che non fosse per tornar pericoloso ai gabinetti con cui negoziava, e riuscì, mercè questi frequenti appelli all’opinione pubblica, a sostituire nelle relazioni diplomatiche l’idea di nazionalità al concetto pagano o feudale di Stato: immensa rivoluzione dalla quale è sorta l’Italia. Ed è specialmente in quella questione romana, questione delicatissima, intorno a cui la forza è impotente non solo, ma dannosa, questione di coscienza e d’alta morale, ch’egli sentiva tutta la necessità di avere alleata la pubblica opinione. Il voto del Parlamento doveva esercitar sulle menti quell’alta autorità alla quale il conte Cavour non volle mai rinunciare, malgrado il suo rispetto per le opinioni diverse dalle sue: quel voto rendeva impossibili le mezze soluzioni, gli espedienti fantastici: calmava da un lato i timori sinceri ed esagerati del partito cattolico, dall’altro le impazienze naturali o calcolate del partito radicale: segnava finalmente alle aspirazioni della nazione una mèta sublime, la quale non si potrebbe altrimenti raggiungere se non dando all’Europa pegni di concordia, di moderazione, di sapienza civile.
Tali erano le idee del conte Cavour, e benchè la sua morte abbia seguìto ben da vicino, ahimè, le discussioni parlamentari su quest’argomento, egli visse abbastanza per presentire il trionfo delle sue idee. Incaricato, com’ero, di fargli il riassunto della sua corrispondenza confidenziale, potei aver prove io stesso delle numerose adesioni che da ogni lato venivano al suo programma della libera Chiesa nel libero Stato. Ed egli mi parlava con sempre nuovo entusiasmo delle probabilità che gli apparivano di riuscire ne’ suoi disegni. La sua parola si innalzava allora sino all’esaltazione, alla poesia: io rimanevo attonito vedendo quell’economista, quel politico avveduto, quella mente così pratica esprimersi con tanto calore sull’alleanza possibile, anzi prossima, fra il cattolicismo e la libertà.
Ma egli è che il suo cuore era pari all’ingegno, e che egli accoppiava alla più severa logica un carattere pieno di fede generosa. Parlai a lungo della liberalità della sua natura; un altro indizio la renderà meglio nota. Il suo primo impulso era sempre pieno di benevolenza. Anche rispetto a coloro che gli venivano innanzi per la prima volta, nel suo contegno spirava sempre un’amabile confidenza. Si vedeva chiaro che gli era grave il credere gli uomini maligni, e che egli non stava in guardia se non a malincuore. Questa tendenza che in uomo così esperto e di cose e di uomini non poteva attribuirsi a mancanza di sagacità, è, a parer mio, indizio di bontà vera. Egli andava soggetto a veri accessi d’ammirazione e d’entusiasmo per alcuno de’ suoi amici, e perciò l’accusavano spesso a Torino di non sapere scegliere le persone da cui era circondato. A me non s’addice il difenderlo da tali rimproveri. Posso dire però ch’egli credeva invece d’essere buon giudice anche degli uomini e che godeva del trionfo de’ suoi amici come del proprio. Egli non fu mai avaro della sua ammirazione agli uomini che in qualche modo la meritassero. Colla stessa imparzialità riconosceva le doti dei suoi avversari politici e prendeva con calore la loro difesa quando qualche malaccorto li assaliva in sua presenza. Mirando sovrattutto al suo fine, egli non capiva i rancori politici; e quelli ch’erano stati ieri i suoi avversari potevano diventar suoi stromenti o suoi aiuti pochi giorni dopo. Questa condotta lo fece spesso accusare di versatilità, di poca costanza di principii. V’ha chi non gli perdonò mai d’aver concluso nel 1853 un’alleanza col centro sinistro della Camera e d’avere associato il signor Rattazzi al suo governo. Lo stesso rimprovero gli fu fatto per avere chiamato nel 1859 il generale Garibaldi a formare un corpo di volontari ed a pigliar parte cogli eserciti di Francia e di Sardegna alla liberazione d’Italia. Chi non gli stette accanto nei mesi d’aprile, maggio e giugno 1859 può difficilmente farsi un concetto adeguato della sua operosità. Egli era nel tempo stesso Presidente del Consiglio, Ministro degli Affari esteri, degl’interni, della Guerra e della Marina. S’era fatto porre un letto negli uffizii del Ministero della Guerra, e la notte, avvolto nella sua veste da camera, egli correva dall’uno all’altro Ministero per dar ordini relativi ora all’artiglieria, ora alla