Il conte di Cavour in parlamento/Sul progetto di legge per l'annessione delle provincie meridionali
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XVI.
SUL PROGETTO DI LEGGE PER L'ANNESSIONE
DELLE PROVINCIE MERIDIONALI.
La politica del conte di Cavour nelle faccende di Napoli del 1860 è stata da molti, specialmente fuori d’Italia, giudicata assai severamente. Alcuni, nella risposta che egli fece alle profferte d’alleanza recate a Torino da parte del re di Napoli dai signori Manna e Winspeare, non hanno voluto scorgere altro che un’arte sopraffina ed ingannatrice, ed è stato detto e ripetuto mille volte che egli avrebbe dovuto o accettar l’alleanza o dichiarare senza indugio la guerra. Coloro che ragionano in questa maniera non conoscono la questione che in modo assai vago ed incompleto. Il Gabinetto di Torino aveva pôrto al giovane re di Napoli, così come aveva fatto poco innanzi col padre suo, consigli di moderazione e di prudenza. Il conte di Cavour era tanto lontano dal voler favorire un rivolgimento nelle provincie del mezzogiorno, ch’egli, e prima e dopo il Congresso di Parigi, erasi astenuto dal seguire l’esempio della Francia e dell’Inghilterra, le quali col loro contegno diplomatico verso l’antico regno di Napoli non contribuirono poco ad affrettarne la caduta. Le istruzioni date al conte Salmour ed al marchese di Villamarina, legati della Sardegna a Napoli, dimostrano chiaramente che il Gabinetto di Torino, anche dopo Villafranca, non desiderava altro che vedere eziandio in quella parte d’Italia instaurato e mantenuto un governo costituzionale.
Ma perchè questo potesse avvenire erano indispensabili due condizioni: per parte del Governo di Francesco II era necessaria una lealtà al disopra di ogni sospetto; per parte dei suoi sudditi, una fiducia piena ed intiera. Ora appunto queste due condizioni mancavano. Infatti, attorno al giovane re si intrecciavano senza posa gl’intrighi reazionari, ed era noto a tutti che la regina madre manteneva una non interrotta corrispondenza con Vienna e che Francesco II implorava di continuo il perdono di Roma per aver dato a’ suoi sudditi la Costituzione. E dal canto loro le popolazioni, nella nuova libertà e nella promessa di un’alleanza col Piemonte non altro vedevano se non che la ripetizione della triste e sanguinosa commedia del 1848.
Ma v’ha di più. Erano giunti a notizia del conte di Cavour alcuni progetti del re di Napoli e della Corte di Roma, secondo i quali, ove l’insurrezione di Sicilia e lo sbarco di Garibaldi a Marsala non avessero ritardato lo sgombro dei Francesi da Roma già pattuito e concordato col cardinale Antonelli; le truppe di Francesco II si sarebbero congiunte con quelle del generale Lamoricière, ed avrebbero insieme con esse tentato la conquista delle Romagne a favore della Santa Sede. Finalmente, i commissari spediti dal re di Napoli a Torino, non avevano nemmeno la facoltà di riconoscere il Governo col quale trattavano: anzi una lettera autografa di Francesco II interdiceva loro espressamente di fare cosa alcuna che potesse indurre il Governo napoletano a riconoscere in qualsivoglia modo le usurpazioni commesse dalla Sardegna negli Stati del Papa. Così stando le cose, ognuno vede come le profferte di alleanza non avevano alcun valore.
Il conte di Cavour svolse con molta fermezza il suo pensiero su questa questione, in un dispaccio diretto a Pietroburgo il 25 luglio 1860. Giova riferirne i tratti seguenti:
«Il governo napoletano trovasi in uno stato assai singolare. Dopo avere perdurato, con una ostinazione di cui la storia offre pochi esempi, in una via falsa ed erronea che ha attirato sopra di esso la universale disapprovazione; dopo essersi più e più volte rifiutato d’unirsi con noi e di porre la sua autorità sovra la base larga e solida di una politica nazionale; spinto ora da pericoli di ogni maniera che da sè medesimo si è procacciato, tutto ad un tratto, gira di bordo e chiede la nostra amicizia. In quali condizioni viene fatta questa domanda? Metà del suo regno si è già sottratta al suo dominio: nell’altra metà, il popolo, educato da una polizia odiosa e da antecedenti assai deplorabili a diffidare delle libere istituzioni che ora gli si concedono, rifiuta il proprio aiuto a ministri onesti e liberali, e teme di udire da un momento all’altro tuonare nelle strade di Napoli il cannone della reazione. Egli è per distruggere questo incurabile sentimento di diffidenza; egli è per colmare l’abisso che pur troppo separa la popolazione dalla dinastia, che si domanda al re Vittorio Emanuele di farsi, egli, mallevadore della buona fede del governo napoletano, di chiamarlo a dividere con lui la splendida aureola popolare, ond’è giustamente circondata, pel suo governo savio e liberale e pel suo sangue gloriosamente versato su tanti campi di battaglia, la casa di Savoia. Frattanto l’esercito napoletano e di terra e di mare esita fra la fedeltà al re e il sentimento nazionale che lo seduce e trascina. Diserzioni in massa indeboliscono le truppe che combattono contro Garibaldi, e questo generale con un pugno d’uomini, si impadronisce di Palermo, fa indietreggiare masse enormi di soldati, e compie una impresa che sembrava temeraria ed impossibile.
» Il vero nemico del governo napoletano è il discredito in cui è caduto. Un governo, anche senza appoggiarsi sulle instituzioni costituzionali, purchè rappresenti un principio nazionale, purchè amministri e punisca con giustizia e secondo le leggi, può avere l’aiuto del suo popolo, e i re, possono trovare soldati che si battano per essi, sopratutto allorchè si mettono bravamente alla loro testa. Ed a queste condizioni si trovano eziandio pronti alleati e vantaggiosi. Ma se, tutto al contrario, nel momento istesso in cui si festeggia la concessione di un nuovo Statuto, il popolo è atterrito alla vista degli spettri viventi che escono dalle galere; se l’esercito è corrotto dallo spionaggio, senza fiducia pei suoi capi, avvilito pei favori accordati a milizie straniere nè uso a combattere, da tre generazioni in poi, altri nemici che i propri concittadini, allora l’edificio crolla, non già per mancanza di forza materiale, ma bensì per l’assenza assoluta di qualsiasi generoso sentimento, di qualsiasi forza morale.....
» Quanto a noi, se fosse in nostro potere di rinvigorire un organismo affetto da incurabile senilità, certo non vorremmo astenercene; ma noi dobbiamo tener conto delle difficoltà che ci attorniano, e non offendere senza pro il sentimento nazionale. E facile, è generoso anche abbracciare il proprio nemico sul campo di battaglia; ma disgraziatamente la lotta che ha esistito fino ad ora fra i governi di Sardegna e di Napoli, non è di quelle lotte nelle quali si può rimanere con pari gloria o vincitori o vinti.»
Ma se da un lato era impossibile stringere alleanza con Napoli, dall’altro, la Prussia e la Russia adoperandosi molto a suo favore, era del pari impossibile dichiarargli guerra. Se si fossero aperte le ostilità contro il governo napoletano prima che le popolazioni avessero chiaramente addimostrato la loro ripugnanza ai Borboni, il moto unitario italiano sarebbesi mutato in una conquista pura e semplice. La Spagna, la Prussia e la Russia protestarono contro l’entrata dell’esercito di Vittorio Emanuele nelle provincie napoletane, benchè, quando ciò avvenne, Francesco II avesse già abbandonato Napoli, nè più gli rimanesse, come ultimo refugio, che una sola fortezza: quale e quanta opposizione non sarebbesi in tutta Europa sollevata contro di noi se avessimo dichiarato guerra al re di Napoli nel momento appunto in cui egli stendeva al Governo sardo una mano che poteva ancora essere stimata forte abbastanza da sostenere lo scettro?
Il conte di Cavour fu adunque, suo malgrado, costretto a temporeggiare. Egli dovette attendere che le popolazioni scegliessero fra la la bandiera di Vittorio Emanuele portata da Garibaldi nell’Italia meridionale e la dinastia borbonica. Per poco che queste avessero aiutato il governo napoletano a difendersi, l’impresa di Garibaldi sarebbe fallita come falli quella di Pisacane: dal loro contegno dipendeva che lo sbarco di Garibaldi a Marsala riuscisse o ad una insurrezione passeggiera, o ad un grande rivolgimento nazionale: bisognava dunque attenderne il resultato.
