Il filosofo inglese/L'autore a chi legge

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L’autore a chi legge

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Lettera di dedica Personaggi
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L'AUTORE

A CHI LEGGE.1

.

Q
UESTA Commedia si è recitata parecchie sere in Venezia con fortunato successo. Una persona rispettabile per ogni riguardo, si prese il piacere di criticarla, nè potea far cosa per me più onorevole, poichè, quantunque egli si protestasse benignamente averlo fatto per bizzarria di spirito, i suoi versi hanno eccitato un sì gran numero di difensori, che delle loro composizioni a favore del mio Filosofo potrebbe farsi un volume. Può essere che un dì si stampino, e faranno onore a me ed alle illustri penne che si sono per ciò adoperate. Due erano i punti principali della graziosa Critica. Il primo fondato sopra i due Impostori, l’Argentiere ed il Calzolaio, sull'immaginazione ch’io avessi inteso di rappresentare due Quacheri, e di ciò sta la mia giustificazione nella lettera precedente, e nell’annotazione al nome degli Attori2. Anche senza di questo, si sa comunemente che in ogni Religione, in ogni Corpo, in ogni Comunità, vi sono i buoni e i cattivi, onde se i due impostori della Commedia fossero effettivamente due Quacheri, sarebbero stati di quei cattivi, da’ quali non può essere oscurata la fama degli onorati, ma la cosa sta come ho detto, e la questione è finita. L’altro articolo della Critica si appoggiava all’azione forte del mio Filosofo verso la fine dell’atto quarto, ove trasportato il Milord da un eccesso di collera sino a minacciarlo colla spada, mostra il Filosofo la sua intrepidezza di animo, avanzandosi senza timore e senza difesa, con un tuono di [p. 310 modifica]voce sì fiero, e con parole sì veementi e pesate, che imprime nel cuore del giovine Milord la trepidazione e il rispetto. Ad un tale obbietto hanno risposto sì dottamente i miei difensori, che io non potrei dire se non quello fu da essi già detto; hanno veramente fatta l’anotomia del cuore umano; hanno esaminata per ogni verso la passione del Milord e del Filosofo, ed hanno provato che ambidue non potevano operare diversamente. Che aveva a fare il Filosofo? Fuggir vilmente? difendersi col bastone? chiamar aiuto? No, doveva valersi della filosofia, e questa gli suggerì sul momento la stima ed il rispetto che aveva Milord della sua riputazione, gli suggerì che un momento irragionevole poteva esser corretto da un raggio sollecito di ragione, ed aiutò le parole collo strepito della voce, il che per ragion fisica può introdurre un subito turbamento nella macchina dell’assalitore ed arrestarlo per un momento, sicchè l’altro se ne approfitti e incalzi la forza dell’invettiva. Abbiamo un caso simile nella vita di Molier scritta da Mons. Grimarest. Molier levò dalla compagnia di una donna Comica il celebre Mons. Baron, per averlo nella sua truppa. La femmina disperata per sì gran perdita, andò alla casa di Molier, entrò nella di lui camera; dopo averlo pregato invano, lo caricò di rimproveri, e finalmente cacciò una pistola per ammazzarlo. Egli era a sedere, non fece che alzarsi, e caricando imperiosamente la voce, con un solo rimprovero gli riuscì disarmarla e di farla piangere. Non si difese, non chiamò gente, non si avventò contro dell’inimica; Moliere era filosofo, conosceva i cuori umani, e il forte e il debole delle passioni; l’intrepidezza avvilisce gli animi trasportati, ed ecco il caso del mio Filosofo. Non parlo delle altre critiche; sono troppo leggiere. Pregherò soltanto il lettore, che veduta non avesse rappresentare questa Commedia, considerare un po’ bene l’artifizio ond è composta la scena in cui si rappresenta l’azione. La Scena è stabile, ma in una sola scena vi si ritrovano cinque scene, e in cinque differenti luoghi si fa l’azione nel medesimo tempo, e molti parlano di varie cose fra loro opposte, senza che uno disturbi l’altro; ma vi è la ragione per quei che parlano e per quei che tacciono. Questa scena, e questo modo diverso di condurre gli attori, mi ha [p. 311 modifica]costato molta fatica. So che in Napoli l’erudito Cavaliere Baron di Liveri varie Commedie ha composte per divertimento di quel Sovrano, condotte con queste azioni duplicate, triplicate, e quadruplicate in scena, ma io non ho avuto la fortuna di vederle rappresentare, perchè a Napoli non sono stato ancora; ho letto le opere sue, ma non è sì facile dalla lettura venirne in chiaro, dipendendo tutto dalla istruzione agli Attori, in che suol egli divertirsi parecchi mesi per una sola Commedia, e riescono poi le più graziose cose del mondo. Io non vo’ darmi il merito di aver pensato il primo ad un tal gioco di scena, ma dico bene che l’eseguirlo senza confusioni, e con poche prove, come da noi si pratica, è un impegno che fa sudare; e poi è forse l’ultima cosa che l’uditore conosca. Niuno mi ha detto bravo per questo, ed io me l’aspettava con tanto piacere. Lettor carissimo, in grazia di questa mia confessione, dimmi tu bravo, che tu sia benedetto.
  1. Questa prefazione fu stampata la prima volta nel t. I (1757) del Nuovo Teatro Comico dell’Avv. C. G., Venezia, Pitteri.
  2. Nell’ed. Pasquali, t. XII (1774), dove fu soppressa la lettera di dedica, si legge: «...ch’io avessi inteso di rappresentare due Quacheri. So esservi in Inghilterra un certo numero di persone conosciute sotto il nome di Quacheri, i quali in mezzo ad un certo modo di vivere estraordinario, conservano però le più rigorose leggi dell’onestà, immancabili alla fede de' loro contratti, nemici dell’adulazione e del fasto. I due impostori da me introdotti nella Commedia, nemici del mio Filosofo, sono due ignoranti fanatici, che per comparire distinti si gettano dalla parte più stravagante dei Quacheri, senza conoscere nè i loro principi, nè le loro leggi, nè i loro onesti costumi».