corrispondenza diplomatica, talora infine alla polizia. Tutto assorto nella sua grande opera, che gl’importava dei dissidii che lo disgiungevano da Garibaldi? Volevano entrambi liberare l’Italia dallo straniero il resto non aveva grande importanza. Una notte il Generale venne a sedersi al letto del conte Cavour ed accettò nell’impresa che stava compiendosi una parte che di tanto accrebbe ed a buon diritto la sua fama. Quanto a Cavour, egli non pensò neanche agli imbarazzi che doveva trar con sè quell’alleanza col partito più avanzato. E quando, in mezzo alle crisi dei due anni successivi, lo rimproverarono d’aver rinvigorito quel partito richiamando sul teatro della guerra l’eroe di Montevideo, egli rispondeva ricisamente esser ben lungi dal pentirsene, sì urgente era la necessità di trasformare in esercito italiano il prode esercito de’ Re di Sardegna e di trovar modo che il maggior numero possibile d’Italiani pigliasse parte alla guerra nazionale. — A ciò fece allusione il 20 aprile 1861, nella memoranda seduta in cui il generale Garibaldi accusò alla Camera il conte Cavour d’aver tradita l’Italia colla cessione di Nizza e Savoia. Io fui presente a quella scena, e non dimenticherò mai l’impressione fatta su me da quell’urto di due spiriti d’indole così diversa, caldi egualmente d’amore per l’Italia, ma divisi da memorie dolorose: quella lotta fra un alto ingegno avvezzo da gran tempo a piegare a tutte le necessità della politica, e l’istinto impetuoso ed ingenuo d’un uomo che cede alle ispirazioni di passioni tanto più cieche ed irrefrenabili quanto più generose. Irascibile per temperamento al pari del generale Garibaldi, avendo malgrado la sua robusta salute, tutta la delicatezza nervosa d’una donna, il conte Cavour fece allora uno sforzo supremo sovra di sè: le sue brevi parole l’innalzarono sino a tale commovente altezza, cui mai la sua eloquenza non era giunta per lo innanzi, e da cui, per paura di cader nel retorico, si teneva lontano. Egli fu nobile e patetico, fiero e modesto nel tempo stesso, perchè sentiva fortemente ciò che diceva, quel che spesso egli ripeteva a me nei suoi privati colloquii.
Quando il nostro pensiero cerca di raccogliere in un punto quella sua mirabile carriera politica, molti contrasti che parevano inesplicabili scompaiono e trovano giustificazione in quel suo amore illimitato della libertà. Accusato dai repubblicani d’essere clericale, dagli ultra cattolici d’essere ateo o rivoluzionario, Cavour non si lasciava sviare dal suo cammino. Imparziale senza esser mai apatico, la diffidenza degli utopisti non lo spingeva sino all’idolatria dello statu quo, nè il disprezzo della pedanteria, alla passione per tutte le novità. Egli era largo di consiglio e spesso di danaro a chi piantava per la prima volta in Italia qualche nuovo ramo d’industria: accoglieva con piacere chi gli apportava esteri capitali, ch’erano necessari per compiere gli enormi lavori pubblici da lui tanto vigorosamente iniziati. I finanzieri erano sbigottiti dall’ardimento con cui spingeva il Piemonte ad intraprendere il traforo del Cenisio, il trasporto dell’arsenale militare da Genova alla Spezia, le fortificazioni di Casale e d’Alessandria e mille altre opere per un piccolo Stato gigantesche. Ma quando si veniva a proporre alla Camera di sostituire all’esercito regolare squadre di volontari, quando si chiedeva l’abolizione delle tasse indirette e la creazione d’una imposta unica sulla rendita o d’una tassa progressiva sul capitale, egli rigettava con inesauribile copia di argomenti codeste inopportune proposte che avrebbero bastato per impedire al Piemonte di compiere la sua missione liberatrice. Cavour ebbe sovratutto ciò che mancò finora a tanti altri uomini politici: egli ebbe, oltre l’istinto, la scienza della libertà. Egli abborriva da tutte quelle teorie che hanno apparenze liberali, ma sono dispotiche nel fatto. Spesso, parlando di Mazzini e dei repubblicani egli mi disse: «Ammiro la loro abnegazione, ma il loro fanatismo mi fa orrore.» Egli amava il sistema rappresentativo e parlamentare, perchè pareva a lui che fosse il modo più efficace di mettere continuamente in moto tutti gli intelletti, di educare le classi meno fortunate della società collo scambio incessante delle idee e la indefessa discussione. Per impedire che codesto moto continuo si muti in uno