Il materialismo storico e la sociologia generale/III/I fenomeni guerreschi e militari

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III.4. I fenomeni guerreschi e militari

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III - I fenomeni giuridici III - Fenomeni guerreschi e fenomeni giuridici


Tra le rimanenti attività sociali, la più vicina a quella giuridica è la guerra, cioè la lotta collettiva fatta non istantaneamente od accidentalmente o parzialmente (come tra gli animali), ma dietro una qualche consapevole preparazione, da un’intiera società o da quella parte in cui si è localizzata la forza sociale, contro un’altra società, per uno scopo collettivo o sociale, e con strumenti elaborati dall’uomo, che, a principio identici a quelli della produzione, se ne differenziano poi progressivamente. Questa attività ha il suo analogo o addirittura il suo omologo nella lotta collettiva contro altri gruppi, che nella sociologia zoologica generale vedemmo essere posta serialmente dopo i fatti collettivi di produzione e di generazione, e più complessa della repressione collettiva contro individui.

L’attività guerresca o militare e quella giuridica (che in alcune forme imperfette con essa si confonde) hanno di comune un elemento essenziale ch’è l’opera di una forza sociale o collettiva, sebbene questa col tempo siasi differenziata e sdoppiata, nella così detta forza pubblica da una parte e nell’ esercito dall’altra. Si comprende perciò come lo Spencer abbia potuto comprendere i due fenomeni in un’unica espressione ch’è la difesa sociale (interna ed esterna), per quanto una tal espressione sia impropria relativamente al dritto1 e incompleta rispetto alla guerra2. E si comprende pure che i due fenomeni, avendo una parte comune, non possono presentarci quella serialità rigorosa che ci offrono le altre attività sociali, legate dal rapporto condizionale o teleologico o da entrambi, e ch’esiste eziandio tra ciascuno de’ due e il fenomeno politico. Ma essi possono avere rapporti seriali di altra natura, e in qualunque caso è compito della scienza il determinare l’azione che ciascuno dei due esercita sull’altro, se non vuole accontentarsi di quella reciprocità di azione che in meccanica può avere un valore, ma in sociologia non può apportare altro che confusione.

Checché ne sia dei rapporti che la guerra ha col dritto, egli è certo che anch’essa ha rapporti seriali con i due fenomeni precedenti, economici e genetici.

Condizione preesistente e necessaria della guerra e dell’esercito è un eccedenza di prodotti, sufficente a mantenere i guerrieri temporaneamente o permanentemente. Ciò è riconosciuto da tutti i sociologi (non si capisce poi come non tutti riconoscano la serialità rigorosa fra la guerra e l’economia!). Ma tra queste due attività esiste anche un altro rapporto primario, il teleologico. Le società umane non han potuto cominciare a produrre con lo scopo di farsi la guerra; ma gli è evidente che esse han guerreggiato e guerreggiano affine di accrescere o conservare i loro beni economici, cioè di togliere ad altre o difendere da altre i prodotti, il bestiame, gli schiavi, i tesori, il territorio, le colonie, le vie commerciali. Puerile sarebbe l’obbiettare che nazioni povere si son fatte ricche e potenti mercé la guerra: ciò confermerebbe appunto il rapporto teleologico e quindi seriale, mostrandoci come alcuni popoli han raggiunto il fine economico dalla guerra (mentre tanti altri si sono invece rovinati). Né varrebbe l’addurre in contrario l’esempio di quei rarissimi gruppi sociali che vissero o vivono esclusivamente di rapina e di guerra a spese dei loro vicini, perché questo stato di cose, d’altronde eccezionale, non sarebbe possibile, se quei gruppi non fossero stati prima produttori anch’essi, e se i loro vicini non producessero: le api ladre non sarebbero possibili senza gli alveari.

Vi è un’altra classe di fenomeni umani ch’è più semplice di quella guerresca e militare, ed è la classe de’ fenomeni genetici umani. Essa non è una condizione necessaria; ma, se e finché esiste, fornisce un fine all’attività guerresca, e non viceversa; onde i due termini formano una serie. Infatti, mentre sarebbe assurdo il pensare che la famiglia umana sorga o persista per lo scopo della guerra, è certo che il bisogno di accrescere la propria famiglia, o di difendere le proprie donne, i proprii figli, i proprii parenti deve fornire (e fornisce infatti) ai membri delle società primitive un motivo di guerra forse più frequente che il bisogno economico3. Anche in uno stadio inoltrato dello sviluppo sociale, nelle città primitive, Omero può ancora cantare:

per le spose
e pe’ i figli a pugnar pronti li rende
necessità;

e dire ad Ettore: radunai le vostre schiere perché le tenere spose ne servaste e i figli. Anche il legame gentilizio diviene perciò causa di guerra: ogni offesa fatta ad uno dei membri della gente o del clan, persino le proposte oltraggianti ad una donna, dà luogo, se non riparata, ad una lotta che, vista l’entità del gruppo e la regolarità con cui quella procede, non può chiamarsi se non col nome di guerra (Waitz, Post, ecc.).

