Il continente misterioso/7. Il kerredais

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7. Il kerredais

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6. I grandi allevatori australiani 8. La tribù dei monti Bagot

7.

IL KERREDAIS


Ai primi albori la piccola carovana levava il campo e attraversava lo Stevenson, che in quel punto era largo appena cento metri e assai scarso d'acqua. Dei pastori e delle loro mandrie non si scorgevano che le tracce e a quell'ora dovevano essere già assai lontani o forse accampati nelle boscaglie del sud, preferendo marciare di notte, durante i grandi calori della stagione estiva. Dopo d'aver superata la sponda opposta che saliva dolcemente, il dray si avanzò sotto un bosco di alberi così giganteschi da strappare ai due marinai delle grida di stupore.

Era un bosco di karri-eucalyptus o eucalyptus colossi, di bleu-gum (eucalyptus turchini) e di red-gum (eucalyptus rossi) dalle fibre tenaci che mai imputridiscono. Questi giganti superano in altezza tutte le piante che crescono sulla superficie del globo. Non hanno il diametro smisurato delle famose sequoia Wellingtonia che crescono sulle montagne della California, ma per altezza vincono gli alberi del continente americano.

Ordinariamente questi eucalyptus, che appartengono alla famiglia delle mirtacee, toccano i trecentocinquanta piedi, ma se ne sono scoperti di quelli assai più elevati.

In una gola del fiume Warren, il signor Pemberton Walcoff ne ha trovato uno che misurava quattrocento piedi d'altezza, ossia quasi centotrentacinque metri e così grosso che nel suo interno, essendo cavo, potevano ricoverarsi tre uomini e tre cavalli!... Nelle gole di Dandenong il dottor Bayle ne ha veduto uno invece che misurava quattrocentoventi piedi, ossia centoquarantacinque metri; era stato rovesciato al suolo, o forse era caduto per decrepitezza ed apparteneva al genere eucalyptus amygdalina... Ma il signor G. Klein ne ha trovato uno che misurava quattrocentottanta piedi, ossia quasi centosessanta metri e il signor E. D. Hayne, un altro che gli ha fornito i seguenti dati: lunghezza del tronco dal suolo al primo ramo duecentonovantacinque piedi; diametro del tronco all'altezza del primo ramo quattro piedi; lunghezza del tronco dal primo ramo alla cima novanta piedi; circonferenza del tronco alla base quaranta piedi. Ma tutti questi giganti sono stati superati dall'eucalyptus amygdalina che fu scoperto nella catena di monti che sorge dietro a Berwick, presso le sorgenti dell'Yarro e del Latrobe. Quest'albero, che senza dubbio è il più alto del globo, ha una circonferenza di ottantadue piedi e un'altezza di cinquecento piedi, ossia di centosessantacinque metri... Supera adunque i più alti monumenti eretti dagli uomini e perfino la grandiosa piramide di Cheope che tocca solamente i quattrocentottanta piedi.

Immaginatevi adunque la meraviglia che colpisce il viaggiatore che s'inoltra sotto quei giganti della vegetazione le cui cime pare che si confondano colla vòlta celeste! E immaginatevi soprattutto lo stupore che egli prova nel trovare là sotto, invece di una frescura invidiabile, un'atmosfera secca e tiepida e nemmeno un palmo d'ombra in causa della strana disposizione delle foglie che non arrestano i raggi ardenti dell'astro diurno!...

Cardozo e Diego, quantunque preparati a tutte le incredibili sorprese che offre il continente australiano così bizzarro, così diverso da tutti gli altri, erano rimasti a bocca aperta dinanzi a quella superba foresta di colossi, di cui i più piccoli superavano un'altezza di duecentocinquanta piedi.

— Curioso paese! — esclamava il bravo mastro, sbarrando gli occhi. — Si è mai veduto una foresta simile? Si direbbe che questo è un bosco di campanili, ma che campanili!... Quelli di Assuncion possono nascondersi per non arrossire!...

— E i più alti alberi del nostro paese possono chiamarsi pigmei dinanzi a questi colossi — disse Cardozo. — Non possiamo chiamarli nemmeno loro figli!...

— Come mi piacerebbe dare una scalata a uno di questi alberi! Che vista si deve godere di lassù!

— È un po' difficile per un uomo bianco, per non dire impossibile, mastro — disse il dottore.

— Per un uomo bianco! Sarà impossibile anche per un australiano, suppongo.

— T'inganni, mastro Diego. Gli australiani sono valenti arrampicatori, tali anzi da dare dei punti alle scimmie.

— Ah, per Bacco! non crederò mai che un australiano possa arrampicarsi su questi giganti. Bisognerebbe che avessero le braccia d'un calamaro, d'un cefalopodo.