sterile turbinio, è necessario, secondo lui, al centro della macchina un pernio che ne diriga l’esercizio e lo renda più regolare, una dinastia posta al disopra dei partiti, ed avente interessi inseparabili da quelli della nazione. Il potere esecutivo giusta il concetto del conte Cavour non deve mai andare a ritroso dai pensieri e dai bisogni del popolo: esso deve invece precedere la nazione ogniqualvolta si tratti di giusti e possibili provvedimenti, per poter resistere con sufficiente autorità morale quando la folla si lascia trasportare ad impeti pericolosi e funesti. «Niuna repubblica (amava egli di ripetere) può dare una somma di libertà più vere e più feconde di quelle che comporta la monarchia costituzionale, purchè meschine gelosie, funeste diffidenze non ne inceppino il lavoro. La forma di repubblica veramente adatta ai bisogni ed ai costumi dell’Europa moderna non fu ancora inventata.... prima di trovarla è d’uopo compiere quella grande missione della educazione popolare, che sarà la gloria speciale del nostro secolo.» Egli non ammetteva pertanto il suffragio universale se non in quei casi straordinari in cui, ogni cosa essendo in pericolo, la necessità di tutto riedificare costringe a fare appello a tutti. Benchè fosse propenso a diminuire gradatamente il censo elettorale, egli avrebbe combattuto vigorosamente la proposta di stabilire come istituzione permanente e definitiva in Italia, il suffragio universale: giacchè, a’ suoi occhi, la miglior guarentigia della libertà dell’elettore è la sua capacità.
Al conte Cavour andavano del resto poco a sangue le professioni di fede, ed egli aveva grande ripugnanza per quello che si chiamò spirito dottrinario. La sua indole era avversa ad ogni genere di dogmatismo. Soleva dire che la miglior conclusione degli studi storici si è che ogni società vive mercè la combinazione di principii diversi, l’equilibrio di molte forze. Lungi dal pretendere d’essere infallibile, egli confessava spesso d’avere sbagliato, sia nel giudicar certi uomini, sia nell’apprezzamento di certi fatti. «Il primo giorno ch’io abbia tempo (mi disse egli una volta) vi farò la lista dei miei errori politici: non sarà questa la lezione meno istruttiva per noi.» In altra occasione egli sorridendo diceva: «Gli uomini che siedono al governo non s’avvedono mai quando diventano impopolari: la è una grazia di Dio, che hanno i ministri, come i mariti.»
Ognuno sa che il conte Cavour, benchè avesse coscienza di quanto valesse e della grandezza della sua missione, aveva serbata quella semplicità di modi, quella arguta bonarietà che rendeva tanto seducente la sua parola. Nulla era troppo da poco per lui: si prendeva cura della vostra persona, delle vostre abitudini, delle vostre affezioni. Il suo sguardo vi leggeva nel viso i pensieri: le sue interrogazioni, senza essere mai indiscrete, facevano vedere che penetrava benissimo i sentimenti del suo interlocutore. Spesso, dopo essersi occupato a lungo degli affari di marina, degli interni, o della finanza, passava nel salotto ov’io lavorava, e là saltando e correndo come uno scolare in vacanza, riposava alquanto conversando con me. Il suo spirito arguto se n’andava allora di gran carriera: i frizzi sui suoi avversari, su gli oratori ampollosi dell’estrema destra e dell’estrema sinistra piovevano in tal copia ch’ei pareva in tal momento cercare un compenso del riserbo in cui, a poco a poco, s’era abituato a rinchiudersi nei suoi discorsi alla Camera. Spesso si canzonava da sè, specialmente quand’era obbligato a comparire in grande uniforme nelle feste ufficiali. Tranne le occasioni in cui non poteva farne a meno, egli non portava mai decorazioni, ed aveva poco simpatia per coloro che amano far pompa di nastri. Alcuno avendogli proposto di istituire un ordine nuovo, destinato a tener luogo di quelli che v’erano nei diversi Stati della penisola, egli vi si rifiutò: «Non vedete che la tendenza della società presente è contraria a siffatte idee? Perchè creare nuove cause di ineguaglianza, quando una irresistibile forza spinge tutte le classi verso l’eguaglianza? Scommetto che fra cinquant’anni non vi sarà più alcun ordine cavalleresco in Europa.» Se questa profezia si avvererà, non so dire: ma codeste parole d’un uomo ch’era fregiato di quasi tutti gli ordini europei, mi parvero degne d’essere riferite.