Ma esaminando la questione sotto un altro aspetto, Cavour non poteva dissimularsi gli inconvenienti di questa politica incerta, che gli era fatalmente imposta dallo stato delle cose. Egli sapeva che esponevasi ad essere accusato di doppiezza tanto da Garibaldi quanto dal re di Napoli; e sapeva ancora meglio che, scambiata per debolezza quella che altro non era che opportuna prudenza, l’autorità del Governo del Re nel resto della Penisola poteva soffrirne a beneficio dei partigiani della rivoluzione. Per remuovere siffatto pericolo fu deliberata e subito messa in atto la spedizione delle Marche e dell’Umbria.
Il governo pontificio, non si peritava di provocarci continuamente; il generale Lamoricière andava annunziando in pubblico che egli doveva riconquistare le Romagne al Papa; da un momento all’altro potevano rinnovarsi gli inauditi eccidii di Perugia; tutto insomma conduceva ad un conflitto divenuto oramai da una parte e dall’altra inevitabile. Il conte di Cavour lo accettò con animo risoluto, e fu dato ordine all’esercito di marciare avanti e di passare la frontiera.
Lasciate in disparte a causa dell’occupazione francese, Roma ed il Patrimonio, fu mestieri sbarazzare innanzi tutto le Marche e l’Umbria dagli zuavi pontificii, prendere Ancona, e dopo avere per tal modo annichilito i piani della reazione, correre a Napoli, ed ivi impedire che il rivolgimento italiano, cadendo in balía di uomini esaltati, cambiasse d’indole e di scopo. Pericolo v’era, ed imminente. Garibaldi, pieno il cuore di amarezza per la cessione di Nizza, si allontanava sempre più dal Governo, pur sempre continuando a fare del Re il simbolo dell’unità italiana. Inebriato dalle sue splendide vittorie, egli non vedeva gli intrighi che si annodavano intorno a lui; e andava dappertutto dichiarando che non avrebbe consentito all’annessione dell’Italia meridionale a quella settentrionale, altro che il giorno in cui, liberata Venezia e riconquistata Nizza, gli fosse dato di proclamare dal Campidoglio che l’unità d’Italia era compiuta.
In mezzo a congiunture tanto difficili e così piene di pericoli, il senno del popolo, la immensa fiducia nel Re e la bene accorta fermezza del conte di Cavour valsero ad impedire la guerra civile. Condotti da Vittorio Emanuele, i vincitori di Castelfidardo e d’Ancona oltrepassarono la frontiera napoletana ed assediarono Capua e Gaeta. Garibaldi, dopo avere invano domandato la luogotenenza generale delle provincie del mezzogiorno per un anno, si ritirò a Caprera, rifiutando tutti gli onori che gli vennero offerti. Al tempo stesso Cavour convocò il Parlamento e sottopose al suo giudizio il dissenso sorto fra il Ministero e il dittatore delle Due Sicilie.
Questi avea posto la questione in termini assai chiari e precisi. Egli aveva protestato pubblicamente che giammai si sarebbe messo d’accordo con l’uomo che gli aveva tolta la patria natale. Di più, aveva inviato al Re il marchese Giorgio Pallavicino per chiedergli la dimissione di Cavour e de’ suoi colleghi. Com’era bennaturale, il Re non accettò una intimazione così poco costituzionale, ma i ministri compresero il dovere di ricorrere alla competente autorità del Parlamento. Il conte di Cavour, presentando alla Camera il 2 ottobre 1860 un progetto di legge per ottenere al Governo la facoltà di accettare l’annessione delle provincie meridionali per mezzo di un decreto reale, anzichè per legge, com’erasi fatto per l’Emilia e la Toscana, dette lettura d’un rapporto, in cui, mentre erano esposti i motivi che inducevano il Governo a presentare quel disegno di legge, era anche domandato un voto di fiducia, senza il quale, come era suo obbligo, il Ministero sarebbesi ritirato. In quel rapporto il conte di Cavour, dopo aver rammentato che altri undici milioni d’Italiani eransi uniti a quelli che già formavano il regno, e che tutto ciò erasi ottenuto e per la generosa iniziativa delle popolazioni, e pel valore dei volontari, ed eziandio per la politica seguita dal Governo del Re dal 1848 in poi, diceva che gli ultimi avvenimenti imponevano al Ministero il dovere di bene assicurarsi se, continuando quella politica, avrebbe pur sempre avuto l’appoggio del Parlamento. «Tranne Venezia e Roma (aggiungeva il rapporto) tutta l’Italia è libera; ma se noi in questo momento attaccassimo l’Austria, l’Europa si solleverebbe contro di noi; e quanto a Roma, chi mai vorrebbe rivolgere contro i Francesi che vi si trovano quelle forze istesse che non avremmo certo avute senza che i Francesi già si trovassero a Solferino? Per ora adunque nulla si può fare per quelle provincie, ma in compenso si può far molto per le altre che hanno bisogno di buona e provvida amministrazione. L’Italia ha acquistato grandi simpatie nel mondo pel senno dei suoi cittadini, per la loro moderazione e per l’ordine che hanno saputo conservare dovunque. L’Emilia e la Toscana, prima che ad ogni altra cosa, hanno pensato ad uscire da uno stato precario; a questo pensano del pari le provincie del mezzogiorno, ben comprendendo di quanto danno e per esse e per tutto il paese sarebbe il disordine che nasce dall’incertezza. Il Re, nel di cui nome s’è fatta la rivoluzione di Sicilia e di Napoli, non può lasciare che i frutti di questa sieno compromessi e perduti; egli non vuole disporre a suo arbitrio dei popoli di quelle provincie, ma bensì intende che essi manifestino liberamente ciò che vogliono. Come Italiani, noi desideriamo che i Napoletani e i Siciliani imitino l’Emilia e la Toscana; come ministri del Re, noi vogliamo loro assicurare la piena libertà del voto. Noi adunque vi domandiamo la facoltà di accettare l’annessione di quelle provincie, le quali, già libere, dichiarassero spontaneamente divolersi congiungere col resto della famiglia italiana.
» Alcuni patriotti di alto grado vorrebbero ritardare l’annessione fino a che Roma e Venezia fossero libere anch’esse; ma ciò equivarrebbe a mantenere la rivoluzione in permanenza fintantochè non fosse compiuta la totale indipendenza d’Italia. Ora, al punto a cui sono arrivate le cose, quando cioè noi possiamo costituire uno Stato di ventiduo milioni d’abitanti, forte e compatto, il periodo rivoluzionario deve aver fine e principiar quello dell’ordine. Il generoso cittadino che si è fino ad ora opposto all’annessione delle provincie meridionali, non pensa che se il suo progetto dovesse eseguirsi, bentosto ogni autorità passerebbe da lui che ha scritto sulla sua bandiera Italia e Vittorio Emanuele nelle mani di coloro che hanno per insegna questa mistica ed oscura formula Dio e Popolo. Un uomo, che il paese giustamente tien caro, ha detto che non ha alcuna fiducia in noi; tocca al Parlamento a dichiarare se noi dobbiamo ritirarci, o se dobbiamo continuare l’opera nostra.»
Tale era nell’insieme il rapporto del conte di Cavour. Dopo una discussione che durò varie sedute, la Camera approvò il progetto di legge con 297 voti favorevoli contro 6 contrari. Il Senato l’approvò pochi giorni dopo con 84 voti contro 12.
1.
Seduta della Camera, 11 ottobre 1860.
Signori Deputati, s’io avessi nutrito qualche dubbio intorno all’opportunità della deliberazione presa dal Governo del Re di provocare la riunione del Parlamento per sottoporre alle sue deliberazioni le condizioni del paese, e promuovere un suo voto sull’indirizzo da darsi alla cosa pubblica, la discussione che dura da quattro giorni l’avrebbe rimosso interamente; giacchè, o signori, credo che tutti dobbiamo conoscere come questo dibattimento abbia dileguato parecchi timori, sciolto non pochi dubbi e molto riavvicinato gli animi e gli spiriti. Invero, signori, lo spazio che si poteva credere separasse le diverse parti di questa Camera si trova singolarmente ristretto, imperocchè parmi potere asserire che tutti forse, meno una splendida eccezione,[1] consentono nella necessità di non contrastare l’opportunità di promuovere l’immediata manifestazione dei voti delle popolazioni dell’Italia meridionale. È una giustizia che mi compiaccio di rendere ai membri della Camera che sorsero per opporsi al progetto di legge; persino quelli che parlarono con voce più concitata, lo stesso onorevole Mellana si affrettò a dichiarare che l’entrata del Re e delle nostre truppe nel territorio napoletano modifica talmente lo stato delle cose, che anch’esso riconosce la convenienza di non differire la manifestazione dei voti dei popoli dell’Italia meridionale. Quindi, signori, parmi di poter dire che il dissenso (se dissenso ancora esiste) verte solo sul modo che il Governo crede di tenere, onde effettuare queste annessioni, e consiste in ciò, che il Ministero stimò di dover cogliere questa opportunità per promuovere dalla Camera un voto sull’indirizzo politico dato da esso alla cosa pubblica.