Dunque tanto il fenomeno giuridico quanto quello militare hanno per loro antecedenti nelle serie i fenomeni economici e genetici. Or qual rapporto esiste tra essi due?

Supponendo gruppi sociali primitivi, forniti soltanto di attività economiche e magari anche genetiche, noi vedemmo già che, non appena essi acquistano una certa grandezza ed un certo sviluppo economico sorge il diritto: ora dobbiamo aggiungere che questo nasce come un fenomeno socialmente più urgente che la guerra, o, più propriamente, sorge nell’assenza del bisogno guerresco.

Infatti nello stato di dispersione in cui simili gruppi necessariamente si trovano, mentre alla loro diffusione si offrono interminabili territori (ben diversi dalle inospite ed estreme plaghe, dove furono relegate e costrette a degenerare le ultime e superstiti popolazioni di cacciatori e di pescatori) manca il motivo più fondamentale per muovere guerra ad altri gruppi, giacché la ricchezza mobile non esiste e davanti a loro si stendono gli sterminati spazi liberi tra i fiumi e le foreste e le immense boscaglie e praterie e l’infinito lido del mare. Anche secondo i più recenti risultati degli studi preistorici e le più recenti ipotesi, i cacciatori primitivi non erano punto guerrieri (Mortillet). Or mentre la guerra non ha utilità veruna, e non possono esservi se non parziali o casuali conflitti od azzuffamenti, cioè fenomeni sottoumani di lotta; il diritto, al contrario, ha la più grande utilità sociale, come quello che mantiene la coesione e il coordinamento degli atti economici entro il gruppo già abbastanza numeroso.

La conseguenza è questa, che l’attività guerresca, come già abbiamo veduto, si sviluppa più tardivamente di quella giuridica. Non solamente in Australia, ma in moltissime tribù americane, nei villaggi della Polinesia, persino in Africa, come ha mostrato il Waitz, ogni guerriero conserva la sua indipendenza: pugna, retrocede, o persino abbandona, come l’Achille d’Omero, il campo di battaglia, come meglio a lui piace; e il più delle volte la guerra non è altro che una spedizione parziale fatta da un partito di guerrieri per razziare o vendicarsi: si direbbe che mentre gl’individui di un’orda, di un clan o di un villaggio sono perfettamente integrati dal lato giuridico, sono ancora semplicemente alleati sotto l’aspetto militare.

Inoltre la guerra è un fenomeno meno frequente che l’esercizio del diritto, il quale si può dire continuo, mentre essa è intermittente, talora si fa a grandi intervalli, talora manca del tutto come nelle popolazioni pacifiche che abbiamo già ricordato e negli Esquimesi del Groenland e in altre ancora.

Dal primo di questi rapporti tra i due fenomeni deriva una conseguenza importante. Se le più elementari idee e abitudini giuridiche sono già formate; allorché un gruppo sociale si scinde, poniamo in altri due A e B, questi gruppi da esso derivati o si disperdono alla lor volta per gli spazi liberi ovvero (come deve avvenire prima o poi coll’aumento della popolazione) restano vicini e collegati dal bisogno economico o da quello genetico (matrimonî) o da entrambi. Nel secondo caso, ch’è quello che ci riguarda, gl’individui conservano le identiche idee giuridiche che avevano nel gruppo originario ed unico: ogni offesa fatta da un individuo del gruppo A ad un individuo di quello B o a tutto il gruppo B, non provoca un’immediata reazione animalesca, ma, oltre il bisogno della rivalsa, un sentimento di diritto violato. Siccome non v’è più una forza sociale comune od unica che garantisca indifferentemente gli individui di A e di B, quel diritto ormai è soltanto ideale. Ebbene gli è appunto in nome di cotesto diritto (ideale) violato, che noi vediamo nelle popolazioni selvaggie chiedersi riparazioni per offese inter–individuali da un’orda ad un’altra orda, da un clan ad un altro clan, da un villaggio ad un altro villaggio; e la guerra che non può essere determinata da un motivo economico o genetico diretto, scoppia con uno scopo di rivalsa giuridica per offese biologiche o economiche o genetiche: è quella che il Letorneau chiama la guerra giuridica.