Ed anco alla nascita egli non dava alcun peso. Un giorno gli chiesi perchè un motto tedesco Gott Will Recht si trovasse nel suo blasone; «Dicesi (mi rispose) che la mia famiglia tragga origine dalla sonia e che un pellegrino per nome Benz sia venuto in Piemonte verso il 1080. Da questo fatto avrebbero origine le conchiglie ed il motto che si trovano sul mio stemma. Ci credete voi? No? - Ed io neppure.» E diede in un rumoroso scoppio di risa. In altra occasione v’ebbe chi s’oppose a che un eminente personaggio fosse fregiato del Collare dell'Annunziata, rammentando che gli statuti dell’ordine impongono che esso non sia concesso se non a chi vanti una nobilissima genealogia: «Come non v’accorgete (disse Cavour) che in tal modo condannereste quell’ordine a non ricevere nel suo seno altro che uomini aventi più blasone che giudizio?» Con tutto ciò egli pensava che in Italia l’aristocrazia potrebbe avere ancora una bella parte. Noblesse oblige, era uno de’ suoi motti abituali: era avvezzo a dire che coloro che hanno illustri antenati devono riscattare con benefizi resi ai loro concittadini quel privilegio della nascita ch’è segno si spesso agli odii ed all’invidia. «L’eguaglianza dei diritti non farà mai cessare (egli diceva) l’ineguaglianza delle condizioni. Non v’ha quindi altro che un modo da prevenire il socialismo: è d’uopo che le classi superiori si consacrino al miglioramento delle inferiori; altrimenti la guerra civile sarà inevitabile.» Egli attribuiva specialmente a codesta benefica missione assunta dall’aristocrazia dei natali e della finanza la prosperità dell’Inghilterra, paese che egli sommamente ammirava. Sin dal principio della sua vita politica egli s’era proposto di foggiare il Piemonte sul modello dell’Inghilterra. Inglese più che francese era il genere della sua eloquenza, ed egli mirava ben più ad essere un perfetto debater che un grande oratore. Il suo senso pratico, le sue cognizioni economiche ed industriali, il suo rispetto di tutte le libertà avrebbero dato al conte Cavour un seggio eminente fra gli uomini di Stato d’Inghilterra. Egli aveva il loro patriottismo, e, checchè se ne dica, lo stesso senso di fierezza e di dignità. La flessibilità del suo carattere non si spinse mai sino ad offendere l’onor nazionale, e se mi fosse lecito parlare della sua politica estera, potrei addure più d’un esempio del coraggio ch’egli mostrò più volte nelle sue relazioni colle potenze estere. Dopo la cessione di Savoia e di Nizza i partiti estremi si compiacquero nell’attribuire al conte Cavour altre cessioni di territori. Oggi era la Sicilia, domani la Liguria o la Sardegna che dovevano cessare di appartenere al regno d’Italia. Come se fosse stato buon calcolo lo strappare all’Austria con grandi battaglie la Lombardia, il riunire con mi-’ racoli d’abilità e di patriottismo le popolazioni meridionali intorno a Vittorio Emanuele, per disfare da un lato quanto s’era fatto dall’altro, per abbandonare questa o quella delle più belle, delle più forti provincie italiane! Il pubblico buon senso ha tenuto in quel conto che meritavano queste calunnie: ma, benchè sia ormai superfluo il dirlo, mi sia lecito l’affermare anche una volta che Cavour non avrebbe acconsentito giammai a cedere alcuna delle provincie d’Italia. È debito mio il dichiarare nel tempo stesso che non si trattò mai, ch’io sappia, di disegni di siffatta specie, e che dopo la cessione di Savoia e di Nizza, io non ebbi mai sentore di velleità di questo genere per parte della Francia.