Il principale argomento di cui si valsero gli onorevoli oppositori onde censurare il Governo si fu che il modo da esso proposto era in aperta contraddizione coi precedenti verificatisi l’anno scorso nell’Emilia e nella Toscana. Ci si disse essere strano che noi venissimo ora a consigliare un sistema che non era stato seguíto rispetto a quelle due nobilissime provincie. A ciò in gran parte risposero gli oratori che mi precedettero. Gli egregi miei amici, gli onorevoli deputati Minghetti e Galeotti, vi hanno dimostrato che, se l’annessione della Toscana e dell’Emilia non venne compiuta immediatamente dopo la liberazione di quelle provincie, la colpa non fu certamente nè di quelle popolazioni nè degli illustri cittadini chiamati da quei popoli a reggere i loro destini. Io dirò alla mia volta che, se l’annessione di quelle provincie non si compiè immediatamente, non si può neppure apporre a colpa del Governo del Re. E qui parlo non solo per ciò che riflette il Ministero che ora regge la cosa pubblica, ma altresì per ciò che concerne il Ministero cui noi abbiamo succeduto. Infatti, o signori, era egli possibile che immediatamente dopo i patti di Villafranca, quando a Zurigo si discuteva il trattato di pace, si venisse dal nostro Governo a consentire ai voti dei Toscani e dei popoli dell’Emilia che chiedevano l’immediata annessione? Se voi riflettete alla condizione in cui il paese si trovava rispetto, non dico all’Austria soltanto, ma anche alla Francia, voi dovrete riconoscere che la risposta data dal Re a Torino alle deputazioni della Toscana e dei Ducati, ed a Milano a quella delle Legazioni, era un atto nè timido nè moderato, era un atto ardito, che giungeva sino all’estremo limite, oltre il quale l’ardire si sarebbe mutato in avventatezza. Se il Governo non poteva accettare le annessioni alla vigilia del trattato di Zurigo, non lo poteva nemmeno all’indomani di quel grande atto. I tempi tuttavia si facevano più favorevoli. Ma sorse inaspettata in. Europa la proposta, accettata per qualche tempo da tutte le grandi potenze, di un congresso europeo, il quale doveva riunirsi sulla base, proclamata da due tra esse, del non-intervento, ciò che tornava a dire sulla base del rispetto al voto degli Italiani. Mentre questo congresso doveva riunirsi, e quando le sue decisioni si speravano favorevoli all’Italia, non sarebbe stata prudenza, anzi sarebbe stata follia il precipitare le annessioni che i Governi a noi più benevoli ci consigliavano di sospendere.
Allorchè le probabilità di un Congresso si furono dileguate, il Ministero che allora era al potere determinò di mandare immediatamente una missione a Parigi ed a Londra per affrettare l’annessione; nè io potrei biasimare quell’atto, poichè accettai di rappresentare in quelle circostanze il nostro Governo in quelle due metropoli. La missione non potè effettuarsi; ma se a quell’epoca accadde una crisi ministeriale, io posso dichiarare altamente, e senza timore di essere contraddetto, che essa non fu prodotta da cause relative alla politica estera, ma da ragioni che si riferivano unicamente al reggimento interno. Io non le ricorderò qui, giacchè in questi gravi momenti, lungi dal far rivivere queste memorie, io vorrei fosse in me il potere di cancellarle dall’animo di tutti quanti. (Applausi generali.)
Il nuovo Ministero si affrettò di dar opera all’annessione; ma, siccome questa incontrava gravi ostacoli nella diplomazia, parve opera savia e prudente l’associare il Parlamento al suo compimento; ed egli è per ciò che quando i dittatori dell’Emilia e della Toscana promossero il plebiscito, il Governo del Re li invitò a promuovere immediatamente l’elezione dei deputati di quelle provincie, chiamandoli tutti insieme a sedere in quest’aula. Ma così facendo, o signori, io lo dichiaro altamente, noi ci siamo scostati dalla stretta legalità, noi abbiamo commesso un atto incostituzionale; noi non avevamo, a termini di rigoroso diritto, facoltà di invitare i deputati dell’Emilia e della Toscana a sedere in Parlamento per deliberare assieme ai rappresentanti delle antiche provincie (e tra queste annovero anche la Lombardia) intorno all’annessione delle nuove provincie. Voi avete sancito con voto unanime questa illegalità. Se per assicurare l’annessione dell’Italia meridionale fosse necessario di commettere altre illegalità, io non dubito che il Ministero intero, quantunque abbia la sorte di avere nel suo seno due illustri giurisperiti, zelanti sacerdoti di Temi, assumerebbe la responsabilità di queste illegalità; ma, grazie al cielo, questa necessità non esiste. Non dico che l’annessione dell’Italia meridionale non incontri ostacoli, ma essi sono di un ordine diverso da quelli che esistevano l’anno scorso. Non è necessario che questo gran fatto sia consacrato dai deputati di tutta Italia; quindi, non essendovi tale necessità, noi crediamo essere più conforme allo spirito delle nostre istituzioni e più utile allo svolgimento delle medesime, di procedere legalmente, e di fare che, quando i popoli dell’Italia meridionale saranno chiamati a deliberare nei comizi popolari sull’annessione, i deputati delle antiche provincie (e fra queste includo anche la Toscana e l’Emilia) abbiano già dato il loro voto in questa grandissima questione. Nè mi commove l’argomento stato addotto da alcuni, che cioè noi ci scostiamo dalla legalità facendo votare sopra un trattato non ancora conchiuso; perchè, o signori, noi non vi domandiamo latitudine rispetto ai patti del trattato. Voi sapete quale deve essere questo futuro trattato: è l’annessione, senza condizione, dei popoli dell’Italia meridionale. Noi non possiamo allontanarci di una virgola da questa sentenza che si trova scritta nella legge. Quindi, o signori, se voi non sancite un trattato già fatto, date una norma positiva, invariabile al potere esecutivo per un trattato da farsi. E qui, o signori, mi giova avvertire che, mercè questo sistema, il vostro voto produrrà un grande e vantaggioso effetto . Voi verrete non solo ad autorizzare il Governo a promuovere quest’annessione, ma voi stabilite in modo solenne ed inconcusso che la volete senza condizioni. Quantunque io non esageri le forze del partito municipale in Napoli ed in Sicilia, e creda ch’esso non conti che poche, sebbene distinte individualità, nulladimeno questo voto solenne del Parlamento italiano renderà più facile, meno combattuta questa gran sentenza che i popoli dell’Italia meridionale saranno fra breve chiamati a pronunciare.
Mi pare d’aver dimostrato che l’obbiezione degli onorevoli oppositori, fondata sui precedenti dell’anno scorso, è priva di fondamento. Mi rimane ad esaminare il secondo punto assai più delicato, quello cioè relativo al voto di fiducia. (Movimenti d’attenzione.)
Alcuni oratori, o signori, ed uno in ispecie che non vedo seduto sul suo banco, l’onorevole Sineo, hanno in certo modo rappresentato che, venendo ad interrogarvi intorno al giudizio che portate sulla sua politica, il Ministero voleva costituire la Camera giudice non di sè stesso, ma del generale Garibaldi. Ed invero, dal suo atteggiamento e dalle sue parole si sarebbe detto che egli si erigeva in difensore dell’illustre generale, tradotto alla sbarra di questo Consesso. No, signori, tale non fu il nostro intendimento. Lungi dall’aver mancato di riguardi pel generale Garibaldi, portando la questione di fiducia avanti alla Camera, noi crediamo di avergli reso il maggiore omaggio che a cittadino prestare si potesse. Un dissenso profondo si è manifestato tra il generale ed il Ministero. (Udite! udite!) Questo dissenso non era stato provocato da noi, e se motivi di pubblico servizio non avessero imposto ad un illustre ammiraglio l’obbligo d’abbandonare il suo stallo per andare a riprendere il comando della sua squadra, egli potrebbe fare testimonianza dello spirito col quale furono dettate le istruzioni sia ufficiali, sia confidenziali che gli abbiamo date quando egli parti alla volta di Palermo. Non solo il Ministero non provocò il dissenso, ma fece quanto stava in lui onde non fosse portato a cognizione del paese. Finchè fu possibile il dissimularlo, lo si fece; ma quando un pubblico scritto, quando una missione in certo modo solenne dimostrò che questo dissenso esisteva, il Governo del Re credette ciò costituire una circostanza abbastanza grave onde fosse suo debito di chiedere al Parlamento se quel disparere non modificava il giudizio da lui pochi mesi prima profferito intorno alla nostra politica. Mi pare che un tale procedere, lungi dall’essere ingiurioso, sia altamente onorevole per il generale Garibaldi. (Bravo!) Che cosa del rimanente avrebbe potuto fare il Ministero? Non tener conto del dissenso e andar avanti, presupponendo che la fiducia del Parlamento non gli fosse venuta meno, e che questo non dividesse le opinioni del generale Garibaldi sulla politica del Governo? Ciò, o signori, sarebbe stato assai pericoloso; i nostri avversari ci avrebbero mosso per ciò grave e fondato rimprovero, se avessimo trascurato di consultare il Parlamento in condizione così grave.
