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Il conte di Cavour in parlamento/Sull'abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo

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Sull'abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo

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Sull'abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo
Sulla opportunità di rompere la guerra all'Austria Le riforme commerciali
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II.

SULL'ABOLIZIONE DEL FÔRO ECCLESIASTICO

E DEL DIRITTO D'ASILO.


Il conte di Cavour non ebbe una parte considerevole nelle vicende del 1849. Troppo moderato pei democratici vincitori[1] nelle elezioni di gennaio, Torino lo escluse dalla Camera; nè potè rientrarvi che alla fine dell’anno, quando, licenziata quella legislatura perchè non volle approvare il trattato di pace concluso con l’Austria, furono indette nuove elezioni generali.

La figura dell’uomo di Stato comincia a disegnarsi ed a grandeggiare nella discussione che ebbe luogo nel marzo del 1850 a proposito dell’abolizione del foro ecclesiastico. Le opinioni che egli sostenne, gli valsero allora e poi l’accusa di aver cambiato partito. Ma il vero è che sebbene il conte di Cavour tra il 48 e 49 s’era adoperato a tutt’uomo per moderare la impazienza e la temerità del partito avanzato, pure aveva idee conformi a quelle di molti di coloro che lo componevano, quanto alle riforme da attuarsi in Piemonte, a pace conclusa. Gli è per questo che dopo Novara si staccò da alcuni dei suoi compagni, i quali mostravansi disposti a contrastare fin anche quelle miglioríe elementari senza di cui lo Statuto sarebbe rimasto lettera morta.

«Nel 1848 e 49 (disse egli stesso più tardi), benchè io non fossi dell’opinione del mio onorevole amico Rattazzi, a proposito della guerra, eravamo d’accordo su molti altri punti, per esempio, la libertà della stampa e la legge elettorale.

Dopo la pace, quando non si è trattato d’altro che di [p. 20 modifica]questioni interne, nulla più ci separava. Allorchè il Ministero d’Azeglio, di cui io fui un ardente partigiano, sciolse la Camera e fece un appello agli elettori, il resultato delle nuove elezioni dette al Gabinetto una considerevole maggioranza. Come giornalista, io ero in caso di sapere qualche cosa di quello che accadeva dietro il sipario della scena politica. Capii allora che il pericolo più grande pel ministero e pel paese era che il potere cercasse di approfittare di quella maggioranza per fare un passo indietro. E appena terminate le elezioni, comparve sul Risorgimento un articolo che cominciava con queste parole: Non toccate la stampa!» Questa condotta risolutamente liberale che il conte di Cavour tenne nel giornalismo, la continuò poi alla Camera, specialmente nella discussione in cui pronunziò il discorso riferito più oltre.

Il progetto di legge per l’abolizione del fôro ecclesiastico e del diritto di asilo rispondeva ad un vivo desiderio di tutto il paese. Era la necessaria conseguenza dell’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge e della soppressione di qualsiasi tribunale speciale, sancite, in massima, dallo Statuto. L’opinione pubblica, anche perchè le trattative con la Corte di Roma, sebbene con molta perseveranza condotte, riuscirono a vuoto, si chiarì subito favorevole a quel progetto di legge.

La Camera cominciò ad esaminarlo il 6 marzo; ed il ministro Guardasigilli sorse pel primo a difenderlo, mostrando essere il fôro ecclesiastico del tutto inconciliabile con l’obbligo che ha lo Stato di non alienare sotto qualsiasi forma l’amministrazione della giustizia civile e penale.

La estrema Destra rispose alle gagliarde argomentazioni della maggioranza a furia di citazioni tratte dal Diritto canonico e dal Diritto internazionale rispetto ai Concordati, e parlò del malumore che, osteggiando il clero, sarebbesi diffuso per le campagne. E fu allora veduto, con infinito rammarico dei suoi concittadini che in lui scorgevano uno dei figli prediletti della Italia rigenerata, il conte Balbo schierarsi tra i nemici del Governo, il quale pur contentavasi di ben lievi riforme in materia ecclesiastica.

Il conte di Cavour, nel suo discorso, giunse ad una elevatezza di concetti e di forme a cui nessuno dei suoi avversari seppe arrivare. Essi non raccolsero nella votazione che 26 voti contro 150.