È egli forse necessario del resto di addure prove del coraggio del conte Cavour? Io l’ho veduto consegnare al barone di Kellersperg la risposta all’ultimatum dell’Austria: l’ho veduto dare senza esitazione l’ordine d’inondare le vaste pianure poste fra il Ticino, la Dora ed il Po, operazione abilmente preparata prima della guerra e che ha tanto contribuito alla sconfitta del generale Giulay. Ho infine ammirato la forte serenità dell’animo suo quando Torino fu minacciata d’essere invasa dalle truppe austriache. Senza por tempo in mezzo, sebbene ragioni strategiche consigliassero d’abbandonar Torino, il Ministro volendo impedire ad ogni costo che l’antica sede del regno piemontese cadesse in preda al nemico, ordinò preparativi di vigorosa difesa. Una Commissione ebbe l’incarico di far costruire le barricate, furono spediti ordini col telegrafo per chiamare alle armi gli abitanti delle vicine città, e tutto ciò fu fatto senza ostentazione, senza proclami, senza che nelle vie e nelle piazze di Torino alcuno si fosse accorto della commozione di quei giorni solenni.
Discorrendo dell’Inghilterra, il conte Cavour amava dire che nella politica estera di quel paese avverrebbe probabilmente fra breve una mutazione analoga a quella che s’era fatta nelle sue leggi commerciali. «Il governo inglese non è più ormai sul continente il campione del governo assoluto, nè facile sarebbe per un ministro di quel regno il fare alleanza coll’Austria contro l’Italia. È d’uopo riconoscere che il patriottismo britannico incomincia a trasformarsi, a farsi meno esclusivo, meno egoista, e giova sperare che d’ora in poi esso non farà più consistere la prosperità inglese nell’abbassare quella degli altri Stati, ma cercherà invece di stringere vincoli internazionali fondati sulla umanità e sulla giustizia.» Però, benchè avesse molta ammirazione per gli uomini della scuola di Manchester, egli non credeva che i congressi della pace potessero essere molto efficaci per l’avvenire dell’Europa. «Le guerre, sovrattutto quelle senza giusta causa, tendono ad esser sempre meno frequenti in Europa: ma la pace perpetua mi sembra un ideale cui dobbiamo cercare di avvicinarci, senza però confidare di raggiungerlo.»
Il conte Cavour negava soprattutto la probabilità d’una guerra fra la Francia e l’Inghilterra. Il supposto d’un fatto simile l’atterriva come annuncio di una nuova èra di barbarie. La Francia e l’Inghilterra erano agli occhi suoi i due poli della civiltà, il cuore ed il cervello dell’Europa: vederle concordi fra loro ed alleate all’Italia era il suo più caro sogno. Egli ritornava quindi spesso con amore nei suoi discorsi su quell’alleanza di Crimea ch’era stata il primo dei suoi grandi concepimenti diplomatici, e ch’egli avrebbe voluto ripetere non contro la Russia, ma contro l’Austria.
La sua gratitudine verso la Francia era pari all’ammirazione per l’Inghilterra. Egli deplorava soltanto che i Francesi, i quali hanno spiriti così liberali, abbiano così poca liberalità nelle idee: che una nazione che tanto ama la libertà, non abbia potuto finora far allignare sul suo suolo quella pianta preziosa. Di ciò egli dava colpa all’eccessivo accentramento, e sperava che anche in Francia il progresso verso la libertà avrebbe avuto principio dalle riforme commerciali. Vedeva con grande compiacenza le innovazioni fatte dall’Imperatore nel sistema doganale. Pochi giorni prima di morire egli mi raccomandò di tener raccolti i numeri del Moniteur in cui v’era la esposizione delle discussioni sulla soppressione del sistema della scala mobile dei dazi, e sperava, pur troppo indarno, di leggerli appena fosse guarito.