— Basta la loro scure di pietra.

— Forse che la cambiano in una scala? — chiese il mastro ironicamente.

— No, incredulo mastro, ma serve a loro forse meglio d'una scala. Essendo ambidestri, cioè essendo abituati fino dall'infanzia a servirsi con egual vigore e agilità di entrambe le mani, avendo le loro madri la precauzione di legare a loro or l'uno e or l'altro membro quando sono giovani, la manovra riesce facilissima. Colla loro scure fanno una tacca profonda nella corteccia e vi introducono un piede, poi più su ne fanno un'altra e vi introducono la mano destra, una terza più in alto e vi introducono la sinistra e via via s'innalzano moltiplicando i tagli e con una rapidità incredibile. È cosa certa che devono essere dotati di una grande agilità e di un'audacia unica e che non devono soffrire i capogiri.

— Sono come le scimmie, adunque!

— Forse più agili e più lesti delle scimmie, Diego — disse il dottore.

— Oh! — esclamò Cardozo, che guardava quei colossali vegetali con attenzione. — Guarda lassù, Diego, che uccellaccio!

— Vedi un condor?

— Ma che condor! Non siamo in America, marinaio. Là, guarda su quel ramo.

Il mastro guardò nella direzione indicata e scorse un grande uccello, grosso come due tacchini, colle ali assai larghe, fornito di una coda lunghissima formata da due sole penne.

— Mi sembra un pollo d'India! — esclamò il mastro, che dimenava già le mascelle come assaporasse quelle deliziose carni. — Ma non vedo la sua testa, figliuol mio. Che non l'abbia?

— Se non la vedi è perché l'ha tanto piccola in paragone del suo corpo o meglio della massa delle sue penne, che si stenta a vederla — rispose il dottore.

— È un tacchino adunque?

— Ma no, mastro, t'inganni di grosso. Quell'uccellaccio, come lo chiama Cardozo, è uno splendido argo.

— È degno d'un colpo di fucile, dottore?

— Sì, ghiottone — disse Alvaro ridendo. — La sua carne è squisita.

— A te, Cardozo, — disse il mastro, — e bada di non mancare al colpo, figliuol mio.

Il giovane marinaio puntò lo snider, mirò alcuni istanti e fece fuoco. L'argo, colpito dall'infallibile palla del cacciatore, spiegò bruscamente le sue grandi ali, tentò di guadagnare un ramo vicino, ma le forze vennero meno e precipitò, roteando su se stesso, ai piedi di Niro-Warranga che lo ghermì lestamente. Era un bell'uccello, grosso più d'un tacchino; pareva che fosse coperto d'un grande manto di lunghe piume nere a striature biancastre e rossicce e fomite di occhi simili a quelli che si vedono sulla coda del pavone, ma più chiari e privi di quegli splendidi riflessi azzurri e dorati. Lungo il dorso portava un rialzo di piume rossicce punteggiate in nero e la sua coda terminava in due penne lunghe circa cinquanta centimetri, leggermente ricurve e nere. Pareva grossissimo, mentre la testa era piccola assai, ma il mastro s'accorse invece che quel corpo era poco pesante e relativamente assai esile.

— Quest'uccello è tutto penne — diss'egli con malumore. — Lo credevo molto più grosso.

— Ma è splendido — disse Cardozo che lo esaminava con viva curiosità.

— E quello è brutto come una scimmia — disse il mastro facendo un improvviso voltafaccia e puntando rapidamente il fucile.

— Chi? — chiesero ad una voce il dottore e Cardozo.

Un grido bizzarro, prolungato, echeggiò sotto i grandi alberi.

— Cooomooohooo-èèè.

— Mille fulmini! — esclamò il mastro. — È brutto come un orco e canta peggio d'un pappagallo stonato!...

Un negro, un selvaggio, era improvvisamente apparso presso un grande eucalipto che lanciava la sua cima a centocinquanta metri d'altezza. Era brutto, tanto brutto da incutere paura: era un uomo di media statura, dalla pelle cuprea, ma coperta di pitture stranissime, bianche, azzurre e gialle, i capelli neri ma non crespi come quelli degli africani quantunque fossero un po' ricciuti, una testa che ricordava quella del chimpanzè, allungata, colla fronte compressa, il naso schiacciato, una bocca enorme che mostrava dei candidi denti. Il suo corpo era di una magrezza spaventosa, ma il suo ventre era prominente e le sue gambe sottili e affatto mancanti di polpacci.

Era insomma un vero campione, di quella razza degenerata che vive nell'interno del continente australiano.

Il suo vestito si componeva di una cintura di pelle di opossum, nella quale erano infilati una scure di pietra, un boomerang e un giavellotto, e d'un piccolo mantello di pelle di kanguro. Portava inoltre una specie di borsa, contenente forse i colori per le pitture e il grasso per ungersi.