Al certo è curioso ed a prima vista strano che la guerra umana faccia la sua prima apparizione con un carattere giuridico. Ma così è, e così dove essere; e voi non dovete maravigliarvi di un altro fatto ancor più strano, che quanto più selvaggie sono le società primitive a noi note, tanto più cavallereresca sia la guerra. Tutto ciò dipende dal fatto che le società primitive non possono portare la guerra lontano, ché non ne avrebbero il motivo né i mezzi economici (provviste, capitali) e con le società vicine sono legate dalla parentela e dalle idee giuridiche comuni. Gli è perciò che tra gli Australiani ed i Tasmaniani, che sono ritenuti come i popoli socialmente più bassi, per il ratto di una donna, l’uccisione di un membro dell’orda o del clan, la violazione del territorio di caccia e via discorrendo, si chiede riparazione, e se non la si ottiene s’intima regolarmente la guerra, che spesso va a finire in un duello a modo degli Orazi e Curiazi. Tra gli Australiani la cavalleria in guerra era divenuta così abituale e portata a tal segno che, a quanto si dice, essi abbiano fornito le armi ad alcuni Europei prima di combatterli. Tra i Malesi e specialmente tra i Batta la massima parte delle guerre (tra villaggio e villaggio) avviene per riparazione di torti individuali ed è intimata: tra i Menangabao s’indica persino il giorno ed il luogo del combattimento. In alcune isole della Polinesia il motivo della guerra contro un altro villaggio o distretto era prima spiegato regolarmente come nelle contese giudiziarie (Waitz); poi, non ottenendosi soddisfazione, cominciavano le ostilità. Lo stesso dicasi della Melanesia, delle Caroline, di molti Indiani di America, ecc.

Io vorrei poter conchiudere che per guerra umana debba intendersi soltanto quella ch’è provocata dal bisogno di una rivalsa giuridica; ma la storia dell’umanità ci avverte che in tal modo dovremmo escludere dal novero delle guerre umane buona parte di quelle che han combattuto le nazioni più civili con armi perfezionate dalla scienza stessa. Questo però possiamo affermare, che nei primi gradi di composizione sociale (orda, clan, villaggio) la guerra è principalmente giuridica; e che anche in seguito vi è sempre in una delle due parti, almeno in quella ingiustamente aggredita, un sentimento di diritto (ideale) violato. Or ciò è conseguenza del rapporto primitivo e del fatto che, contrariamente ad un pregiudizio filosofico, il diritto nell’umanità è più antico della guerra e molto più antico della struttura militare.

Vi è ancora un altro rapporto da considerare. Diritto e guerra sono, nella loro intima composizione, due fenomeni collaterali: l’uno non è la condizione sine qua non dell’altro e la semplice inibizione tra le unità (sieno esse individui o gruppi) e la loro coesione almeno nel tempo della guerra, basta perché un minimum di questa attività sorga: persino gli Chimpanzé, che vivono in famiglie dissociate, si alleano talora per aggredire o per difendersi. Ma appunto perché la vera condizione è l’inibizione inter–individuale e la coesione del gruppo belligerante, quanto più forti sono queste ultime, tanto più regolare diverrà la difesa sociale, e solo quando la inibizione e la coesione siano portate a quel grado che vien dato dal Diritto, l’attività militare può divenire una mera funzione comune e sociale (non già una semplice alleanza) e persino distinguersi, differenziarsi, localizzarsi. Ciò è implicito anche nelle teorie che circa la divisione del lavoro sociale hanno esposto lo Spencer, il Durckeim, il Worms4. Così nel primo e spontaneo modo di formazione delle società umane il Diritto ha potuto agevolare lo sviluppo dell’attività militare, non viceversa.

Conchiudendo: I tre fenomeni economico, genetico e giuridico sono più che sufficienti alla formazione dell’attività guerresca e militare. Se così è, questa attività può esistere indipendentemente da qualsiasi altro fenomeno sociale umano che nella nostra serie la segua. Vediamolo infatti.