In tal modo quel sommo ingegno mirava sempre alla libertà come al proprio centro. Sarebbe malagevole l’enumerare tutti i servigi resi da Cavour alla causa della libertà. Essi non si ristringono soltanto alla nostra Italia. L’Austria, avendo a fronte una diplomazia superiore alla sua, costretta a venirne brutalmente al giudizio delle armi, si mutò sotto la sferza dell’avversità, in governo parlamentare. Anche per quest’aspetto adunque le battaglie di Magenta e di Solferino recarono benefici effetti. Le sconfitte austriache furono vere vittorie per la famiglia slava e la ungherese. Tutti i popoli del centro e del nord dell’Europa sentirono la scossa data dai fatti seguiti in Italia. I Tedeschi incominciarono a sentire quel bisogno profondo di forza e di grandezza che trasforma in nazione una stirpe priva finora di coesione politica. La Prussia, malgrado le sue esitanze, non indietreggierà sempre, innanzi al cómpito che le fu assegnato dalla storia: l’esempio del Piemonte ha un prestigio ed un insegnamento che non sarà perduto per lei.[3]
I liberali di Francia troveranno anch’essi un giorno, giova sperarlo, qualche ragione di render giustizia a quell’uomo cui la Francia e l’Italia sono debitrici della loro alleanza. Quando il tempo avrà sepolto nell’oblio i rancori personali e le piccole tattiche dei partiti, si riconoscerà che la politica estera della Francia reagì sulla sua politica interna: che quella non potè essere larga, riformatrice, liberale senza che questa si modificasse, entro certi limiti, nello stesso senso. Si saprà buon grado al conte Cavour d’aver enunciato pel primo la vera soluzione di quel problema delle relazioni fra la Chiesa e lo Stato che la generazione presente è ormai forzata di sciogliere. Il Concordato del 1801 fu tregua, non pace. La Francia, nazione cattolica insieme e volterriana, rivoluzionaria e clericale, dovrà uscire finalmente da siffatto circolo di antinomie, e dare alla Chiesa la sola libertà che le è necessaria, quella del diritto comune.
Così, per la prima volta dopo tanti secoli, un Italiano fu in grado di esercitar sull’Europa una vera e grande autorità politica. Quella idea della nazionalità italiana di cui la nostra letteratura aveva serbato da Dante in poi la splendida tradizione, non s’era ancora incarnata in un uomo che avesse l’altezza e le doti d’un vero uomo di Stato. Alfieri, Foscolo, Manzoni, Balbo, Gioberti, lo stesso Massimo d’Azeglio furono letterati o filosofi, anzichè uomini politici. Era d’uopo sorgesse chi al patriottismo dell’Italiano accoppiasse la cognizione positiva e minuta delle vere condizioni dell’Europa, e dei mezzi richiesti dal moderno progresso: chi cercasse la liberazione della Italia non già nella negazione selvaggia di tutte le tradizioni religiose o politiche, ma nell’intima colleganza colle nazioni più civili. Tale fu il conte Cavour: codesto fu l’alto ufficio assegnatogli dalla Provvidenza.
Eravamo nel maggio del 1860. Il conte Cavour ritornava da una di quelle rapide gite che interrompevano talora la serie feconda dei suoi lavori. A poche miglia da Torino egli mise il capo alla portiera della carrozza e mi disse: «Vedete laggiù quel campanile mezzo nascosto fra gli alberi? È la chiesa di Santena, è il castello ereditario della mia famiglia. Là voglio riposare dopo morte.» Chi m’avrebbe detto allora ch’era così prossimo il termine di quella potente vita, di quella persona, di cui vagheggiavo spesso l’immagine veneranda, quale sarebbe un giorno giunta alla vegeta canizie dei Palmerston e dei Russell! Chi m’avrebbe detto allora che un anno appena dopo quel viaggio, io dovrei, compiendo un mestissimo ufficio, accompagnare a Santena la salma del grande Ministro! Quel lugubre pellegrinaggio non m’uscirà mai dalla mente. Vedevo per la prima volta quei grandi alberi, quei giardini, quel castello di cui egli m’aveva spesso parlato, ma ove non si recava quasi mai, perchè nei suoi rari momenti di riposo preferiva andare a Leri, ove le vaste praterie e le risaie meglio si confacevano alle sue laboriose abitudini. Benchè tutti gli abitanti dei villaggi vicini fossero accorsi a Santena, quel funebre convoglio era umile e modesto: ma in tutto il corteggio, sul viso di tutti era scolpito un profondo dolore. Quando fummo nel sotterraneo ove sono i sepolcri della famiglia, si vide che la nicchia scavata nella parete nel luogo che Cavour stesso aveva indicato, era troppo piccola; fu d’uopo scavarla ancora. Quei colpi di martello mi risuonavano nel cuore: parevami sentire la fatalità che da tanti secoli imperversa contro l’Italia, infuriare con empio accanimento e demolire lo splendido edificio quasi compiuto dal grande Italiano!