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Seduta della Camera, 7 marzo 1850.


Signori, la legge che è ora sottoposta alla nostra deliberazione viene combattuta con due maniere d’argomenti, gli uni tratti dal diritto civile e canonico, gli altri tratti da considerazioni politiche che si fondano specialmente sulla non opportunità della legge. Quanto al primo argomento, io non mi farò a combatterlo, giacchè per ciò mi mancherebbe la dottrina, e quand’anche l’avessi, non potrei farlo certamente in modo adeguato al soggetto, e d’altronde non farei che ripetere in una maniera molto meno soddisfacente quello che venivano ieri esponendo con tanta dottrina, con tanta eloquenza l’onorevole ministro del culto,[2] e l’onorevole mio amico il deputato Bon-Compagni. Io mi limiterò unicamente a trattare la questione d’opportunità; e lo faccio tanto più volentieri, dacchè posso dichiarare alla Camera che in nessuna discussione non sono mai stato così pienamente convinto dell’opportunità della causa che io sorgeva a difendere.

Nella tornata di ieri, due distinti oratori che siedono da questo lato della Camera,[3] con parole piene di schiettezza e di nobiltà, hanno esposte le ragioni per le quali credevano non poter aderire alla proposta ministeriale e doversi perciò su questo punto separare dal maggior numero dei loro amici politici. Io credo che gli argomenti su cui essi fondansi possono distinguersi in quattro categorie, primieramente cioè: essere la presente legge non opportuna a ragione dell’indole dei tempi che corrono; secondariamente non avere carattere d’opportunità per non essersi ancora fatte [p. 22 modifica]bastanti trattative onde compiere di comune accordo con la Santa Sede queste riforme; il terzo argomento deriva dalle considerazioni politiche; il quarto finalmente dall’effetto che queste misure potrebbero cagionare negli animi, dalle conseguenze che potrebbero da esse derivare.

Io prenderò a combattere ad uno ad uno questi argomenti. Prima di tutto, mi permetterò di far osservare, in ordine alla opportunità, che quando una riforma è riconosciuta buona, come venne solennemente riconosciuta dall’onorevole deputato Revel, e credo anche dal deputato Balbo, quando non le si può fare una critica intrinseca, da ciò solo ne risulta un grandissimo argomento d’opportunità. Quando una riforma deve produrre un immediato beneficio, per ciò solo questa riforma è opportuna, e ci vorrebbero abbondantissime ragioni in contrario, onde combattere questo primissimo e fondatissimo argomento.

Vediamo dunque se le obbiezioni che si sono addotte contro il progetto di legge, fondandosi sull’opportunità, sieno tali da vincere queste ragioni. E primieramente dissesi la legge non opportuna a ragione di tempo; e qui ci troviamo a fronte di due argomenti di natura affatto opposta. Gli uni dicono non essere opportuna l’attuale riforma perchè i tempi sono troppo tranquilli, e non conviene turbare questa tranquillità; conviene godersela finchè dura, e non far nulla che possa menomamente diminuirla. (Ilarità.) Gli altri invece dicono non essere i tempi ancora abbastanza tranquilli, e doversi rimandar questa legge finchè una maggior tranquillità sia conseguita. Ai primi farò osservare che è appunto quando i tempi sono tranquilli che i veri uomini di Stato, i veri uomini prudenti, pensano ad operare le riforme utili. (Bravo! Vivi segni d’approvazione.) Quelle che si possono fare con dignità per parte del Governo, non possono certo operarsi se non in tempi tranquilli, e quando il paese non veste nemmeno [p. 23 modifica]in apparenza il colore delle fazioni, dacchè è certamente e più utile e più conveniente farle allorchè il paese è perfettamente tranquillo, che non quando si tumultuasse, e quando i partiti le domandassero in tuono minaccioso. Credo adunque che l’essere i tempi tranquilli sia un potente argomento da addurre in favore dell’opportunità dell’attuale riforma. (Bene!) Quanto poi a coloro (e credo che fra questi siavi l’onorevole conte Balbo) i quali dicono doversi aspettare ancora tempi più tranquilli, dico che veramente senza essere spirito timido nè un allarmista, io non credo che si possa prudentemente rimandare questa riforma a un tempo avvenire, in cui l’attuale tranquillità sia ancora maggiormente cresciuta. Io non credo che siano imminenti nuovi torbidi politici, non divido l’opinione di coloro che vedono pericoli in ogni dove, che vedono le nostre frontiere minacciate dal Lago Maggiore a Sarzana, dalle rive del Varo alle sponde del Lemano; ma nemmeno sono di quegli ottimisti che credono siasi aperta per noi un’epoca di pace quasi eterna. Quindi penso che coloro che vorrebbero mandata questa legge a tempi tranquilli, correrebbero rischio di non veder giungere mai l’opportunità.

