Il festino/Lettera di dedica

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Lettera di dedica

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Il festino L'autore a chi legge

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Al Nobilissimo ed ornatissimo Cavaliere

IL SIGNOR CONTE

DON PIETRO VERRI

PATRIZIO MILANESE

Ciambellano delle loro M.M. R.R. I.I.

Conte di Luccino e di S. Pietro Donate

Pieve di Settala.

FRA GLI ARCADI DI ROMA

Midonte Priamideo

.


A
chi dirigo il presente foglio? Al Cavaliere, o al Poeta? Il Conte Verri mi ricorda la sua Nobiltade e la mia bassezza; Midonte Priamideo il suo sapere e la mia ignoranza. Ma nell’uno o nell’altro grado ch’io vi consideri, Nobilissimo ed eruditissimo Signor Conte Pietro, ho prove tali della gentilezza e cortesia vostra, che dietro al mio desiderio spingendomi, potrò senza tema e senza rossore ragionare con Voi scrivendo, ed una mia Commedia raccomandarvi. Il mio Festino lo avete veduto parecchie volte rappresentare. La vostra Città Magnifica lo accolse con sì allegro animo, che cinque volte in pochissimi giorni obbligò i Comici a rappresentarlo1, crescendo sempre il concorso de’ spettatori benevoli, in verso di me e delle opere mie cortesemente inclinati. Il giudizio rispettabile di una Città erudita, brillante in ogni genere di buon gusto, è bastevole ad accreditare quest’opera della mia mano, malgrado i difetti che la circondano. Ma i favori del Pubblico e i viva teatrali finiscono col suono delle voci, e senza [p. 12 modifica]una singolare protezione non può sperar di vivere lungamente nella memoria del Popolo, che con festevoli segni sonoro plauso le fece universale e sincero. A Voi dunque, amatissimo Signor Conte, la gloria durevole di quest’opera mia raccomando, la quale fregiata essendo del vostro nome, ricorderò non solo agli amanti suoi la prima benevoglienza, ma un maggior numero le acquisterà di persone a favorirla inclinate, e passerà nel concetto dei posteri per cosa degna di qualche lode. Grazia non vi domando che negar mi possiate, nè che di malavoglia da Voi mi si abbia a concedere, poichè de’ miei Comici studi vi dichiaraste in sì fatto modo parziale, che l’onore sostenendo della mia causa, la vostra non meno a difendere2 vi conducete. Quel vostro elegantissimo Poemetto, di bei poetici voli e di soda erudizione fornito, La vera Commedia3, coi versi Martelliani vestita, a me dalla vostra vezzosa penna festevolmente diretta, porta il mio nome all’apice della Gloria; lavora per me un saggio onorato fra gli accreditati Scrittori della Commedia, e mi corona la fronte col più bel frutto de’ miei sudori.

Con quanto maestrevole brio andate voi divisando nei primi versi i caratteri alla società degli uomini più molesti, e della correttrice Commedia più bisognosi! Voi mi offrite abbondevole messe di Curiosi arditi, di Parlatori seccanti, di Pedanti garruli e Letterati impostori, di Poeti stucchevoli, Giuristi indotti, Millantori ridicoli, sciocchi Formalisti e Cerimoniosi importuni, de’ quali tutti rimedio utile sembra a Voi giudiziosamente la Comica arte, siccome le Sacre leggi e Profane rimediano al più importante disordine della malvagità e delle colpe. Lo specchio posto dinanzi agli uomini sulla scena, può correggerli, può moderarli. Fu questo l’oggetto primo della Commedia; tale a noi la mandarono i primi Autori di essa, tale ne’ buoni secoli l’Italia nostra la coltivò, e voi piangete a ragione la miserabile sua decadenza per l’incursione de’ Barbari distruttori non meno di queste amene contrade, [p. 13 modifica]che delle Scienze e delle Arti di cui mirabilmente fiorivano. Piacemi la giustizia che sapete rendere ai Fiorentini e ai Milanesi vostri compatriotti, i quali in mezzo alle scorrezioni della Commedia, maltrattata dagli Istrioni, andavano di tratto in tratto sollevandola dal suo fango, ma poi mi fate arrossire, allorchè dare a me il vanto Vi compiacete d’averla a miglior destino condotta. Voi rilevaste assai bene la mia maggiore fatica nel combattere da principio gli abusi e le corruttele dell’infelice Teatro, movendo guerra alla Mimica, ma in guisa tale che più per assedio che per violento assalto mi avesse a cedere la vittoria. Non può essere meglio adattato il parallelo del canocchiale astronomico, in cui si frappone l’affumicato cristallo, per reggere ai violenti raggi del sole, volendo l’arte del Comico manifestare, che al regolato sistema delle opere sue va meschiando qualche licenza dell’arte, per non colpire soverchiamente l’animo de’ Spettatori male avvezzati, con animo di convertirli gradatamente a detestare gli abusi, e ad invaghirli della migliore condotta, della verità, della critica e del buon esempio. Bellissima è la descrizione che voi faceste delle Maschere nella Commedia usate, rilevandone i difetti loro; e giudiziosamente lodaste che delle parti serie ridotte dall’arte comica al dispregio del Popolo pensassi io ricavarne i migliori soggetti per la derisione del vizio, e per l’esaltamento della virtù; considerando Voi saggiamente, che il riso non è il primario fine della Commedia, ma il mezzo salutevole ed opportuno che trattiene gli Spettatori a ricevere, loro malgrado, quella parte di derisione, che ai difetti loro conviene. Bruyère4, Loke, Noble, Pope'' da Voi allegati, e da voi perfettamente conosciuti ed intesi, parlano, coi principi della buona Filosofia, delle proprietà e delle vere cagioni del riso, ma a loro modo l’intendono quei garruli letterati, che voi segnate col titolo di pedanti, che vogliono a ciaschedun soprastare, che il nero si credono, coll’autorità che si arrogano, far apparire per bianco, che delle opere altrui [p. 14 modifica]presumono di acremente decidere; gente inutile, prosuntuosa, di cui elegantemente diceste