Per far cessare il dissenso vi era un altro mezzo, e questo ci venne suggerito dall’onorevole Mellana, il quale ci disse: voi dovevate ritirarvi; in allora non sareste stati potenti, ma vi avrei dichiarati grandi. Il consiglio, lo dichiaro, non è del tutto cattivo, solo esso pecca rispetto all’epoca a cui si riferisce. Penetrati, come noi l’abbiam detto testè, della gravità di un dissenso fra il dittatore delle Due Sicilie ed il Ministero, non solo noi avevamo cercato di evitarlo, ma eziandio di far sì che non potesse accrescersi. Infatti, o signori, negli ultimi giorni di agosto, quando il dittatore era ancora lontano da Napoli, quando siffatto dissenso non era ancora certo, ma probabile, il Ministero si preoccupò della sua possibilità e delle conseguenze che tal disaccordo potrebbe avere. Esso allora deliberò unanime di dar contezza alla Corona che le notizie che ci venivano dal campo ci portavano la dolorosa certezza che gli uomini, i quali, come disse l’onorevole deputato Chiaves, versavano l’aceto e il fiele nel cuore ferito dell’illustre generale, avevano assai più influenza di quei benemeriti cittadini, anche suoi amici, che facevano vani sforzi per sanare le sue ferite. In allora dimostrammo al Re le gravi conseguenze di questa eventualità, e gli dichiarammo che forse sarebbe stato opportuno il prevenirle, non con un cambiamento di politica (ben lungi di mai consigliar ciò alla Corona, l’avremmo invece combattuto con tutte le nostre forze), ma con un mutamento d’uomini. Dopo maturi riflessi, il Re dichiarò che un cambiamento di Ministero, fatto nell’assenza delle Camere e senza nessun motivo politico, sarebbe stato un atto che avrebbe indebolito altamente il Governo non solo all’interno, ma eziandio all’estero. S. M. invitò pertanto i ministri a rimanere al loro posto. Essi si arresero senza esitazione alla voce del magnanimo Principe, e continuarono a reggere la cosa pubblica, colla speranza che il temuto dissenso non sarebbe venuto a manifestarsi. Ma esso divenne pubblico, o signori, senza che fosse stato possibile a noi d’impedirlo. Da quel momento non era più lecito a noi di rinnovare l’offerta delle nostre dimissioni; giacchè, o signori, io lo ripeto, se la Corona, sulla richiesta di un cittadino, per quanto illustre egli sia e benemerito della patria, avesse mutati i suoi consiglieri, essa avrebbe recato al sistema costituzionale una grave e, dirò anzi, una mortale ferita. (Bravo!) Nè vale il dire che Garibaldi non è un generale come il generale Fanti ed il generale Cialdini. Io riconosco essere il generale Garibaldi in altre condizioni. Ma, o signori, se egli è il dittatore di Napoli, è pure il cittadino che, come noi, ha giurato lo Statuto. (Bene!) Non essendo più lecito a noi di dar le nostre dimissioni, non ci rimaneva altra via da seguire che di radunare il Parlamento. E questo, o signori, noi lo abbiamo fatto nell’intimo convincimento che tale riunione, ben lungi dall’aver per effetto di accrescere il disaccordo e di renderlo irreparabile, era l’unico mezzo di farlo cessare. Infatti, o signori, venendo a voi francamente a farvi conoscere l’esistenza di quel disparere, provocando un voto della Camera, non sulla condotta del generale Garibaldi, ma sulla nostra politica, noi otterremo che, se il vostro voto ci è contrario e la crisi ministeriale avviene bensì, ma in conformità ai grandi principii costituzionali, in questa ipotesi il cambiamento del Ministero non porta offesa ai principii che venni testè accennando, anzi li conferma . Se poi il vostro suffragio ci sarà favorevole, noi nutriamo fiducia che questo abbia ad esercitare una grande influenza sull’animo generoso del generale Garibaldi. (Bene!) Noi nutriamo fiducia che egli presterà maggior fede alla voce dei rappresentanti della nazione, che non a quella dei tristi (con forza) che cercano di separare uomini che hanno pure alacremente lavorato molti anni per il trionfo della causa nazionale. (Applausi.) Se ci accorderete il vostro voto, noi, animati sempre dal medesimo spirito di conciliazione che abbiamo sin qui dimostrato, fatto anzi questo più vivo dalle parole generose che furono a noi rivolte, non solo dai nostri amici politici, ma anche da coloro che noi forse potevamo temere di dover annoverare fra i nostri avversari; animati da questi sentimenti (con calore), noi andremo incontro al generale Garibaldi, e mostrandogli l’ordine del giorno proposto dalla vostra Commissione,[2] ed al quale noi di gran cuore ci associamo (Bravo! Bene!), e additandogli pure il voto di fiducia della Camera, noi inviteremo il Generale, non a nome nostro, ma a nome dell’ Italia a porgerci la sua destra. (Applausi vivissimi.)
Parmi di aver esposto quali fossero i motivi che indussero il Ministero a ricorrere al mezzo di convocare la Camera e porre avanti a lei la questione di fiducia.
A questo punto io dovrei por termine al mio dire, se non credessi obbligo mio di dare alcune spiegazioni che furono chieste nelle precedenti tornate. Dirò di volo qualche parola sull’obbiezione mossa dall’onorevole deputato Ferrari in altra seduta, che, cioè, adottando questa proposta di legge, si verrebbe a rendere probabile la cessione di altre parti d’Italia. Non ripeterò le dichiarazioni già fatte or son pochi giorni, che di questa cessione non si fece mai parola in modo nè ufficiale nè ufficiosamente nè per iscritto nè a voce nè direttamente nè indirettamente. Ma, lasciando la questione di fatto, per venire a quella di probabilità, di possibilità, mi pare strano che, per rendere impossibile una diminuzione di territorio, si voglia mantenere l’Italia divisa, per non dire discorde. Ma, signori, fate l’annessione, e la cessione di qualunque parte d’Italia diverrà impossibile; fate l’annessione, e il precedente del trattato del 24 marzo non potrà mai essere invocato; giacchè, o signori, non si potrebbe più invocare, per la cessione d’una porzione di territorio, il gran principio di nazionalità, pietra angolare del nostro edifizio politico; non la si potrebbe chiedere in virtù d’immensi sacrifizi di sangue e di danaro; fate l’annessione, e questa domanda non si farebbe più ad un popolo di 5,000,000 di abitanti (con calore), ma si farebbe alla grande nazione italiana, compatta e forte di 22,000,000 di cittadini (vivi applausi); fate l’annessione, e, quand’anche si cambiasse il Ministero, io porterei piena fiducia che gli uomini che venissero a sedere su questi banchi, a qualunque parte della Camera o del paese appartenessero, purchè fossero Italiani, darebbero a questa domanda una risposta degna dei discendenti di Capponi. (Applausi forti e prolungati.)
I dubbi che furono mossi, le spiegazioni che furono domandate, vertono sopra due dolorosi, ma delicati argomenti: Roma e Venezia. Io potrei, invocando la ragione di Stato, chiudermi in un assoluto silenzio; potrei dire alla Camera: poichè siamo concordi sul da farsi oggi, perchè preoccuparci delle eventualità di un avvenire più o meno prossimo? Ma, o signori, in questo secolo di pubblicità io credo che sia più opportuno che i Governi e le Assemblee manifestino apertamente l’animo loro. (Bene!) Qui debbo con soddisfazione constatare che sulla quistione pratica, sulla quistione presente noi siamo tutti d’accordo, perchè parmi, se ho bene inteso l’onorevole deputato Regnoli, il quale moveva l’interpellanza rispetto a Roma, che egli pure sia concorde con noi nel dichiarare che non è nè opportuno nè onesto d’andare a Roma finchè è occupata da truppe francesi.