Io ne faccio appello all’onorevole conte Balbo che citava l’esempio dell’Inghilterra, e diceva che in quel paese si maturavano le riforme ad un lungo periodo di anni, che la riforma elettorale erasi discussa e riformata dopo 50 anni. Invoco la sua buona fede, e domando se crede che la nostra Costituzione sia robusta come quella inglese, se la nostra condizione politica sia forte come la condizione politica d’Inghilterra, da poter rimandare a 50 anni una riforma come quella che ci occupa. Ho detto, o signori, che io non era un allarmista, ma però credo che senza esser tale, si possa prevedere, se non la probabilità, la possibilità almeno di tempi procellosi. Ebbene, o signori, se voi volete provvedere per questi tempi procellosi, sapete qual sia [p. 24 modifica]il miglior mezzo? Esso è di fare le riforme in tempi pacifici, si è di riformare gli abusi mentre ciò non vi è imposto dai partiti estremi. Se volete ridurre all’impotenza, od almeno scemare la forza di questi partiti, non avete miglior mezzo che togliere loro l’arma più potente, che è quella del domandare la riforma degli abusi la cui esistenza non può essere contestata. Facciamo le riforme in questi tempi in cui non siamo da verun pericolo minacciati, e se i tempi procellosi verranno, ci troveremo in condizione ben migliore per resistere alla tempesta. Io dico adunque che, sia che si considerino i tempi attuali come pacifici, sia che si considerino come non ancora bastantemente pacifici, nell’una come nell’altra ipotesi, la legge attuale hassi a riputare eminentemente opportuna, ed è appunto per chè crederei che coll’indugiare si corresse il pericolo di andare incontro a tempi meno opportuni, che non potrei associarmi all’opinione di coloro che vorrebbero che prima di votare questa legge s’intavolassero nuove trattative con la Corte di Roma. (Segni d’approvazione generale.)

Sicuramente se il Ministero prima di aver fatto alcun passo presso la Santa Sede, prima di aver cercato di ottenere il suo concorso in questa importante bisogna fosse venuto a proporvi immediatamente questa legge, io mi sarei associato a coloro che pensano in ora di dover biasimare la sua condotta. Ma fu detto, sia dal Ministero, sia dai membri che ad esso contrastarono, che queste trattative furono intavolate fino dall’anno 1848. Ed io ricordo che nel seno stesso della Camera, non so bene se nel maggio o nel giugno di tal anno, il guardasigilli d’allora, il conte Sclopis, annunziò avere il Governo iniziato trattative colla Corte di Roma in proposito.

Dopo d’allora non credo che queste trattative siano state interrotte mai; abbiamo avuto un gran numero di ambasciatori di ogni specie a Roma, ed officiali e [p. 25 modifica]non officiali, e laici e sacerdoti, e magistrati e prelati, uomini tutti distintissimi, ed io credo che tutti sono ritornati dalla Corte di Roma senza aver nulla ottenuto.

Ed il conte Balbo mi permetta che io gli dica essere io nell’intima convinzione che nelle attuali circostanze riuscirebbe impossibile l’ottenere per mezzo di trattative un concordato quale si richiede dalla natura dei tempi, dal principio stesso che informa il nostro Statuto.

Infatti, o signori, io non vorrei dir parola che potesse interpretarsi meno che rispettosa per la Santa Sede, poichè, quantunque io non possa approvare la sua condotta politica, io la rispetto altamente come il capo supremo della gerarchia cattolica. Ma se quanto si dice e venne detto da tutti coloro che tornarono da Gaeta è vero, il voler fondare speranza sopra queste nuove trattative sarebbe una vera puerilità.