Dietro di lui, i due marinai scorsero, con loro grande sorpresa, un grosso uccello, un piccolo struzzo alto un metro e mezzo, dalle penne oscure ma più fine di quelle degli struzzi africani, con una protuberanza ossea sul capo, le zampe grosse e robuste, le ali corte, membranose, con poche piume e la coda cadente. Sul dorso portava una specie di cassetta di corteccia d'albero gommoso, contenente chissà mai quale diabolica raccolta.

— Mille lampi! — esclamò il mastro. — Come è brutto quel selvaggio! Un gorilla in suo confronto è una bellezza.

— Ehi, Coco, chi è quel quadrumane che puzza di selvatico ad un miglio di distanza?

— Un kerredais — rispose Niro-Warranga, non dissimulando una certa apprensione.

— Cos'è questo kerredais?

— È uno stregone, un ciarlatano qualunque ed anche un medico — rispose il dottore.

— Che stia lontano! Non vorrei che ci gettasse addosso qualche malefizio.

— Ehi, mastro! — esclamò Cardozo. — Sei superstizioso, forse?

— Come un marinaio, figliuol mio. Ma che razza di uccello conduce quello stregone?

— Un emù, uno struzzo australiano — rispose il dottore.

— Porta forse i ferri chirurgici del padrone?

— Io credo che quella cassetta contenga invece delle stregonerie, mastro mio — disse il dottore, ridendo. — Forse vi saranno là dentro i colori per le pitture, la gomma per attaccare le asce di pietra ed altre simili cose. Toh! Se lo invitassimo a fare colazione e a preparare il nostro kanguro? Si dice che sanno cucinare assai bene questi animali, i selvaggi australiani.

— Ehi, scimmia, fatti avanti, — gridò il mastro, — ma puoi lasciare le tue stregonerie fuori dalla foresta.

Lo stregone, che non doveva averlo compreso, non si mosse, ma dietro invito di Niro-Warranga, si fece lentamente avanti tirandosi dietro l'emù e venne a strofinare il suo naso con quello del dottore, il quale corrispose al saluto, quantunque quel selvaggio esalasse un acuto odore di ammoniaca e di selvatico. Apprendendo che lo si invitava a far colazione, egli aprì una bocca larga come un forno e scoppiò in una risata convulsa, battendosi il ventre con ambe le mani. Quel povero diavolo doveva essere ben contento di fare una scorpacciata, poiché, a giudicarlo dalla sua estrema magrezza, doveva aver fatto dei lunghi digiuni, cosa che tocca sovente agli australiani che sono alle prese colla fame fino dal primo giorno che nascono.

Niro-Warranga gettò dal carro il kanguro, facendo comprendere al suo compatriota, che i suoi padroni desideravano di prepararlo secondo l'uso del paese. Lo stregone, che già dimenava le mascelle, diede un calcio allo struzzo, mandandolo a pascolare al largo e si mise ad aiutare la guida con un ardore che indicava la gran fame che tenagliava il suo stomaco.

— Attenzione, Cardozo — disse il mastro. — Vediamo come questi selvaggi preparano il loro piatto nazionale.

— Ma, dottore, c'è pericolo che lo cucinino troppo o che lo rendano immangiabile?

— Non temere, mastro — rispose Alvaro. — Ti leccherai le dita, te l'assicuro.

— Hum! Conservo i miei dubbi, dottore; però sorveglierò anch'io l'arrosto e se vedrò che minaccia di abbruciare, con due pedate manderò lo stregone al suo paese. Animo, Coco, al lavoro, che mi sento un appetito da pescecane.

Non era necessario di incoraggiare i due cuochi, che parevano impazienti di dare un colpo di dente a quella succolenta selvaggina. Lo stregone e Niro-Warranga, servendosi di due bastoni appuntiti e induriti al fuoco, in pochi minuti scavarono una buca profonda mezzo metro, tappezzando il fondo con delle pietre raccolte in un ruscello disseccato, ma procurando di scegliere quelle piatte; poi la coprirono di rami secchi che subito accesero. Preparato il forno, sventrarono il kanguro senza privarlo della pelle, gli tolsero le interiora che gettarono allo struzzo e vi misero dentro i suoi piccoli, delle foglie, delle erbe aromatiche e delle pallottoline di grasso che tramandavano un profumo gradevolissimo, poi cucirono l'apertura con una fibra vegetale.

— Finora tutto procede bene — disse il mastro, che sorvegliava attentamente le operazioni dei due cuochi. — Ma quel grasso?... Hum! Che sia grasso umano, dottore?