Nelle società primitive tutti sono guerrieri, appena possono maneggiare le armi, ed anche là dove una qualche differenziazione è cominciata, non esiste reclutamento: i guerrieri si reclutano da sé stessi. Essi combattono per bisogni di cui ciascuno è perfettamente consapevole (economici, genetici, giuridici) e non perché lo voglia un potere politico. I gruppi dei Tasmaniani, continuamente in guerra tra loro e principalmente per rivalsa giuridica, erano perfettamente anarchici, e non si sceglievano neppure un capo temporaneo per la pugna, ma “seguivano spontaneamente il bravaccio dell’orda” come un branco segue il suo capo. Questo solo esempio basterebbe a provare che la guerra può esistere nell’assoluta assenza del potere e dell’attività politica. Ma noi possiamo continuare osservando che anche fra i popoli i quali, come gli Australiani, scelgono un capo di guerra, questo non è menomamente un capo politico, ma solo un regolatore o direttore temporaneo della guerra stessa (che non è stata voluta né decisa da lui, ma da tutti), ed ha evidentemente ufficio di mezzo per la buona riuscita, e talvolta, se vien meno all’aspettativa, viene ucciso. Una tale situazione trovasi tra i Nicaragua, i Caraibi, i Charruas, i Patagoni, i Maori della N. Zelanda, i Beduini: è così diffusa che si può ritenere la situazione originaria ed universale del capo militare. Naturalmente egli dov’essere forte, abile, valoroso, e perciò nella massima parte dei popoli del N. America e altrove gli altri guerrieri gli facevano subire prove lunghe, rigorose, crudelissime, in cui egli poteva anche lasciare la vita. Tutto ciò dimostra sino all’evidenza che la attività guerriera sorge in uno stato omogeneo e diffuso per effetto di un bisogno collettivo di aggressione e di difesa, ed ella stessa si forma volta per volta il suo regolatore; il quale n’è dunque l’effetto e non la causa. Allorché sorge un vero potere politico, questo potrà in varie guise reagire su la guerra e su l’esercito, ma il rapporto primitivo di mezzo a fine non sparisce mai, giacché in tutti i popoli e in tutti i tempi il potere politico decide della pace o della guerra, regola il reclutamento militare, dirige, immediatamente o mediatamente, le spedizioni e le operazioni guerresche.

Quanto alla morale, è così ovvio che i fenomeni guerreschi e militari possono esistere indipendentemente da essa, e talvolta in opposizione ad essa, che io credo, anche per la strettezza del tempo, di poter passare oltre.

È difficile, se non pure impossibile, di trovare fra i popoli sopravvissuti e noti un esempio di assoluta mancanza di religiosità. Ma a noi basta l’osservare che anco quando la guerra è pervenuta a quel grado considerevole di sviluppo che ha, per es., nelle tribù ed anco nelle piccole monarchie dei Cafri, essenzialmente pastori, la Religione trovasi ancora in quello stato, a cui il Lubbock nega il carattere di religione vera; è semplice credenza nei duplicati, mortali al pari dei vivi, e nelle pratiche per scacciarli o renderseli amici, senza idoli né sacerdoti; e non esercita alcun influsso causale su l’andamento, tanto meno su la motivazione della guerra: il grande argomento per esortare alla guerra, adoperato da un re cafro nell’assemblea dei Kraals riuniti è questo: “dove troverete voi in abbondanza del rognone di bue e delle donne?”

Allorché poi, continuando ad osservare la serie o, meglio, le serie dei tipi sociali, noi vediamo la religione intervenire nelle faccende militari, ella ci si presenta nel rapporto di mezzo a fine. Interrogare, invocare, propiziarsi i feticci e gli dei per la guerra presuppone evidentemente il bisogno guerriero ed è un mezzo per meglio soddisfarlo: la funzione dei maghi, degl’indovini, degli shamani, dei sacerdoti si adatta anche a questo fine, ed essi stessi sono, pria di tutto, guerrieri come il Calcante di Omero, i sacerdoti della Polinesia e dell’antico Messico. La guerra opera evidentemente come causa, e l’atto religioso è un effetto. Ma poiché si tratta di un rapporto causale d’indole teleologica, la prima e più forte reazione della religione, si avrà appunto da ciò ch’ella è chiamata a favorire l’esito della guerra, e può giungere a tal segno da oscurare il rapporto primitivo. Così per es., se il duce ispira tanto maggiore fiducia ai guerrieri quanto più gode il favore e l’ispirazione soprannaturale, finirà col non poterne fare a meno, e duce sarà soltanto quei che si è assicurato o può dimostrare tal favore e tale ispirazione. Assai più tardiva e relativamente recente è l’altra reazione che la religione esercita sulla guerra in quanto le fornisce un motivo che si aggiunge a quelli più fondamentali, qual’è il trionfo di una determinata fede: mentre, nelle religioni primitive e in generale in tutte quelle che precedono il monoteismo, qualunque divinità, purché sia utile e potente, viene accolta pacificamente. Ma noi non dobbiamo qui occuparci delle reazioni; e ricordiamo che anche le idee religiose si adattano ai bisogni ed agli abiti guerrieri, non viceversa. Persino il cannibalismo si trasporta nell’altra vita: i Maori della N. Zelanda ritengono che chiunque si faccia mangiare sul campo di battaglia, andrà per giunta nel fuoco eterno: solo chi ha mangiato molti nemici andrà diritto in paradiso. Nel quale per i bellicosi Polinesi non si entra se non portando in dono agli dei la testa di una vittima. Al contrario le popolazioni pacifiche del Tibet accolgono le idee Buddistiche. Ma le stesse religioni di pace non possono impedire che, non appena la società o i tempi ritornano bellicosi, i re invochino l’aiuto divino per le stragi che stanno per compiere e ringrazino il dio d’amore dell’averle compiute (Spencer).