Infatti, ho udito dire da varie persone autorevolissime che tornarono da Gaeta, onde dare idea dello spirito che domina il Sacro Collegio, che in questo l’uomo più favorevole alle riforme, direi quasi l’estrema sinistra di esso, era il cardinale Lambruschini. (Ilarità prolungata.)

Quando ciò sia vero, io credo che la mia tesi non abbia mestieri di maggior dimostrazione; ma poichè delle trattative sono state intavolate colla Corte di Roma, a che gioverebbe rinnovarle nello stesso modo col quale furono già fatte? Giacchè abbiamo ricevuto un rifiuto poco tempo fa, tornando a presentarsi alla Corte di Roma colla stessa forma, si conseguirebbe lo stesso risultato. Si potrebbe forse dire da taluno: tenete un altro modo, dichiarate apertamente alla Corte romana che se essa non consente a sancire un concordato entro un termine determinato, allora farete senza il suo concorso.

Ma per quanto un siffatto modo di procedere si volesse palliare sotto forme diplomatiche, sarebbe sempre [p. 26 modifica]un vero ultimatum minaccioso, di quelli che nella sfera della politica si mandano alle potenze la vigilia di entrare in campagna. Quindi io credo che questo modo di procedere senza nessun utile effetto tenderebbe anzi ad accrescere le difficoltà che per avventura possano da questa riforma derivare; accrescerebbe certamente i mali umori, e non scemerebbe per nulla gli scrupoli, i timori delle coscienze che non possono approvare queste disposizioni legislative; ma di più aumenterebbe di molto la forza dell’argomento che faceva valere l’onorevole canonico Pernigotti, il quale vi diceva: «Se credevate di far senza la Santa Sede, perchè vi siete rivolti ed essa?» Se la prima volta avete ricevuta una ripulsa, perchè esporvi ancora ad una terza, ad una quarta? Se voi evidentemente dimostrate che non credete avere in voi il diritto bastevole per operare queste riforme, in allora veramente non potrei contraddire all’onorevole Pernigotti.

Per tutto ciò credo poter asserire che non riuscirà inopportuna la legge, anche in ordine alle possibili trattative da farsi colla Santa Sede.

Passo ora a trattare la questione politica: e qui non posso nascondermi che mi inoltro su di un terreno un po’ delicato, onde volentieri mi asterrei, se non credessi mio dovere di porre alcune gravissime considerazioni sott’occhio alla Camera, e specialmente a quelli de’ miei amici politici che in questa circostanza, dolorosamente per noi, hanno creduto doversi separare dal loro partito.

Prima che il magnanimo re Carlo Alberto desse lo Statuto, il paese era diviso in due parti: fra quelli che desideravano ardentemente il conseguimento delle istituzioni liberali, quelli cioè che desideravano il progresso civile, e che, onde ottenerlo, non si sarebbero mostrati più o meno scrupolosi nei mezzi opportuni; e fra coloro i quali erano soddisfatti dello stato vigente di cose, e che a mantenerlo tale avrebbero adoperato tutti i mezzi onde potevano disporre.

[p. 27 modifica]Lo Statuto di Carlo Alberto ebbe il mirabile effetto, per qualche tempo almeno, di far sparire questi due partiti e di riunire l’immensa maggioranza della nazione intorno al trono costituzionale. Infatti l’immensa maggioranza degli amici del progresso accettarono lo Statuto, e quand’anche non lo trovassero forse conforme pienamente ai loro desiderii, lo riconobbero però adattato ai tempi, e bastevole per aprire la strada a quel progresso che era conforme ai loro desiderii. La massima parte poi dell’altro partito accettò lo Statuto come un atto legittimo del Sovrano che aveva diritto alla sua riverenza.

Nè mi si oppongano a questa mia asserzione le lotte parlamentari, più o meno accese, che ebbero luogo in questa Assemblea, giacchè io ho l’intima persuasione che in questo Parlamento vi potessero bensì esistere delle dissidenze, dei diversi modi di pensare circa ai mezzi, ma che tutti, più o meno, fossero intesi ed uniti sullo scopo, e che in esso non vi esistesse altro partito che pienamente costituzionale non fosse.