In fra cinquanta retori non trovi un oratore.

Pur troppo è vero, Signor Conte umanissimo, che da parecchi di tale schiatta s’alzarono contro di me alte grida, ed attaccandomi nelle parole, volevano che per qualche termine preso ad imprestito dalla Senna dall’Adda, dal Po, o dalle nostre Lagune, mi facessero esiliar dal Parnaso i sacri custodi della purezza dell’Arno, ma questo, come voi dite, non è che un arrestarsi alla scorza, e non curare il midollo dell’albero, dovendosi dai severi giudici delle opere mie considerar piuttosto, se io abbia eseguito i precetti de’ gran Maestri dell’arte, la nostra età dipingendo, come essi hanno le età loro dipinte; poichè, parlando coi vostri termini, la volubile ruota, che su l’universo ha impero, cambia i costumi degli uomini, e dee a seconda di essi cangiar d’aspetto la Commedia medesima, e in luogo di esporre alla derisione il Parassito ingordo, il Soldato vanaglorioso, la Balia seduttrice, l’astuto Greco, dobbiamo valersi de’ Damerini affettati, de’ Maldicenti maligni, de’ Critici ignoranti, e dei Boccaccevoli caricati. Io ho posto arditamente la mano in caratteri di maggior conto. Sull’orme del rispettato Moliere, ha fatto argomento delle mie scene il Nobile, il Togato, il Ministro, e voi su di ciò mi difendete nei vostri carmi contro coloro che la Commedia tratta vorrebbero dalla bassa plebe. Questa è la Tabernaria, ed io medesimo più d’una volta l’ho posta in uso, ma Voi, Signore, dite benissimo: Il dardo comico non assi a scoccar solamente contro lo sciocco e il vile, ma contro tutti coloro che nella Società degli uomini hanno il loro ridicolo, lo che ritrovasi in tutti i gradi. Voi passate a riflettere gentilmente se la Commedia abbia ad essere scritta colla prosa, o col verso, e vi dichiaraste neutrale, bastandovi che in una o nell’altra maniera conservi il carattere, il verisimile, la condotta, condannando assai giustamente quegli ornamenti di stile, che seducono ad una falsa bellezza, e tolta via la vernice, il quadro resta difforme, parendo al giudizio vostro che la poesia del mio Filosofo Inglese e del mio Terenzio, e la prosa della mia Pamela' [p. 15 modifica]e della mia Locandiera facciano egualmente a proposito dei rispettivi soggetti; burlandovi delle dispute sciocche sul numero degli atti, in cui dev’essere l’azione divisa, e di certe regole antiche inutili, e dei rigorosi antiquari, che sprezzano tutto ciò che è moderno, in grazia di un’affettata venerazione all’antichità. La prova delle buone Commedie pare a voi, con ragione, che trovisi allora quando l’uditore s’inganna da per se stesso, crede vero ciò che gli viene rappresentato per verisimile, e non siete persuaso degl’intrecci soverchiamente intricati, col chiarissimo fondamento che l’ansietà di vedere il fine toglie il piacere dei sali, della critica, della morale. Lodate la semplicità dei lavori Comici, dicendo elegantemente:

          Tanto intrecciar conviene, quanto ad unirlo è d'uopo,
          Sì che sia un corpo solo, ed abbia un solo scopo.