A noi, agli Italiani spetta però la cura di mantenere la fama di Lui, poichè essa è inseparabile dall’avvenire del nostro paese. L’uomo che in mezzo alle più angosciose crisi politiche, esclamava nella solitudine delle sue stanze: «Perisca il mio nome, perisca la mia fama, purchè l’Italia sia!» è ben degno che gli Italiani gli serbino nel cuore un culto perenne. La missione degli uomini veramente grandi non ha termine colla morte. Modelli di abnegazione e di patriottismo, essi diventano nella tomba l’ideale del popolo per cui hanno consumata la vita. La condotta degli Italiani sarà, giova sperarlo, informata dalla memoria del conte di Cavour. Essi sapranno, come lui, congiungere la vastità del concetto al senso della realtà; la imparzialità dei giudizi all’amore operoso del bene. Come lui sapranno evitare e l’apatia ed il fanatismo, esser tolleranti d’ogni sincera opinione, inesorabili per ogni ipocrisia; come il grande Ministro sapranno evitare di mettere in contrasto gli interessi veri della patria con quelli della giustizia e della umanità. Allora l’Italia, formando un corpo politico omogeneo, raccolto liberamente intorno al suo Re, svolgendo le immense sue forze nella via del progresso civile, sarà splendida testimonianza della virtù di quell’uomo che le schiuse la via a’ suoi novelli destini.
DISCORSI.
- ↑ Ecco alcune lettere scritte in quel breve riposo dal conte di Cavour ad uno dei suoi più cari ed intimi amici, Michelangelo Castelli. Noi le riproduciamo nel testo francese.
«Prissinge, près Genève 7 août 1859.
» Cher Castelli, à mon retour de Chamouni, je trouve l’intéressante lettre que vous m’avez écrite en revenant de Bologne. Si quelque chose pouvait adoucir la souffrance que m’a fait éprouver la malheureuse paix de Villafranca, c’est l’attitude admirable de l’Italie centrale. Si ces contrées parviennent à demeurer libres et indépendantes malgré la diplomatie, je dirai que l’issue de la guerre a été un avantage pour elles, car cette indépendance, elles la devront à leur propre vertu, et non pas aux armes étrangères.
» J’ai reçu, en même temps que votre lettre, une lettre de Farini. Je suis heureux qu’il justifie pleinement l’opinion que j’ai toujours eue de lui. Saluez Rattazzi. Assurez -le de mon concours en tout et pour tout. Je ne ressens de curiosité d’aucune espèce à l’égard des secrets de sa politique; par choix, je veux plutôt rester tout à fait étranger aux affaires du jour; toutefois, si Rattazzi jugeait utile un conseil de ma part, je suis toujours prêt à le donner avec franchise.
» Vous savez qu’en politique je pratique largement l’avantdernier précepte du Pater noster. Rattazzi, en acceptant le ministère après la paix, a fait acte de courage et dé patriotisme. Il a donc droit à l’appui des citoyens honnêtes et libéraux; il aura le mien, franc, loyal, énergique.
» J’ai été à Chamouni en passant par Bonneville, et je suis revenu par Taninge. Les libéraux du Faucigny m’ont accueilli avec une sympathie toute particulière. Je resterai encore quelques jours à Genève, et je ne reprendrai la route de Turin que lorsque je saurai que la chaleur diminue en Piémont. Écrivez-moi, et croyezmoi votre ami bien affectionné.»
«19 août.
» Je vous préviens que je partirai dimanche de Genève. Ne voulant pas me rapprocher de Zurich, je vais me réfugier à Aix. Veuillez m’y écrire pour me dire si la température est supportable en Piémont. Dans le cas affirmatif, je reprendrai le chemin de Turin pour aller dans un coin donner des conseils, si l’on m’en demande, et me tenir bien tranquille si l’on n’a pas besoin de moi. Si, à votre retour de Florence, Rattazzi vous laisse libre, venez me rejoindre; nous reviendrons ensemble en traversant quelque montagne à votre choix, le mont Cenis excepté. Croyez à ma sincère amitié.»
«Sans date. Probablement novembre 1859.