Sintanto che le considerazioni di politica esterna e la grande impresa tentata dal magnanimo Carlo Alberto occupavano tutti gli spiriti, non si manifestarono gravi dissidenze riguardo alle questioni interne. Dissi gravi dissidenze, perchè non intendo di dar tal nome alle diversità di opinioni intorno alle leggi d’amministrazione, intorno a leggi organiche bensì, ma che si raggirano nella cerchia tracciata dallo Statuto.

Ma quando la prepotenza degli avvenimenti ci astrinse ad abbandonare, almeno per qualche tempo, ogni pensiero di politica esterna, quando l’attività delle menti si rivolse sulle questioni interne, si accese in allora naturalmente lo spirito del partito che era ognora stato devoto al progresso, destandosi in esso vivamente la brama di veder applicato in tutte le sue parti lo Statuto, e l’attuazione di quel progresso che il medesimo prometteva.

[p. 28 modifica]Delle circostanze politiche non verrò io qui discorrendo, che anzi protesto che non voglio di esse rendere risponsale nessuna parte, nessun membro di questo Parlamento; solo intendo di osservare che siffatte contingenze politiche resero per parecchi mesi, ed anzi per un anno, impossibile qualsiasi riforma.

Da simile indugio che cosa ne derivò, almeno a parer mio?

Negli spiriti di molti nacque una dubbiezza, uno scoramento, dacchè si credette che le nostre forme costituzionali fossero incapaci a produrre quegli effetti e quelle riforme che erano richieste dall’opinione pubblica, e che la necessità dei tempi imperiosamente esigeva. E quindi nacque in taluni una disaffezione per le nostre forme rappresentative.

Questo sicuramente non si può dire delle persone illuminate, di coloro che sanno distinguere le cause transitorie dalle cause durature; ma nelle masse, che giudicano più dagli effetti che dalle cause, io credo che questa disposizione degli spiriti sia innegabile, e questo costituisce a’ miei occhi una circostanza gravissima, della quale il Ministero ed il Parlamento devono tener gran conto. Per altra parte quel partito che prima dello Statuto era soddisfatto dell’antico ordine di cose, e che aveva accettato il nuovo patto fondamentale con rassegnazione soltanto, questo partito vedendo che si poteva vivere sotto il regime costituzionale, senza nulla riformare, rimanendo nello statu quo, giunse a poco a poco a credere che si poteva anche mantenere lo Statuto, e retrocedere un poco. (Sensazione.)

Non voglio crearmi pericoli immaginari, e non sono neppure del parere dell’onorevole deputato di Caraglio[4] che un tale partito (quantunque, se non cresciuto in forza, certamente cresciuto in ardire) sia molto minaccioso, e che v’abbia alcuna probabilità anche [p. 29 modifica]remotissima di vederlo trionfare. Di ciò m’assicurano gli alti sensi del Sovrano che ci governa ed il sentimento dell’immensa maggioranza della nazione; giacchè se la nazione piemontese non è forse così impetuosa come le popolazioni di altre provincie d’Italia, è però molto più tenace ne’suoi propositi. (Bene!)

Ma finalmente, quand’anche questo partito non potesse diventare preponderante, egli potrebbe acquistare tal forza, da creare al Governo crescenti imbarazzi, da rendere sempre più difficili le riforme che il Parlamento ed il Governo vogliono compiere. Se rimandassimo questa principale riforma ad altro tempo, ci troveremmo probabilmente a fronte di questo partito più forte, non abbastanza potente per rovesciare il Governo, e porre in pericolo, se non la lettera, almeno lo spirito delle nostre istituzioni, ma sicuramente tale da rendere più difficile l’impresa, già non troppo agevole, del Ministero e dell’onorevole guardasigilli.

Io credo quindi che è opportunissimo che il Ministero faccia un atto che dimostri qual sia il vero, l’intimo sentimento del Governo. Era anzi urgente che per parte dei consiglieri della Corona si facesse un atto tale che stabilisse su base certa il principio politico che essi intendono propugnare, ed io veramente non saprei immaginare una riforma a quell’uopo più adatta di quella che ora viene sottoposta alle nostre deliberazioni. (Bravo! Benissimo! a sinistra.)