Signori, questa è quistione d’avvenire.
È grave cosa per un ministro il dover dire quale è la sua opinione sulle grandi quistioni dell’avvenire; tuttavia io riconosco che un uomo di Stato, per essere degno di questo nome, deve avere certi punti fissi che siano, per così dire, la stella polare direttrice del suo cammino, riservandosi di scegliere i mezzi, o di cambiarli a seconda degli eventi; ma sempre tenendo rivolto lo sguardo sul punto che deve servirgli di guida. Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di re Vittorio Emanuele fu l’aspirazione all’indipendenza nazionale; quale sarà questa stella riguardo a Roma? (Movimento di attenzione.) La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del regno italico. (Strepitosissimi e prolungati applausi.) Ma forse questa risposta non appagherà pienamente l’onorevole interpellante, il quale chiedeva quali mezzi avremmo noi per raggiungere questo scopo. Io potrei dire: risponderò, se voi prima mi direte in quali condizioni saranno fra sei mesi l’Italia e l’Europa (Ilarità e segni d’adesione); ma se voi non mi somministrate que-sti dati, questi termini del problema, io temo che nè io nè nessuno dei matematici della diplomazia potrà riuscire a trovare l’incognita da voi cercata. (Ilarità generale.) Tuttavia, o signori, se non i mezzi speciali, posso indicarvi, e non esito a farlo, quali, a parer mio, debbono essere le grandi cause che ci faranno raggiungere questa mèta. (Movimento generale di attenzione.)
Affermai e vi ripeto che il problema di Roma non può, a mio avviso, essere sciolto colla sola spada; la spada è necessaria, lo fu e lo sarà ancora per impedire che elementi eterogenei vengano a frammettersi nella soluzione di questa questione; ma, o signori, il problema di Roma non deve essere sciolto colla spada sola: le forze morali debbono concorrere al suo scioglimento. E quali sono queste forze morali, sulle quali si dovrà fare assegnamento?
Io qui invado un poco il terreno della filosofia e della storia; ma pure, essendo stato tratto in questo campo, dirò tutta intera la mia opinione. Io credo che la soluzione della questione romana debba essere prodotta dalla convinzione che andrà sempre più crescendo nella società moderna, ed anche nella grande società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso. (Bravo! Bene!) Io porto ferma opinione che questa verità trionferà fra poco. Noi l’abbiamo già vista riconoscere anche dai più appassionati sostenitori delle idee cattoliche; noi abbiamo veduto un illustre scrittore, in un lucido intervallo, dimostrare all’Europa, con un libro che ha menato gran rumore, che la libertà era stata molto utile al ridestamento dello spirito religioso. Ma, o signori, a conferma di questa verità non è mestieri per noi di andare in traccia di esempi all’estero; ce ne somministra il nostro stesso paese; giacchè, o signori, non esito ad affermare che il regime liberale, che esiste in questa contrada subalpina da 12 anni, è altamente favorevole allo sviluppo del sentimento religioso. Io credo di poter dichiarare che in oggi vi è più viva, più sincera religione in Piemonte che non ve ne fosse 12 anni or sono (È vero! Bravo!); io credo di non errare affermando che, se il clero ha forse minori privilegi, se il numero dei frati è di gran lunga scemato, la vera religione ha molto più impero sugli animi dei cittadini che al tempo in cui il blandire una certa frazione del clero, o l’ipocrito frequentare delle chiese facevano salire agl’impieghi ed agli onori. (Applausi.) Quelli fra voi che non appartengono a queste contrade possono, uscendo da questo recinto, riconoscere la verità di quanto affermo. Ciò vi sarà pure confermato da tutti i venerabili pastori di questa capitale, quantunque a questa città non sia toccata la sorte di avere a capo della sua diocesi un pastore illuminato, come ne esistono in città poco da noi distanti, ed i quali seppero conciliare i dettami della libertà coi canoni della religione. (Applausi.) Quando quest’opinione sarà accolta generalmente, o signori, e non tarderà ad esserlo (la condotta stessa del nostro esercito, il contegno del nostro magnanimo Principe tenderanno a confermarlo), quando questa opinione avrà acquistata forza nell’animo degli altri popoli, e sarà radicata nel cuore delle società moderne, noi non dubitiamo di affermare che la gran maggioranza dei cattolici illuminati e sinceri riconoscerà che il pontefice augusto che sta a capo della nostra religione, può esercitare in modo molto più libero, molto più indipendente il suo sublime ufficio, custodito dall’amore, dal rispetto di ventidue milioni d’Italiani, che difeso da venticinque mila baionette. (Applausi.)
Vengo alla Venezia. (Profondo silenzio.)
Per quanto sia intenso l’affetto che noi tutti portiamo per questa illustre martire, noi tutti, credo, riconosciamo che non si potrebbe in ora rompere la guerra con l’Austria. Non si può, perchè non siamo ordinati; non si può, perchè l’Europa non lo vuole. Io so che quest’obbiezione non sarà forse menata buona da alcuni oratori che credono si debba tener poco conto dell’opposizione delle altre potenze; tuttavia, o signori, io mi credo in dovere di respingere questa opinione e di far osservare come fu sempre dannoso pei principi e pei popoli il non voler tener conto dell’opposizione delle grandi nazioni. Noi abbiamo avuto esempi di catastrofi immense dovute a questa mancanza di rispetto ai sentimenti delle altre nazioni. Sul principio di questo secolo, il più illustre guerriero dei tempi moderni pose in non cale l’opinione dei popoli d’Europa, e, malgrado il suo genio straordinario e le sue infinite risorse, cadde dopo alcuni anni di regno, e cadde miseramente, per non più risorgere, sotto gli sforzi riuniti dell’Europa. In tempi più vicini a noi un altro imperatore che contava pur esso i suoi soldati a centinaia di migliaia, e soldati che per valore sono a nessuno secondi, quest’imperatore non volle farsi capace dell’opinione delle altre potenze, e credette di poter sciogliere a sua volontà la sua vertenza coll’impero ottomano. Ebbene, questo gran potentato non tardò a dover pentirsi ed a pentirsi amaramente di non aver tenuto conto degli interessi e dell’opinione del resto d’Europa. Sarebbe a temersi che simile cosa accadesse a noi se, fidando unicamente nel nostro diritto e nei nostri mezzi, non volessimo assolutamente avere in alcuna considerazione i consigli dell’Europa.