Con l’arte, identici rapporti. Quando la guerra è già divenuta un’attività regolare e distinta, la produzione artistica trovasi ancora limitata al rullio del tamburo, a rozzi canti, a grossolane incisioni, che evidentemente non sono né una condizione, né un fine di quell’attività, ma servono al contrario ad incuorare i combattenti e spaventare i nemici. L’arte ci si presenta a principio anche come un mezzo dell’attività militare; non viceversa. Nessun popolo ha mai fatto la guerra per accrescere o conservare i suoi godimenti artistici: ciò sarebbe stato impossibile, perché la somma di sforzi individuali e collettivi che una guerra richiede non può mai essere compensata nell’individuo o nella somma degl’individui dalle soddisfazioni artistiche.

A fortiori i bisogni a cui corrisponde la guerra sono più urgenti, più fondamentali e più animaleschi di quelli a cui corrisponde la scienza. La guerra aveva già per decine o centinaia di millenni devastato popoli e campi, quando apparve la più alta efflorescenza della vita sociale. E la prima relazione che questa ebbe con quella, fu di mezzo a fine. La scienza fu, ed è pur troppo ancora, chiamata o sfruttata per rendere più micidiali le armi e l’assalto, più efficace la difesa. Essa influisce inoltre sulla guerra mediatamente, cioè regolando quella parte dell’attività politica che a sua volta serve a regolare la guerra. Ma, il rapporto inverso non si è mai verificato. Nessuna guerra si è mai fatta per la scienza, cioè per conservare od accrescere i godimenti scientifici. Né sarebbe stato possibile, ché, anche posto che la struttura intima delle due attività permettesse alla guerra di completare l’opera della scienza, qual individuo o qual popolo avrebbe sostenuto l’immane somma di sforzi e di spese che la guerra richiede per soddisfare meglio il più elevato e più debole dei bisogni umani?

Possiamo concludere anche induttivamente che l’attività guerresca e la struttura militare hanno per cause più che sufficenti i fenomeni economici, genetici e giuridici; e possono esistere almeno sino ad un certo grado, indipendentemente da qualsiasi altro fenomeno sociale umano.

Se così è, dalle variazioni almeno dell’economia e dei fatti genetici, si potran dedurre altrettante variazioni dei fenomeni guerreschi; che l’osservazione dovrà verificare.

Le condizioni della produzione determinano la grandezza dei gruppi sociali e il grado della loro dispersione; e da questo dipende che la guerra ci sia o non ci sia. Tra piccoli gruppi separati da vasti spazi deserti, come quelli degli Esquimesi e dei Fuegiani guerra non ci può essere e non ci è.

Dove esistono veri fenomeni militari, questi variano evidentemente con la forma della produzione e dei rapporti economici, con gli stadî dello sviluppo economico, con lo stato generale della ricchezza.

Nella caccia e nella pesca manca ordinariamente la condizione economica di guerre lunghe od in luoghi lontani, voglio dire le provviste necessarie durante la guerra stessa; le lotte sono brevissime e si definiscono al primo scontro come tra gli Australiani. Manca eziandio il motivo economico stante l’assenza quasi completa di ricchezza mobile (bestiame, prodotti dell’industria, schiavi, danaro), salvo il caso, tanto più raro quanto più retrocediamo verso le origini, dell’insufficienza di territorio. Perciò la maggior parte delle guerre sono determinate, come già vedemmo, da motivi di rivalsa giuridica e presentano un carattere cavalleresco che non si aspetterebbe in popolazioni socialmente basse.