Io credo che essa abbia per effetto di provare a tutti gli amici del progresso che questo si può ottenere mercè le nostre istituzioni costituzionali. Io credo che questa riforma debba pienamente manifestare quali sono i veri e reali sentimenti dei consiglieri della Corona e di chi è da essi consigliato. Questa considerazione è per me di una tale gravità, di una sì alta importanza, che essa basterebbe a decidere del mio voto, quando non ve ne fossero altre a porre in campo a favore dell’attuale progetto di legge.

[p. 30 modifica]Se facesse altrimenti il Ministero, se continuasse in una via semi-negativa di piccole riforme, di miglioramenti più o meno omeopatici, che sarebbe accaduto? Quel doppio moto degli spiriti in un senso ed in un altro avrebbe continuato ad allontanarli dal principio costituzionale, e quindi, se fosse accaduto in Europa uno di quei possibili movimenti rivoluzionari, il nostro paese ne sarebbe stato esposto al contraccolpo, per modo che nell’interno del paese sarebbonsi suscitate le fazioni, e noi avremmo vista la nazione divisa in due campi entrambi extralegali, ed il partito costituzionale ridotto a pochi uomini d’istruzione, i quali sarebbero rimasti senza forze, e scherniti col nome di dottrinari.

Credo adunque che l’attuale atto ministeriale debba avere l’effetto di antivenire questo pericolo, la di cui importanza, ripeto, a’ miei occhi era grandissima.

Finalmente vengo al quarto argomento, quello sul quale insisteva maggiormente l’onorevole signor Di Revel, ed è sulle conseguenze dell’attuale riforma nell’interno del paese. Si teme che questa abbia ad inasprire gli animi, abbia ad alienare dal nostro sistema attuale una parte notevole del clero e del popolo, sul quale esso esercita un’influenza.

Se le attuali riforme intaccassero menomamente il principio cattolico, se le attuali riforme menomassero la condizione del sacerdozio, anch’io crederei questo risultato possibile; ma veramente non ho udito un solo oratore sostenere che da queste riforme ne nascesse realmente un danno al sacerdozio, che queste riforme intaccassero il principio cattolico. Anzi molte autorevoli persone hanno sostenuto ed a’ miei occhi provato che queste riforme erano altamente favorevoli al principio cattolico, erano altamente favorevoli a quelle legittime influenze che desideriamo veder esercitate.

Infatti, o signori, il cattolicismo ebbe sempre il gran merito di sapersi adattare ai tempi, di sapere, nella parte di esso mutabile, conformare il suo principio col [p. 31 modifica]partito che reggeva la società. Quindi ottimamente disse l’onorevole deputato Bon-Compagni, che quando la società posava sui privilegi, la Chiesa seppe farsi dare la sua parte di privilegi, e una parte piuttosto larga, ma ora che la società posa sul principio dell’eguaglianza, sul principio del diritto comune, credo che il clero cattolico saprà molto bene adattarvisi, saprà farli suoi, e con questo vedrà crescere la sua influenza, la sua autorità. (Bravo!)

Infatti, io non voglio entrare nei particolari della presente legge, perchè, come già dissi, non potrei farlo adeguatamente; solo osserverò un punto che mi ha colpito. Si è parlato degli inconvenienti de’ processi intentati ai sacerdoti, di scandali pubblici che da questi potrebbero derivare; ma a ciò rispondo che nell’antico sistema pur troppo essendo possibile, e talvolta probabile l’impunità, gl’inconvenienti di essa erano ben più gravi, assai maggiori di quelli che potessero derivare dai processi intentati ai sacerdoti. Io credo che l’esempio di un sacerdote colpevole ed impunito noccia dieci volte più nella pubblica opinione di quello che potrebbe farlo un processo intentato nelle forme volute dalle leggi; che l’impunità di alcuni torni a grave danno di tutti, poichè dà luogo non solo alla maldicenza, ma pur anche alle calunnie. Il che non avverrà, quando il sacerdote sarà sottoposto alle leggi comuni.