Ma, o signori, si domanda: come allora sciogliere la questione della Venezia? In un modo semplicissimo, facendo cambiare l’opinione dell’Europa. E si chiederà: ma come? L’opinione dell’Europa cambierà, perchè l’opposizione che ora si incontra non esiste solo nei Governi, ma anche (bisogna pur dirlo) in una gran parte delle popolazioni eziandio liberali d’Europa. Tale opposizione all’impresa della liberazione della Venezia proviene da due cause: la prima è il dubbio in cui versa l’Europa sulla nostra abilità a costituirci in nazione forte ed indipendente; è il non avere essa una giusta idea dei mezzi di cui noi possiamo disporre; è la convinzione che noi saremmo impotenti a compiere da soli sì grande e generosa impresa. Questa opinione sta in noi di rettificarla: ordiniamoci, dimostriamo che non esiste tra noi alcun germe fatale di discordia e di disunione; costituiamo uno Stato forte che possa non solo disporre di un esercito formidabile e di una squadra ragguardevole, ma che riposi sul consenso unanime delle popolazioni; ed allora l’opinione dell’Europa si modificherà (Bravo!), e s’illumineranno e modificheranno del pari quei liberali dell’Europa che sono restii o perplessi circa l’emancipazione di quella infelice e nobile parte d’Italia. Rimane poi ancora, è vero, nella mente di taluno l’idea che è possibile di riconciliare i popoli di questa provincia al dominio austriaco: questa idea si va però dileguando: la Venezia non può essere riconciliata coll’impero austriaco; non vi è concessione, non vi è favore, non vi è tentativo d’accordi che possa ricondurre i Veneti a rinunciare alle aspirazioni che li spingono verso la gran famiglia italiana. E se ciò era vero pel passato, sarà sempre più vero ora, lo sarà maggiormente nell’avvenire; poichè, o signori, il mondo morale è sottoposto a leggi analoghe a quelle del mondo fisico; l’attrazione sta in ragione delle masse; e quanto più l’Italia è forte e compatta, e tanto più l’attrazione che essa esercita sulla Venezia sarà potente e irresistibile! (Applausi prolungati.) Del resto, o signori, questa verità è già stata riconosciuta e quasi proclamata dal governo di Vienna stesso. (Udite! udite!) A Villafranca l’imperatore d’Austria, io non lo pongo in dubbio, aveva il sincero desiderio d’introdurre nel Veneto un sistema di conciliazione, di vedere se con favori poteva riunire moralmente quella provincia all’impero. Lo tentò per qualche tempo, ma non tardò a riconoscere che egli seguiva una falsa via, e ritornò al sistema della compressione; ed io di ciò non voglio qui muovere rimprovero: ammesso che l’impero intenda conservare la Venezia, una fatalità irresistibile lo strascina a mantenere il sistema di compressione e di rigore. (Segni di assentimento.) Quando queste verità saranno penetrate in tutte le menti ed i cuori dell’Europa, esse eserciteranno, io spero, una grande influenza. So bene che taluno mi dirà che mi faccio illusione, che i diplomatici non hanno viscere. Anzitutto io, per ragione di ufficio, non ammetto questa sentenza. (Viva ilarità.) Ma quand’anche ciò fosse vero, io vi direi: ma se i diplomatici non hanno viscere, i popoli ne hanno. Nel secolo attuale, nell’epoca che corre, non sono più i diplomatici che dispongono dei popoli, sono i popoli che impongono ai diplomatici le opere che hanno da adempiere. (Vivi segni di assenso.) Io nutro fiducia che quando questa verità non potrà più essere contrastata, le misere condizioni della Venezia desteranno un’immensa simpatia non solo nella generosa Francia, nella giusta Inghilterra, ma altresì nella nobile Germania (Bravo!), dove le idee liberali vanno acquistando ogni anno, ogni giorno maggior impero. Io credo che il tempo non è lontano in cui la grande maggioranza della Germania dimostrerà di non voler più esser complice del supplizio di Venezia. (Applausi.) Quando ciò sarà compiuto, o signori, saremo alla vigilia della liberazione di quella illustre città. Come questa avrà da effettuarsi, se colle armi o coi negoziati, la Provvidenza sola lo deciderà.
Signori, non mi rimane altro da aggiungere.
Io non so se possa lusingarmi di avere dissipati tutti i vostri dubbi e fatti persuasi tutti i membri della Camera della rettitudine delle intenzioni del Ministero, dell’opportunità della politica che esso vi consiglia. Io spero tuttavia che non mi taccierete di presunzione se io manifesto un ardente desiderio, una viva speranza, ed è che voi sarete per dare alla presente legge un voto unanime, il quale, mentre eserciterà non poco peso nei consigli dell’Europa, coll’immensa sua autorità soffocherà nel suo nascere quel germe di discordia che apparve nelle provincie meridionali, e che, se si lasciasse sviluppare, renderebbe forse impossibile la più grande, la più magnanima impresa che sia stata data ai popoli di compiere. (Salve ripetuta di applausi generali, fragorosissimi.)
2.
SUL MEDESIMO ARGOMENTO.
(Seduta del Senato, 16 ottobre 1860.)
Signori Senatori: Quando l’onorevole senatore Brignole nel chiudere la sua orazione rimproverava al presidente del Consiglio di venir oggi a propugnare od almeno a scusare una politica rivoluzionaria che esso avea combattuta in altre circostanze, io mi aspettava che le sue parole dovessero dar luogo ad animata discussione. Ed invero, o signori, se la politica del Ministero fosse in qualche parte rivoluzionaria, essa avrebbe trovato in questo augusto recinto numerosi ed efficaci oppositori; giacchè, o signori, il Senato è il rispettato custode dei grandi principii conservatori, il Senato racchiude nel suo seno i più illustri magistrati dello Stato, i capi del Ministero Pubblico, gli amministratori che hanno acquistato nella lunga lor carriera il diritto ad onorato riposo e che lasciano questo riposo per accorrere quivi, quando gli interessi dello Stato lo richieggono. In questo recinto in cui trovansi, per nostra ventura, già riunite le glorie di mezza Italia, in questo ricinto, o signori, se gli interessi conservatori fossero minacciati, anche da lontano sorgerebbero numerose ed efficaci voci per richiamare il Ministero a più savi consigli. Ed invero, o signori, ritoccando la storia di quest’assemblea, potrei ricordare discussioni nelle quali, perchè il Ministero propugnava, non dico una politica rivoluzionaria, ma solamente una politica arditamente riformatrice, essa si divideva, e sorgevano da molti banchi opposizioni al Ministero. Ma ora invece al discorso dell’onorevole senatore Brignole tennero dietro molti altri discorsi, e tutti furono concordi nello scopo, se variarono nei mezzi; tutti diedero appoggio alla politica dal Ministero propugnata; nessuno la combattè. Questa, o signori, è per me una prova evidentissima che la nostra politica fu troppo severamente se non ingiustamente giudicata dall’onorevole senatore Brignole. Ed invero, o signori, se si esamina la nostra politica ed i principii che la informano ed i risultati che essa ha ottenuto ed a cui mira, chiaro riescirà che lungi dal poter essere qualificata come rivoluzionaria nel senso volgare della parola, dovrà riconoscersi che essa è una politica altamente conservatrice, ma conservatrice nel vero senso che a tale parola si deve attribuire.
Infatti, o signori, se rivoluzionaria si appella quella politica la quale ha per scopo di svellere le radici della società, di turbare gli ordini civili, di sostituire ai gran principii che regolare debbono la famiglia e la società civile altri principii avventati e massime pericolose, voi non potrete disconoscere che la nostra politica, la politica che ha costantemente seguíta il Governo del re Vittorio Emanuele, ha combattuto nel modo il più risoluto questi principii rivoluzionarii. Paragonate, signori, lo stato dell’Italia nel 48 allo stato dell’Italia nel 60, e dovrete riconoscere che questi principii superlativi, estremi, che si chiamano dal volgo e con ragione rivoluzionari, han perduto quasi ogni potenza, ogni efficacia presso noi. L’Italia ha dato in questi ultimi due anni mirabili esempi di sapienza civile, non che della potenza di principii di ordine, di morale, di civiltà. Io posso dire, e credo che possiamo tutti dire con orgoglio, non essere nella storia nessun esempio di un rivolgimento politico pari, analogo a quello che si è compiuto nell’Italia da quindici mesi, accompagnato da minori disordini, da minori delitti, da minori turbazioni del sistema sociale. Un oratore eloquente ha testè tracciato il quadro doloroso del Governo pontificio nelle Romagne; questo quadro, signori, non è esagerato. Io ho potuto proclamare al cospetto dei diplomatici dell’Europa quelle stesse verità, e i diplomatici, indulgenti anzichè no pei governi stabiliti, pure non hanno contestato la verità delle mie parole. Or bene quel mal governo è stato distrutto per un moto rivoluzionario, se volete, nel buon senso della parola, senza che nessuna reazione siasi operata. I popoli delle Romagne, liberi di sè medesimi, non pensarono a vendicarsi nè degli uomini nè delle caste, e per i lunghi mesi in cui essi furono dall’Europa quasi abbandonati a sè stessi, non fecero un atto che si potesse dire di reazione, di vendetta. Il medesimo si è riprodotto in Toscana e nei Ducati: solo un fatto deplorabile è accaduto in una delle città dell’Emilia;[3] ma immediatamente voci unanimi sorsero da tutte parti d’Italia per biasimare e dannare all’indignazione pubblica quel fatto orribile.
Donde, o signori, questo risultato? Da che, o signori, il solo Governo che dopo il 1848, sciolto assolutamente da ogni influenza straniera, aveva preso in mano la bandiera nazionale, l’aveva innalzata e fatta sventolare agli occhi di tutti gli Italiani, dichiarando che esso voleva combattere con mezzi regolari a pro della grande causa dell’indipendenza e del progresso civile. Quando le idee di governo vennero dissociate in modo assoluto da quelle di tirannia, dal dominio della forza, dal contrasto ai nobili sentimenti che animavano tutta la nazione italiana, allora le idee d’ordine e di governo penetrarono nelle masse, divennero popolari. E invano un resto delle sètte del 48 tentò di turbare questo magnifico moto; invano a Bologna, a Firenze furtivamente cercarono esse di quando in quando di metter fuori la loro bandiera. Fu questa appena veduta, che non i governi, ma i popoli stessi costrinsero i malaugurati ed imprudenti settari a nasconderla, e il più delle volte obbligarono i medesimi ad abbandonare i paesi ove volevano turbare lo stupendo moto nazionale.