Vi consolate con ragione coll’ Italia nostra, non per quel poco di bene che io ho studiato recarle sul proposito della Commedia, ma per vederla arricchita della bellissima traduzione del Terenzio Francese Monsieur Destouches, opera di nobile virtuosa Dama5.

Ma sono compiante tuttavia con ragione dalla vostra fervida mente le Scene Italiche, per la scarsezza de’ buoni Attori, de' quali voi conoscete il bisogno, non tanto nelle parti giocose, quanto nelle nobili, interessanti, vezzose, terminando l’opera con una esclamazione per me onorevole, e a me diretta:

                         . . . . . .Per ciò adoprar ti dei;
          Risorta è la Commedia, sorga l’Attor con Lei.

Questa, di cui ho fatto brevemente l’analisi, è la parte succosa del Poemetto ammirabile che mi ha onorato. Celaste l’illustre nome sotto quello di Arcadia, ma il Mondo vi conosce egualmente, e vi venera Pastor letterato e Cavaliere egregio. La vostra Illustre Famiglia vanta quei rispettabili gradi di nobiltà, che tanto singolarmente si apprezzano da chi non è Filosofo quanto voi siete, [p. 16 modifica]persuaso nell’animo vostro che le virtù personali prevalgano a tutti i beni della Fortuna, e di queste siete così abbondevolmente fornito, che nulla vi resta ad invidiare nel Mondo. Degnissimo Figliuolo vi dimostrate di Lui6, che attualmente nella dignità Senatoria in Milano sostiene della Patria il decoro, e quello della Giustizia, e con sì bell’esempio dinanzi agli occhi, e col genio alle grandi imprese rivolto, sarete Voi la corona del merito degli Avi vostri, e della vostra antica Prosapia.

L’inclita Patria vostra, famosa sino dai primi secoli, e nelle sventure intrepida e poderosa; quella Città magnifica, capo di una sì vasta Provincia, metropoli di tante altre che la circondano, oggetto di tante guerre, che l’hanno per soverchio amor lacerata; Milano, che a verun altra Città cospicua non cede in Nobiltà, in Ricchezza, in Magnificenza, e quel che più la rende ammirabile, in Dottrina, in sapere, in lealtà di costume, in schietto cuore e in gentilezza di tratto; essa, che si fa pregio nel conoscere il merito e nel premiarlo, fa stima grande di Voi, e di un tal Figlio si vanta; ed io, che larghissimi doni di grazia e onori singolarissimi ho colà ricevuti nelle opere mie e nella persona medesima, desiderando costantemenle l’affetto suo conservarmi, alla vostra protezione validissima mi raccomando, sicuro che il benemerito vostro nome confermerà nel cuore dei Milanesi verso di me l’affezione che valmi per un tesoro, nè mai di questa potrò temere scemato il pregio, per quanto indegno ne sia, e per quanto si accrescano i miei difetti. Quel bene che a me procuro, lo desidero in special modo a questa mia Commedia partecipato; ella si dona al pubblico sotto gli auspici vostri, ed io in faccia del mondo e di coloro che invidiano l’altrui bene, affidato nella vostra benignità e gentilezza, mi do l’onore di dirmi ossequiosamente

Di V. S. Illustrissima

Umiliss. Dev. Obblig. Servidore
Carlo Goldoni.


  1. Nell’estate del 1734. La presente lettera di dedica uscì in testa alla commedia nel t. II del Nuovo Teatro Comico dell’avv. C. G. (Venezia, Pitteri), l’anno 1757.
  2. Diriggo, diffendere, malvaggità, ecc. stmpa l’ed. Pitteri.
  3. «La Vera Commedia, al Chiar.mo Sig. Avv. Carlo Goldoni - Midonte Priamideo - P. A. di Roma - In Venezia, MDCCLV, appresso Franc. Pitteri» pp. XV. Il poemetto fu ristampato in fine alle Commedie di C. G. nelle edd. torinesi di Fantino e Olzati (t. XIII, 1758), e di Guibert e Orgeas (I. XII, 1777).
  4. Nel testo: Bruvere.
  5. La duchessa Maria Vittoria Serbelloni, nata Ottoboni, amica del giovane Verri, alla quale il nostro commediografo dedicò nel 1757 la Sposa persiana (v. anche pref. alla Donna volubile, vol. VI, p. 357).
  6. Dal conte Gabriele Verri era nato Pietro ai 12 dicembre 1728.