Cher Castelli, vous ne pouvez, vous ne devez pas douter que vos lettres ne me soient agréables toujours, et aujourd’hui plus particulièrement. Je n’ai pas renoncé à la politique j’y renoncerais si l’Italie était libre; alors ma tâche serait accomplie; mais tant que les Autrichiens sont de ce côté des Alpes, c’est un devoir sacré pour moi de consacrer ce qu’il me reste de vie et de forces à réaliser les espérances que j’ai travaillé à faire concevoir à mes concitoyens. Je suis décidé à ne pas user inutilement mes forces en des agitations vaines et stériles; mais je ne serai pas sourd à l’appel de mon pays.»
«Leri.
».... La nomination du prince de Carignan à l’unanimité, son acceptation du poste périlleux où les vœux des peuples de l’Italie centrale viennent de l’appeler, l’approbation du Roi et, par suite, du ministère, sont des événements de la plus haute importance, qui exerceront, j’en suis certain, la plus heureuse influence sur les destinées de notre patrie....
» .... A Leri on a du temps pour tout, même pour lire la prose de Mme de S.»
«Leri.
».... Ne m’en veuillez pas si je ne vous écris pas: c’est que je ne veux pas vous entretenir des discussions du conseil communal de Trino, dont je suis un membre assidu: ce sont les seuls événements auxquels je puisse prendre part. Pardonnez-moi donc mon silence, et continuez à me tenir informé de ce qui arrive de plus intéressant dans le monde politique. Je vous envoie sous ce pli une lettre d’un ex-prêtre qui se plaint qu’on lui refuse un passeport. Je ne le connais point, mais s’il n’existe rien de trèsgros à sa charge, je crois qu’il serait préférable de le laisser aller où il veut, afin d’éviter qu’il aille faire du vacarme à Londres. Ne perdez pas cette lettre; elle contient l’adresse du pharmacien qui vend l’huile de marron contre la goutte.»
«Leri.
».... Lundi matin je serai à la disposition de Rattazzi; mais comme avez employé d’une manière ambiguë, contre les préceptes de don Bianco, le pronom sua, je ne sais si la commission * doit se réunir chez moi ou chez Rattazzi. Dans la première hypothèse, veuillez ordonner à mon grand Martin de mettre en ordre la salle à manger pour les travaux de la commission. J’attends demain lord Clanricarde, qui a voulu absolument venir. Aujourd’hui j’ai eu le feu chez moi; il m’a détruit beaucoup de fourrage. Patience! Aimez-moi bien.»
- Pour la loi électorale. M. de Cavour en était le président.
«Leri, 8 décembre 1859.
» Mon cher Castelli, Nigra est arrivé hier, comme vous me l’aviez annoncè, non pour me communiquer ma nomination au congrès de Paris, mais simplement pour me dire qui le ministère n’ayant encore rien reçu de Paris, D. m’engageait à prendre patience et à ne pas bouger de Leri.
» Me voilà donc relégué ici indéfiniment! Pour ce qui me concerne, j’en prends gaiement mon parti, car la vie que je mène me convient tout à fait. Je m’amuse parfaitement tout seul ou avec les bons cultivateurs au milieu desquels je vis. Je suis tout résigné à passer l’hiver entier ici. Mais.... » Puisque je suis bien décidément un rilegato, j’ai le droit d’invoquer de votre amitié une visite. Un de ces jours que le soleil luira comme aujourd’hui, venez me trouver, je vous prie. Cela me procurera quelques heures agréables et de précieux souvenirs. Croyez à ma sincère amitié.»
- ↑ Un giorno a Pisa egli mi destò sull’alba e volle visitar meco di nuovo, passeggiando per la città deserta e silenziosa, i monumenti che aveva veduti un po’ in fretta il giorno innanzi in compagnia del Re. Quando fummo al Campo Santo mi disse: «Quanto dev’esser placido e sereno il riposo qua dentro!» Gli feci osservare, celiando, ch’eravamo in terra santa, e che la terra da noi calpestata era stata portata dalla Palestina, al tempo delle Crociate. - «Siete voi ben certo (replicò egli con quella sua scherzosa ironia) che un bel giorno non sarò canonizzato?»
- ↑ Rammentiamo che queste pagine furono scritte cinque anni prima della battaglia di Sadowa.
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