Ma forse l’onorevole senatore Brignole-Sale non voleva far allusione ai fatti accaduti nell’Italia settentrionale, quantunque egli dichiarasse, con quella lealtà che l’onora, che anche questi egli biasimava apertamente. Ei ci rimprovera la nostra condotta a Napoli ed a Roma. Signori, io non disconoscerò che i fatti accaduti nell’Italia meridionale e centrale non possono essere giudicati colle norme che vennero e venivano insegnate nelle scuole quando erano frequentate dall’onorevole senatore Brignole. Egli è evidente che se si vuole fare astrazione assoluta dai diritti dei popoli, se non si vuol riconoscere alla società il diritto di poter reagire contro la mala signoria dei governi, quando questa mala signoria ha raggiunto un certo limite, non vi ha ragione per cui i fatti dell’Italia meridionale e centrale non meritino biasimo. Ma, o signori, come vi venne osservato da un onorevole membro di quest’assemblea, la cui parola può essere citata siccome autorevole in materia di diritto, alle antiche norme di diritto pubblico devono aggiungersi anche quelle ricavate dai diritti dei popoli. Il Governo del Re non poteva rimanere insensibile allo stato deplorabile in cui si trovava l’Italia meridionale: questo stato era fatto assai più grave dalle mutate condizioni dell’Italia centrale e della Lombardia, unite al Piemonte. Egli è evidente che il regime che parve già duro prima del 1859, quando in Italia la libertà splendeva solo in quest’angolo subalpino, questo regime diventava incompatibile quando la libertà spaziava tutta lungo il corso del Po e dell’Arno; egli è evidente che i dolori di quei popoli erano accresciuti per lo spettacolo che presentavano le provincie libere. Il Governo del Re, mosso dal vivo desiderio di migliorare le condizioni di quelle contrade, di promuovere la causa dell’indipendenza italiana, evitando catastrofi dolorose, pôrse sinceri, franchi, leali ed utili consigli ed al giovane sovrano che saliva sul trono di Napoli mentre ferveva la guerra d’indipendenza, ed al venerando pontefice che siede a Roma. I consigli del Governo del Re furono respinti in modo assoluto. Eppure questi consigli erano di eccessiva moderazione; erano dettati dal desiderio di salvare il giovine principe napolitano da una catastrofe inevitabile facendolo concorrere alla grand’opera dell’indipendenza d’Italia, quando il suo concorso avrebbe potuto essere ed utile ed efficace.
Il sovrano di Napoli avendo giudicato non dovere, o non potere mutare l’indirizzo politico che era stato dato alle cose interne dal suo genitore, era chiaro che, ad epoca più o meno lontana, una rivoluzione inevitabile sarebbe scoppiata in quel regno. E difatti, o signori, era impossibile l’immaginare che nove milioni d’Italiani avrebbero potuto durare a lungo sotto un regime così opposto a tutti i sentimenti i più generosi e i più nobili della natura, mentre a poca distanza, nell’Italia stessa, vi esisteva uno Stato di undici milioni in cui la libertà poteva largamente svilupparsi, in cui il sentimento nazionale riceveva piena soddisfazione. Questa previdenza si verificò dopo alcuni mesi, in cui una rivoluzione scoppiata in Sicilia, aiutata e propugnata da un pugno di valorosi volontari, condotti da un generoso ed abile guerriero, in poche settimane bastò a rovesciare un edificio di un governo che era pur sostenuto da 80 a 100 mila baionette regolari. Questo ci prova, o signori, quanto fosse debole quel governo, il quale avea seguito tutte le antiche tradizioni di governi che non hanno voluto mutare i loro principii col mutare de’ secoli. Se per governo rivoluzionario si intende il governo che non è in stato di lottare contro la rivoluzione, è il governo di Napoli che l’onorevole senatore Brignole dovrebbe qualificare di rivoluzionario e non il nostro. (Ilarità.)
Che cosa poteva fare il nostro Stato a fronte degli eventi di Napoli? Egli era evidente che un governo il quale non aveva potuto contrastare ad un pugno di pochi volontari mancava delle condizioni essenziali di esistenza. Una ristaurazione a Napoli era impossibile colle forze proprie del re; una ristaurazione non avrebbe potuto compiersi che coll’intervento straniero, e se questo fosse accaduto, sarebbe, o signori, stata la più gran disgrazia che all’Italia potesse succedere. La ristaurazione non potendo compiersi, quel governo avendo riconosciuto, per così dire, egli stesso la propria impotenza, abbandonando la sua capitale senza sparare un fucile, quel governo era morto moralmente. Cosa doveva fare il Re ed il suo Governo? Poteva egli abbandonare al corso degli eventi quella parte nobilissima d’Italia? Poteva egli lasciare che in uno stato precario, transitorio, quei germi rivoluzionari, i quali erano stati soffocati nell’alta Italia, si svolgessero nell’Italia meridionale? No, non lo poteva. Coll’assumere risolutamente la direzione della politica anche nell’Italia meridionale, il Re ed il suo Governo hanno reso impossibile che il movimento stupendo italiano tralignasse; hanno reso impossibile che le circostanze eccezionalissime in cui si trovava Napoli dopo la conquista del regno, dopo la rivoluzione che si era operata, facessero sorgere quelle fazioni le quali avevano portato così gran danno all’Italia nel 1848. Quindi l’intervento nostro negli affari dell’Italia meridionale, non per imporre un sistema preconcetto ai suoi popoli, ma per invitarli a pronunciarsi liberamente, apertamente sulle loro sorti, non fu, o signori, un atto rivoluzionario, ma fu un atto altamente conservativo.
Sarà forse più difficile il giustificare quanto accadde negli Stati Romani? Io credo di no. Egli è evidente, nè può essere contestato, mi pare, anche da coloro che sono più teneri del diritto del pontefice, che quando gli Stati rimasti sotto la dominazione del pontefice si fossero trovati fra l’Italia superiore costituita a libertà, e l’Italia inferiore in uno stato di rivoluzione, quegli Stati non potevano reggere. Invano il pontefice aveva fatto appello, non dirò ai sentimenti, ma ai pregiudizi religiosi di tutto l’orbe cattolico per riunire un esercito composto di stranieri attorno a lui, per difendere le sue provincie. Quest’esercito, quantunque composto di soldati valorosi, quantunque capitanato da un gran generale, non avrebbe potuto porre un argine, da un lato, alla pressione della rivoluzione, e dall’altro, al movimento, che avrebbe spinto quasi irresistibilmente una gran parte degli Italiani del settentrione a correre alla liberazione degli Italiani rimasti sotto la dominazione pontificia. Le sorti del potere temporale nell’Umbria e nelle Marche erano decise il giorno che tutto il rimanente dell’Italia, dal Po al golfo di Messina, si era rivendicato a libertà. Non nego che sarebbe stata possibile la lotta per qualche tempo al pontefice; ma il risultato finale era inevitabile. A questa condizione di cose, il Governo del Re dovea provvedere; esso doveva impedire che questa lotta avesse per effetto di mutare il moto nazionale, di risvegliare, di eccitare, di sviluppare il sentimento o la passione rivoluzionaria: egli ha creduto che a lui incombesse di compiere un grand’atto di ’giustizia; dico compiere un grand’atto di giustizia, perchè credo che non sia male l’aver fatto scomparire quella macchia che stava al centro dell’Italia, cioè di provincie italiane mantenute sotto un giogo ferreo mercè l’opera di stranieri mercenari. Non so se i mezzi adoperati per compiere questo grande atto siano perfettamente regolari, ma so che lo scopo è santo, e che lo scopo forse giustificherà quello che vi può essere d’irregolare nei mezzi. (Segni di approvazione.) Ed anche in quelle provincie, o signori, noi non siamo andati ad instituire la rivoluzione ed il disordine; vi siamo andati a stabilire il buon governo, la legalità, la moralità. Difatti qualunque possano essere le allegazioni in contrario, io proclamo con certezza (e quanto dico sarà confermato dalla voce imparziale dell’Europa illuminata e liberale), che mai guerra non fu condotta con maggiore generosità, magnanimità e giustizia. Era naturale che un certo sentimento d’irritazione esistesse nelle popolazioni contro stranieri che, non spinti dal sentimento del dovere nè dall’amor di patria, venivano ad opprimerle, a mantenere un giogo abborrito. Eppure non vi fu atto ostile contro que’ stranieri dal giorno in cui deposero le armi, ed il Governo del Re non avrebbe permesso nessuna reazione per parte della popolazione contro quelle autorità che avevano fatto pesare su di esse un giogo che di nuovo dirò abborrito; ed io proclamo che il Governo non ebbe ad usar mezzi per impedire questa reazione. Le popolazioni salutarono, acclamarono con gioia, con entusiasmo il nuovo regime, si astennero dal reagire contro l’antico odiato regime. Se in alcuni paesi si dovette procedere contro qualche autorità ecclesiastica si fu, o signori, perchè vi sono certe provocazioni le quali, fatte in tempi di eccitamento, come in tempi di guerra, possono promuovere a sdegno e quindi essere cagione di disordine anche negli eserciti i più ordinati. Ed invero, o signori, quando voi saprete che sacerdoti negarono la sepoltura a semplici soldati che erano morti onoratamente combattendo (sensazione), non troverete strano che l’autorità militare abbia dovuto agire con qualche energia per ottenere che questo scandalo non avesse luogo. (Bene!)