Dico adunque che le riforme proposte in ordine al foro ecclesiastico devono tornare altamente utili alla influenza del sacerdozio. Lo stesso può dirsi delle immunità e della legge di asilo. Io mi ricordo nella mia prima gioventù, essendo a Ventimiglia, di aver visto ricoverarsi in un convento un frate ch’era inquisito di un delitto, e quindi questo convento circondato per un mese da una truppa di soldati e di carabinieri. Mi sovvengo dell’effetto che un fatto tale produsse sopra di me e sulla popolazione tutta, e posso accertare che fu utente affatto favorevole nè alla religione nè al sacerdozio. [p. 32 modifica]Se ciò è vero, se le conseguenze delle riforme non possono essere di nocumento alla religione, sarebbe egli possibile che destassero negli animi dei sacerdoti un’ostilità duratura contro le nostre istituzioni, contro il Governo ed il Parlamento che queste riforme promuove?

Il sostenere questa tesi è un fare un torto al sacerdozio, un crederlo capace di sentimenti egoistici, di sentimenti puerili e bassi. Io nol credo, ed anzi ho l’intima convinzione che queste riforme non avranno per effetto di sommuovere gli animi ed eccitare disprezzo contro di noi; al più ne potrà risultare qualche piccolo malumore, qualche passeggiera irritazione, ma l’immensa maggiorità non tarderà, come diceva l’onorevole deputato Pernigotti, a stringerci la mano ed offrirci il bacio di pace. E noi che non siamo così austeri come il deputato di Caraglio (ilarità prolungata) lo accoglieremo con sommo piacere, e stringeremo molto volentieri l’unione col sacerdozio, giacchè portiamo ferma opinione che al progresso della civiltà moderna si richiede il concorso delle due potenze morali che possono più agire sulle società: la religione e la libertà. (Bravo! a destra.)

Io quindi non nutro i timori di pessimi effetti di cui faceva cenno l’onorevole deputato Revel, nè credo aversi a temere di suscitare ostilità, nè di seminare in certo modo il germe di una guerra religiosa.

Ecco quello che a mio senso succederà.

Io già vi dissi in altra parte del mio discorso che vi era un partito il quale aveva accolto con poco favore le nostre nuove istituzioni, e di questo partito alcuni sacerdoti fanno parte.

Io sono convinto esser questa una minorità; tuttavia è incontrastabile che vi sono sacerdoti i quali fanno parte di questo partito, e sono forse i più attivi, e per denominarli con una parola un po’ più forte, i più intriganti. Costoro però hanno finora più o meno celati i loro sentimenti, hanno nascosto le loro ostilità, e si [p. 33 modifica]contentarono di muovere alle nostre istituzioni una guerra insidiosa. Ora con questa legge si è somministrato loro un motivo, un pretesto, per dichiararsi apertamente. Quindi il solo effetto che in ordine al clero debbe da questa legge conseguire, sarà di trasformare in nemici aperti i nemici insidiosi, ed in ciò invece di vedere una ragione per rifiutare la legge, io ne vedo anzi una per accoglierla, giacchè credo infinitamente meno pericolosi nemici aperti che nemici occulti. (Bravo!)

Credo aver compiutamente dimostrato non esservi alcun fondamento negli argomenti che si opponevano a questa legge riguardo all’opportunità; quindi dovrei metter fine al mio discorso; ma voglio ancora rispondere ad un argomento, il quale, quantunque non sia stato posto in campo da questa Camera, può avere una qualche influenza sulle persone che si mostrano soverchiamente tenere del principio di autorità. Questa riforma è da alcuni ravvisata come un atto di debolezza, come una concessione fatta allo spirito rivoluzionario. Se questa riforma non fosse opportuna, se contro di essa si fossero messi in campo validi e saldi argomenti dedotti dal merito intrinseco di essa, e che in appoggio non si fosse posto in campo che la considerazione di conciliare i partiti, io aderirei al valore di questo argomento; ma lo credo contrario al nostro caso. Tutti gli oratori hanno più o meno approvata tale riforma considerata in sè stessa; i soli argomenti che ad essa si opposero, furono quelli tolti dallo spirito di parte, dalla necessità di conciliare un partito con l’altro. Dunque anche da questo lato io non credo che gli uomini i più teneri del principio dell’autorità possano contrastare. (Bravo!) Ed a questi uomini io mi farò lecito di dire: volgete gli occhi a tutti i paesi d’Europa, e vedete chi sono coloro che poterono resistere alla bufera rivoluzionaria. Nol poterono i principi di Germania i quali videro tutti, più o meno, insanguinate le loro capitali; nol potè la Francia, che vide rovesciato in poche ore un trono. In [p. 34 modifica]questo paese vi erano uomini distinti, oculatissimi, che, senza contrastare il merito delle riforme politiche, le rimandarono dicendole inopportune, e con questa procrastinazione furono colti dallo spirito rivoluzionario, e le riforme, invece di compiersi con maturità ed esperienza, si compierono colla violenza e colla rivoluzione. Se il signor Guizot, il quale non contrastava egli stesso la giustizia di coloro che domandavano la riforma elettorale, non l’avesse rimandata come inopportuna, egli è probabilissimo che Luigi Filippo sarebbe ancora sul trono. (Sensazione. ) Qual’è dunque il solo paese che seppe preservarsi dalla bufera rivoluzionaria? È quell’Inghilterra a cui accennava il deputato Balbo. In quel paese uomini di Stato i quali avevano caro il principio conservatore, che sapevano far rispettare il principio di autorità, ebbero pure il coraggio di compiere immense riforme, a petto delle quali quella di cui noi ci occupiamo è ben poca cosa, e ciò, quantunque una parte numerosa dei loro amici politici le combattessero come inopportune.