Ma se nella caccia o nella pesca introduconsi la ricchezza mobile (pelli, panni, schiavi) e le provviste (pesce, carne salata, ecc.), che solo in speciali circostanze sono possibili, la guerra muta subito il suo aspetto, come negl’Indiani del N. O. dell’America settentrionale.

Ai pastori le condizioni economiche rendono possibile la guerra lunga e lontana, grazie al bestiame ch’essi si trascinano dietro, ed anche quell’agglomerazione di gruppi alleati che non potrebbe vivere due giorni di seguito se fosse di cacciatori o di pescatori: donde gl’immani stormi che di quando in quando devastarono Asia ed Europa. Ma nello stesso tempo la guerra regredisce verso l’aggressione animalesca. Infatti quando l’età dell’oro di questa forma di produzione è chiusa e non è più possibile addomesticare nuovi animali e il bestiame non cresce più in proporzione della popolazione, la conquista violenta del bestiame stesso diviene il motivo principale dell’aggressione: la guerra assume ordinariamente carattere dirazzia, promossa da uno o più guerrieri che col loro seguito piombano all’improvviso, s’impadroniscono degli animali (e delle donne) e distruggono tutto ciò che resiste. Il racconto leggendario di Sinouit, che ritrae lo stato sociale e guerresco dei semiti Shasou di più che quattro mil’anni or sono, non è diverso da quello che leggiamo in scrittori moderni circa i pastori negri o cafri o mongoli; e la vita dei Circassi in tempi recenti o identica a quella che, secondo Strabone, menavano i pastori della medesima contrada due mil’anni or sono. (Uniformità simili non si trovano neppure nel regno biologico!) Or si noti che la differenza dei fenomeni guerreschi nei popoli pastori relativamente a quelli dei cacciatori, è dovuta esclusivamente alla forma della produzione, che, pur essendo più perfetta e comportando un perfezionamento delle armi, genera una regressione dal lato umano. Anche quegl’immensi stormi, di cui testé parlavamo, non tendono, in fin dei conti, che ad un’enorme razzia. Solo in circostanze speciali che si possono determinare e di cui principale è un ulteriore aumento della popolazione, sorge il bisogno di nuovi pascoli e quindi di invadere il territorio altrui, e magari anche di conquistare popoli e regni come fecero gli Shasou in Egitto, i Mongoli in Russia, gli Arabi dapertutto.

Con l’agricoltura la guerra muta di nuovo. Finché si tratta di coltura semplice e collettivistica, predomina la guerra di rivalsa, intimata, cavalleresca. L’odio che s’ingenera per reiterate guerre può però condurre al cannibalismo (sostenuto in alcuni luoghi anche dalla mancanza di carne) ed alla caccia delle teste umane; come in America ed in Malesia. Con l’aumento della popolazione sorge il desiderio di sottoporre a tributo e poi di conquistare la mark altrui.

Introducete nell’agricoltura la schiavitù, ed ecco la guerra riprendere il carattere di razzia ch’essa ci presentava nei popoli pastori: in compenso abolisce il cannibalismo e la caccia alle teste umane. Così in tutta l’Africa e in molti luoghi della Malesia e della Melanesia. Basta poi una lieve variazione nello scopo a cui servono gli schiavi, perché si modifichino nuovamente i caratteri della guerra. Se si vogliono schiavi solo per venderli, non si stermina, non si distrugge nulla, ma si ha cura soltanto di legare ben bene i prigionieri, e all’occorrenza i guerrieri portano seco anche le funi: il coraggio e il valore guerriero non è menomamente utile, e ognuno pensa, pria di tutto, alla propria pelle; si procede a tradimento e per imboscata; e la guerra assume quel carattere di bassezza e di vigliaccheria, che il Waitz ha constatato in tante e tante popolazioni africane. Al contrario, se nelle società a schiavi comincia la conquista, la guerra diviene più umana, il valore guerriero si rialza, la disciplina incomincia e diviene sempre più severa. Così appunto della stessa Africa avviene nel Dahomey e nell’Achantee, dove, ben s’intende, anche il potere politico, sviluppato, ha reagito.

È evidente che nell’agricoltura si realizzano tutte le condizioni di imprese lunghe e in luoghi lontani, e che, cresciute le società e generalizzata la tendenza a conquistare o sottoporre a tributo, le guerre divengono sempre più lunghe e talora interminabili.

Nuove variazioni subisce la guerra nella grande industria, per effetto dei nuovi bisogni economici. Ma noi abbiamo già detto abbastanza per il nostro scopo.