— No, sospettoso mastro — rispose Alvaro. — È grasso di kanguro impastato con succhi aromatici.

I due selvaggi, intanto, strofinavano vigorosamente il kanguro con delle pietre dalla punta tagliente, per strappargli il morbido pelo. Compiuta quell'operazione, lo precipitarono nella buca che era stata sbarazzata dei tizzoni e lo coprirono con cenere calda e brace.

Dopo mezz'ora lo ritiravano, deponendolo su di un grande pezzo di corteccia d'albero di gomma. L'animale, cucinato intero, tramandava un odore così appetitoso, da far venire l'acqua in bocca ai due marinai. Niro-Warranga con pochi colpi di coltello scucì il ventre, vi mise un bastoncino per mantenerlo aperto, e ponendo nelle mani del mastro una radice di uwrang, dei biscotti, disse:

— Bagnate, il succo abbonda ed è delizioso.

Diego cacciò prima il naso nell'apertura dell'arrosto gigante, poi guardò dentro: il profumo che usciva prometteva una colazione squisita. Provò a bagnare un biscotto nel liquido radunato nel ventre del kanguro, e dopo una breve esitazione ne addentò mezzo.

— Ma è squisito, questo sugo! — esclamò. — A tavola, selvaggi e persone incivilite, o io divoro tutto.

Si assisero tutti cinque attorno l'arrosto e si misero a lavorare di denti, divorando biscotti e radici in gran numero. Quando il sugo fu terminato, Niro-Warranga spaccò il kanguro, offrì il cervello, che è il pezzo d'onore, al padrone, poi i piccoli kanguri ai due marinai.

Diego, che trovava l'arrosto delizioso, divorava per quattro, ma non riusciva però a vincere lo stregone, che divorava per otto e con una avidità mai veduta. Il suo forno si apriva senza posa e inghiottiva pezzi enormi, mentre i suoi denti, duri come l'acciaio e acuti come quelli di una tigre, stritolavano le ossa più grosse come fossero zuccherini.

Il povero uomo, probabilmente non aveva mai fatto una simile orgia di carne. Pareva che volesse rimpinzarsi anche per l'avvenire.

I suoi compagni, sazi oltre l'usato, avevano smesso di mangiare da un bel pezzo, ma egli continuava a lavorare di denti, né si arrestò se non quando la pelle del suo ventre fu così distesa da minacciare di scoppiare. Allora si rovesciò voluttuosamente fra le erbe, chiuse gli occhi e si assopì pacificamente, russando come una trottola d'Alemagna.

— Per Bacco! — esclamò il mastro. — Che divoratore! Non mangerà più per una settimana!...

— T'inganni, mastro — disse il dottore. — Appena si sveglierà, comincerà da capo.

— Come! Mangerà ancora?...

— E continuerà finché avrà divorato tutto.

— Ma che ventre hanno questi selvaggi?

— Hanno sempre fame, mastro. Nascono affamati e muoiono affamati.

— È un male che hanno?

— No, ma soffrono dei digiuni molto lunghi; l'Australia scarseggia di selvaggina e quei disgraziati negri che non sono coltivatori, che non hanno alberi da frutta, passano delle settimane senza mettere sotto i denti un pezzo di carne od una radice. Aggiungi che sono imprevidenti all'eccesso. Se riescono ad ammazzare un kanguro o un altro capo di selvaggina, si affrettano a divorarlo tutto, senza pensare all'indomani. Mangiano fino che scoppiano, poi dormono per digerire il troppo copioso pasto; risvegliatisi, tornano a divorare, poi dormono ancora e continuano così fino a che più nulla rimane.

"Uccidono due, quattro, dieci animali? Non pensano ad affumicare o a seccare le carni per i giorni tristi, ma chiamano i loro amici, i loro parenti e si affrettano a divorare tutto rimpinzandosi più che possono."

— Ghiottoni!... Coco, dove va questo stregone?

— A celebrare un matrimonio — rispose Niro-Warranga.

— Dove? — chiesero il dottore e Cardozo.

— In una tribù accampata ai piedi dei monti Bagot.

— Lo accompagneremo — disse il dottore. — Segue la nostra via e poi mi preme di interrogare quei selvaggi. Chissà che non possano darmi delle notizie sul nostro compatriota.

— Ripartiamo? — chiese Cardozo.

— Sì, mio giovane amico. Caricate lo stregone sul carro, raccogliete gli avanzi dell'arrosto, legate lo struzzo e mettiamoci in marcia.

Diego e Cardozo afferrarono il selvaggio e lo gettarono nel dray, senza che si svegliasse, s'impadronirono dell'emù che stava assorbendo gli intestini del kanguro, poi risaliti tutti a cavallo ripresero la marcia piegando verso il nord-ovest.