Io credo, o signori, avervi dimostrato che se il Governo del Re in queste anormali circostanze ha dovuto impiegare mezzi straordinari, mezzi che si scostano da quelli che si usano in tempi normali, esso fu in ciò guidato da un principio di nazionalità, il quale nello stesso tempo è un gran principio di conservazione. Noi speriamo di poter fondare l’Italia in questo gran principio d’ordine, di legalità, di conservazione, ma di quella conservazione illuminata che consiste nel mantenere gli alti principii della società, sviluppandoli a seconda del progresso dei lumi e della civiltà; noi vogliamo conservare, ma conservare col mezzo del progresso nazionale. (Segni di approvazione.) Noi crediamo, o signori, che così facendo noi renderemo un grande servizio non solo a quest’Italia, che sarà finalmente richiamata a vita novella e potrà prendere parte al banchetto delle nazioni, e portare la sua pietra al gran edifizio della civiltà moderna, ma eziandio di giovare a tutta l’Europa, dando forza e vita (lo ripeto) a quei principii conservatori e liberali che sono l’àncora di salvamento della nostra società. Noi crediamo che da questo moto ne risulterà fortificato il principio monarchico e colpiti di maggior riprovazione i principii sovversivi, i quali non trovano più fra noi fautori che in pochi settari, e che le potenze veramente illuminate d’Europa faranno plauso alla nostra politica. Col precorrere gli eventi, col secondare ciò che vi è di giusto, di nobile negli istinti popolari, noi crediamo impossibile la rivoluzione; difatti noi non facciamo che seguire gli esempi che ci vennero dati dalla storia moderna, da re e da statisti illuminati, che seppero colla loro condotta antivenire i pericoli rivoluzionari. Quello che noi facciamo sopra una scala più grande, si fece da statisti inglesi, quando cambiarono le loro leggi economiche per dare soddisfazione alla gran classe consumatrice, i quali in tal modo evitarono i pericoli della rivoluzione del 1848; noi seguimmo l’esempio del Belgio, il quale, rivendicandosi a libertà, e percorrendo una via francamente liberale, seppe pure evitare i pericoli della rivoluzione cui testè accennava. Quel che facciamo noi, lo fanno altresì altre potenze dell’Europa; giacchè, io ripeto, non credo che si possano dire rivoluzionarie le potenze le quali, con opportune riforme, allontanano la rivoluzione, ma bensì quelle che, coll’immobilità, la provocano. Quindi noi crediamo che sia veramente conservatrice la Prussia, che, mettendosi a capo del movimento germanico, va via via sviluppando nel suo paese le istituzioni liberali. Per lo che noi speriamo che la nostra condotta, quando sarà apprezzata dal tribunale dell’opinione pubblica dell’Europa, verrà riconosciuta basare sugli stessi principii che hanno mosso i governi illuminati nel porre un freno alle rivoluzioni, e che quindi la opinione pubblica europea si pronunzierà interamente per noi. Si è sul concorso di questa opinione pubblica che noi facciamo affidamento onde portare a compimento la grande opera del risorgimento italiano; e mi lusingo che quando l’opinione pubblica d’Europa avrà riconosciuta la legittimità, l’utilità del movimento italiano, la soluzione dei due grandi problemi che rimangono insoluti non sarà tanto difficile.
Nulla dirò rispetto a Venezia, giacchè non sorse dubbio intorno ad essa in quest’assemblea, essendosi anzi da generosi oratori pronunziate sulle sue sorti nobili e simpatiche parole; però non vorrei lasciare senza risposta ciò che disse l’egregio mio amico, l’onorevole senatore Gioia, intorno a Roma. Pare che l’onorevole senatore reputasse un poco imprudente la speranza da me manifestata altrove,[4] che cioè, mercè l’appoggio della opinione pubblica la questione romana potesse venir sciolta in modo che l’accordo si stabilisse fra gli Italiani e il Sovrano Pontefice, sicchè Roma tornerebbe, o diverrebbe ciò che io credo essere chiamata a divenire, la nobile capitale dell’Italia rigenerata. Certo io non mi dissimulo le difficoltà nè contesto la verità delle osservazioni fatte dall’onorevole senatore; e per vero, se io non sperassi che un qualche cambiamento dovesse operarsi nello spirito da cui è informata la Corte di Roma, certamente questa mia speranza sarebbe assolutamente vana. Ma, o signori, io nutro ferma fiducia che la libertà, l’esercizio della libertà largamente intesa e lealmente praticata, produrrà una grande modificazione nello spirito, nei sentimenti rispetto alla società civile. Noi non possiamo, signori, dal passato giudicare dell’avvenire, giacchè bisogna esser giusti, il principio della libertà applicato ai rapporti della Chiesa collo Stato, il principio della libertà di coscienza è un principio molto recente nella storia del mondo. Nel secolo scorso questo principio era proclamato da pochissimi pensatori; non vi era partito potente, che se ne facesse propugnatore, ed anche i professanti culti dissidenti non lo professavano a nome della libertà, ma bensì a nome di una migliore interpretazione dei principii del Vangelo. Io non so se m’inganno, ma io confido che questo principio porterà una grave modificazione nei sentimenti del pontefice, del capo del cattolicismo; che lo riconcilierà colla società moderna; e che in pochi anni una trasformazione si farà nel modo di giudicare sui rapporti necessari della società religiosa con la società civile; che questa trasformazione renderà facile la soluzione del gran problema, cioè della coesistenza a Roma del Capo augusto della religione cattolica col centro del Governo dell’Italia rigenerata.
Comunque, o signori, sia questa una fondata speranza o una semplice illusione, ciò non deve distoglierci dal considerare la soluzione di questo problema come scopo che noi dobbiamo cercare di raggiungere, senza tuttavia dissimularci le difficoltà che esso presenta. Io non aggiungerò altre parole, giacchè, il progetto di legge non ha, mi pare, bisogno di esser difeso al vostro cospetto. Io mi limiterò quindi, o signori, a invitarvi a voler fargli la stessa accoglienza che si ebbe in altro recinto del Parlamento, e provare col vostro voto che voi lo giudicate, non come conseguenza di una politica avventata e rivoluzionaria, ma come il riconoscimento solenne del diritto sacro che hanno gli Italiani di disporre liberamente delle proprie sorti. (Vivi applausi dal Senato e dalle tribune.)
Note
- ↑ Il deputato Ferrari.
- ↑ L’ordine del giorno era così concepito: «La Camera dei Deputati mentre plaude altamente allo splendido valore dell’armata di terra e di mare e al generoso patriottismo dei Volontari, attesta la nazionale ammirazione e riconoscenza all’eroico generale Garibaldi che, soccorrendo con magnanimo ardire ai popoli di Sicilia e di Napoli, in nome di Vittorio Emanuele restituiva agli Italiani tanta parte d’Italia.»
- ↑ L’assassinio del colonnello Anviti, a Parma.
- ↑ Alla Camera dei Deputati.
- Testi in cui è citato Ruggiero Gabaleone di Salmour
- Testi in cui è citato Salvatore Pes, marchese di Villamarina
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Giacomo Antonelli
- Testi in cui è citato Vittorio Emanuele II di Savoia
- Testi in cui è citato Giuseppe Garibaldi
- Testi in cui è citato Marco Minghetti
- Testi in cui è citato Leopoldo Galeotti
- Testi in cui è citato Riccardo Sineo
- Testi in cui è citato Enrico Cialdini
- Testi in cui è citato Giuseppe Ferrari (filosofo)
- Testi SAL 75%