Nel 1829, il duca di Wellington, al quale non si può certamente negare fermezza di carattere ed energia, seppe pure separarsi dai suoi amici politici, e compiere l’emancipazione cattolica, che l’intera Chiesa anglicana combatteva come inopportuna; e con questa riforma evitò nel 1830 una guerra religiosa nell’Irlanda.

Nel 1832 lord Grey, separandosi dalla maggior parte del ceto a cui apparteneva, seppe pure fare accettare e dalla Corona e dall’aristocrazia la riforma elettorale che si riputava non solo inopportuna, ma quasi rivoluzionaria, e con questa riforma lord Grey preservò l’Inghilterra da ogni commozione politica. Finalmente o signori, un esempio più recente e più luminoso fu quello che ci diede sir Roberto Peel nel 1846. Egli seppe compiere una riforma economica, malgrado gli sforzi di tutta l’aristocrazia territoriale, nella quale questa non [p. 35 modifica]perdeva solo una giurisdizione eccezionale, ma una parte delle rendite; e per compiere questa gran riforma, il ministro Peel ebbe il coraggio di scostarsi dalla massima parte dei suoi amici politici e di soggiacere all’accusa che più colpisce un uomo di Stato generoso come il Peel, quella di apostasia e di tradimento. Ma di questo fu largamente compensato dalla sua coscienza, e dal sapere che quella riforma salvava l’Inghilterra dalle commozioni socialistiche, le quali agitavano tutta Europa, e che parevano dover trovare esca maggiore nell’Inghilterra.

Vedete dunque, o signori, come le riforme compiute a tempo, invece d’indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza. (Sensazione.) Io dirò dunque ai signori ministri: imitate francamente l’esempio del duca di Wellington, di lord Grey e di sir Roberto Peel, che la storia proclamerà i primi uomini di Stato dell’epoca nostra; progredite largamente nella via delle riforme, e non temete ch’esse siano dichiarate inopportune: non temete d’indebolire la potenza del trono costituzionale che è nelle vostre mani affidato, chè invece lo afforzerete, invece con ciò farete sì che questo trono ponga nel nostro paese così salde radici, che quand’anche s’innalzi intorno a noi la tempesta rivoluzionaria, esso potrà non solo resistere a questa tempesta, ma altresì, raccogliendo attorno a sè tutte le forze vive d’Italia, potrà condurre la nostra nazione a quegli alti destini cui è chiamata. (Lunghi e fragorosi applausi da tutti i banchi e dalle gallerie. L’onorevole oratore riceve le congratulazioni di molti deputati che siedono attorno a lui, e discendendo dal suo posto per muovere fuori della sala, tutti i ministri gli danno una stretta di mano e parecchi deputati della Sinistra si felicitano con esso.)

Note

  1. Il partito democratico e gli elettori del suo collegio di Torino gli preferirono un tal Pansoya.
  2. Il conte Siccardi.
  3. Ossia a destra, ed erano Cesare Balbo, e monsignor Marongiù, Vescovo di Cagliari.
  4. Brofferio.