Anche lo stato generale della ricchezza influisce su la guerra. Le variazioni quantitative della struttura militare (esercito) dipendono appunto dall’eccedenza maggiore o minore dei prodotti sul consumo necessario ai produttori, e son comprese in certi limiti. Ma la prova induttiva ci trarrebbe assai lungi, tanto più ch’esse si complicano con le variazioni che dipendono dalla curva economica cioè dagli stadî successivi dello sviluppo economico. Or neppure su ciò noi possiamo in questo momento intrattenerci. Vi ricordo soltanto che le variazioni che dallo sviluppo economico provengono non solo alla frequenza ed ai motivi della guerra, ma alla quantità e qualità della struttura militare, han contribuito a farci comprendere perché i popoli dell’antichità ad un dato momento e non prima abbiano sentito le voglie della conquista; e a che cosa i vincitori abbiano dovuto il loro trionfo; e perché in quasi tutti siasi poi manifestata ad un dato momento quella tendenza al dispotismo militare, che ridusse il re di Sparta ad un capo di ladroni e di pirati.

I casi e gli esempî addotti bastano a provare la causalità diretta, ascendente, inevitabile che l’economia esercita su la guerra. Veniamo ai fenomeni genetici. Sebbene questi non sieno una condizione sine qua non, il sociologo non può trascurarli, ma dove ricordare che, finché essi esistono, gl’individui prima di essere unità militari, sono membri di una famiglia, di un parentado, di una gente. Per effetto di tal situazione si avranno variazioni militari conseguenti a variazioni genetiche:

1.º Nella struttura. Finché la donna non ha perduto ogni importanza nel seno della famiglia, prende parte alla guerra come combattente o vi assiste per incoraggiare i guerrieri o serve come intermediaria nelle trattative d’indole militare. Per provarlo non vi è bisogno di ricorrere alle leggende delle Amazzoni, che pur erano così vive e numerose nell’Asia minore e in America (qualcuna se ne trova persino alla N. Guinea) da non potersi ritenere come pure e semplici favole, e neppure alle Amazzoni reali dal Dahomey: basta ricordare quel che avveniva a Cuba, a Borneo ed altrove.

Non basta. Finché esiste il parentado e la società è un complesso di genti e sotto–genti, la struttura dell’esercito riflette questa composizione genetica: anch’esso è un aggregato di parti, quasi indipendenti, ciascuna col suo totem o con la sua insegna speciale e col proprio capo. Questo stato di cose continua per un certo tempo, anche dopo che la polis e la monarchia è apparsa. Ve n’è un’ultima rimembranza in Omero, quando Nestore consiglia di dividere i guerrieri per tribù e genti. Alcuni hanno attribuito ai primi legislatori, a Solone, a Servio e simili la sparizione di una tale composizione militare, almeno per l’Europa. Or ciò che vi ha di mirabile non è che il legislatore l’abbia fatta sparire, ma che, nonostante lo stabilimento territoriale anzi cittadino, una simile composizione dell’esercito sia durata sino a Servio ed a Solone!

2.º Nell’attività guerriera. Per addurre qualche esempio, tutti conoscono quello speciale sentimento che animava gl’individui aventi lo stesso totem o Kobonge lo stesso antenato, e ch’è stato paragonato ad una specie di patriottismo: Omero stesso doveva saperlo, giacché fa dire al medesimo Nestore:

ciascuno
per l’emulo fratello combatterà.

Abbiamo veduto inoltre il carattere cavalleresco che la guerra assume nei gruppi primitivi e parenti. Aggiungiamo ancora la maggior difficoltà della guerra tra villaggi dello stesso nome e la maggiore facilità con cui, a parità delle altre condizioni, essi si alleano militarmente e quindi s’integrano.

3.º Nella frequenza delle guerre e nel carattere pacifico o bellicoso della popolazione. La poliandria a cui un popolo siasi già adattato, toglie o smussa nello stesso tempo tutt’e due i motivi primari della guerra, quello economico, perché frena l’aumento della popolazione, e quello genetico, perché non fa sentire il bisogno di acquistare donne. Al contrario la poligamia, li acuisce entrambi accrescendo rapidamente la popolazione e provocando il desiderio di provvedersi di donne a spese di altri gruppi sociali. Nel fatto le popolazioni poliandriche sono quasi tutte pacifiche, mentre le poligamiche sono guerriere, se ne togli quelle (come l’Esquimese) a cui l’ambiente e la forma di produzione e la conseguente dispersione rendono la guerra impossibile.

Oltre le variazioni prodotte dalle due classi più fondamentali di fenomeni vi sono quelle derivanti dall’azione e reazione che gli elementi dello stesso fenomeno guerresco e militare esercitano tra di loro. Tal’è, per es., l’effetto inibitorio che sulle velleità guerresche esercita, l’invenzione di armi molto distruttive: così la sarbacana (quasi mitragliatrice a piccole freccie avvelenate) come per incanto fe’ cessare le guerre tra parecchi selvaggi. Tal’è pure il fatto, chiarito dallo Spencer, che la struttura militare dietro un lungo esercizio tende per un certo tempo ad operare, anco quando non ve ne sia socialmente il bisogno. — Simili variazioni sono però secondarie e derivate.

Vi sono inoltre quelle — ancor più complesse e meno estese — che provengono dal vario sviluppo dei sentimenti disinteressati che in questa, come in ogni altra classe di fenomeni sociali, si formano o sorgono da analoghi sentimenti sotto umani, per trasformazione di mezzi in fini. Tal’è l’odio che si crea, dietro ripetute lotte, contro il nemico, e che in Malesia generò la caccia alle teste umane, causa a sua volta di una speciale passione e motivo od occasione di parecchie guerre (Waitz). Tal’è pure la passione guerresca. Tra i selvaggi della N. Caledonia era sì forte, che principale lagnanza contro i Francesi divenne questa, che non li lasciavano guerreggiare tra loro: “Non siamo più uomini, non ci battiamo più!” E quando una tal passione non può soddisfarsi in grande, si cerca almeno di assecondarla con l’esercizio: così quel Capo indiano, a cui un altro capo, vicino ed amico, avea rifiutato, in vista delle dolorose conseguenze, un combattimento di prova tra i rispettivi guerrieri, esclamò malinconicamente: “con chi mai questi ragazzi dovranno giocare?” Tal’è inoltre l’orgoglio militare, per cui talvolta gli antichi Iberi si uccidevano, non potendo sopravvivere al disonore di essere disarmati (Mommsen). Tal’è l’amore della gloria militare nella quale il Kafro e tanti altri popoli barbari riponevano la felicità suprema. Si tratta, è vero, di una trasformazione di mezzi in fini, e si comprende come avvenisse. In guerra si acquistavano schiavi, donne, bestiame, danaro, terre, promozioni; al guerriero valente davano le più belle ragazze, senza ch’ei le richiedesse, anco gl’Iberi (Mommsen); a lui il più vivo rispetto e le più grandi distinzioni, fonti di nuovi vantaggi e privilegi. È naturale che in quelle circostanze l’amore della gloria militare divenga una delle più forti passioni. — Ciò non ostante, sarebbe assurdo il negare l’efficacia, che, in certi limiti, siffatti sentimenti e le loro variazioni hanno avuto ed hanno su i fenomeni militari e guerreschi e su le loro variazioni.

Al di là ancora sono le variazioni prodotte da i fenomeni sociali più complessi (politici, morali, religiosi, artistici, scientifici), che noi non dobbiamo per ora considerare in omaggio al metodo progressivo. Prima che tali fenomeni sorgano ed operino di rimbalzo su l’attività guerriera, la guerra fatta a scopo economico, genetico, giuridico ha già operato direttamente su di loro: non perché essa sia una condizione indispensabile ed eterna anzi potrebbe sparire nel futuro con loro vantaggio, ma perché nelle condizioni, reali e concrete, in cui l’umanità ebbe a svilupparsi (non potendo integrarsi economicamente) la lotta e la difesa sociale furono qualcosa di più urgente e fornirono uno degli scopi principali alla funzione politica, morale, religiosa, artistica, scientifica.


Note

  1. La difesa è immediata e si riferisce un’aggressione attuale.
  2. La guerra è anche offensiva.
  3. Non esistendo o non essendo sviluppata la ricchezza mobile ed essendo esuberante il territorio.
  4. Lo Spencer dice che per la guerra è necessario che vengano combinati non solo gli sforzi dei combattenti, ma anche determinate le relazioni tra essi ed i non combattenti, i quali debbono prestare l’assistenza necessaria e prontamente. Il Durckeim ed il Worms, sostenendo che ogni divisione del lavoro economico presuppone la coesione interna dell’aggregato, devono riconoscere che la divisione ancor più complessa tra classe produttrice e classe guerriera richiede un grado maggiore di coesione che non può essere dato se non dal diritto.