Il medico olandese/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera di madama Marianna con varie sedie.
Madama Marianna e Carolina.
Marianna. Via presto, fa che sieno le sedie preparate.
Carolina. Subito, sì signora. (va ponendo le sedie in ordine)
Marianna. Per divertirle bene,
Che mai si potrà fare?
Carolina. Non so.
Marianna. Pensar conviene.
L’altrier, che ci ha trattate madama Elisabetta,
Fu la conversazione amabile, perfetta;
Io vorrei corrispondere, giacchè lo zio il consente,
A quel che ho ricevuto, almen passabilmente.
Secondo il praticato, porterà il suo lavoro.
Se a desinar qui restano, si penserà.
Marianna. Sì certo.
Spero vi resteranno. Picchiano?
Carolina. L’uscio è aperto.
Eccole tutte unite.
Marianna. Mi porterai or ora,
Se il lavorier principiano, anche il mio.
Carolina. Sì signora.
(in atto di partire)
Marianna. Di’, che fa l’ammalato?
Carolina. Veggolo tutto il giorno
Come fa l’ape al mele, a queste mura intorno.
(parte)
Marianna. Di qui non sa staccarsi il povero meschino:
Ma lo farà per essere al medico vicino.
SCENA II.
Madama Elisabetta, poi madama Federica, poi madama Giuseppina e la suddetta.
Marianna. A voi m’inchino.
Elisabetta. Sono ad incomodarvi.
Marianna. Per grazia lo ricevo, che vogliate degnarvi.
Federica. Serva, madama.
Marianna. Amica.
Federica. Eccomi qui con voi.
Marchesa. È un onor che non merito, che venghiate da noi.
Giuseppina. Son qui, se mi è permesso.
Marianna. Oh madama, che dite?
Son grazie, son finezze; di seder favorite, (tutte siedono)
Giuseppina. Della mia genitrice vi reco i complimenti.
(alzandosi un poco, e inchinandosi)
(s’alza un poco, inchinandosi)
Federica. Madama, al vostro ciglio la gioia è consueta.
Marianna. In compagnia sì bella non posso ch’esser lieta.
Federica. Troppo onor. (alzandosi e inchinandosi un poco)
Marianna. Parla il core. (come sopra)
Elisabetta. Madama è ognor garbata.
Vostra bontà, madama. Restate accomodata.
(s’alza e s’inchina, facendo lo stesso madama Elisabetta)
Federica. (Da una borsa che tiene al fianco, tira fuori una calzetta di seta, con i suoi ferri, e si pone a lavorare.
Giuseppina. Da una borsa che tiene al fianco, tira fuori la seta coll’ordigno per far gruppetti.
Elisabetta. Da una borsa che tiene al fianco, tira fuori qualche cosa di bianco da ricamare.
SCENA III.
Carolina e le suddette.
Elisabetta. Bello quel bavellino! (a madama Marianna)
Marianna. Lo crederete, amica?
Fra me e la cameriera, senza poi gran fatica,
Si è filato in un anno tanto bel bavellino
Per tessere un vestito.
Carolina. Certo riuscì bellino.
Elisabetta. E che piacer si prova, quando a portar s’arriva
Cosa che da un lavoro fatto da noi deriva.
Tutto quello che occorre per me di ricamato,
Tutto è dalle mie mani trapunto e disegnato.
Marianna. Voi disegnate ancora?
Elisabetta. Sì, madama, assai male.
Marianna. Oh madama, lo spirito in voi so quanto vale.
Elisabetta. Sono un’ignorantella?
Marianna. No, no, si sa chi siete.
Madama Federica, sono calzette o guanti?
Federica. Son calzette, madama, ma si va poco innanti.
E poco anche ci bado; poichè di casa mia
A me sola han voluto lasciar l’economia;
Poco ne son capace, ma quel che posso io fo.
Marianna. Una giovin di garbo siete, madama, il so.
Federica. Oh no davver.
Marianna. Sì certo. Madama Giuseppina
Quei tanti suoi gruppetti a cosa li destina?
Giuseppina. A un piccol fornimento per un andriè, madama;
Ma questo è un passatempo, lavorier non si chiama.
A casa i miei fratelli non mi fan stare in ozio;
Mi fan copiar le lettere di casa e del negozio.
E quando avrò imparato ben bene la scrittura,
Mi pagheranno, io spero, almen la mia fattura.
Marianna. Così pratiche in tutto le giovani diventano.
Giuseppina. Lo so, che so far poco; ma in casa si contentano.
Marianna. Siete una maraviglia.
Giuseppina. Oh, cosa dite mai?
Marianna. Brava; le figlie savie non si lodano mai.
Lo senti, Carolina, che giovani son queste?
Carolina. Giovani virtuose e giovani modeste.
Io, che son forestiera, quando son qui arrivata,
Subito di tal cosa mi son maravigliata.
L’Olanda per le donne certo è una gran nazione;
Ma questo in lor deriva da buona educazione.
Questo non è paese, che spenda allegramente;
Ma per l’educazione non risparmia niente.
Piacemi assai quest’uso, che il genitor destina
I figli all’esercizio, cui la natura inclina;
E se un figliuolo maschio il discolo vuol fare,
Subito in una nave, a far giudizio in mare.
Ditemi, Carolina, di qual paese siete?
Carolina. Riflettendo, madama, al stil del mio paese,
Ho vergogna di dirlo. Ora sono Olandese,
E in grazia ai buoni esempi della padrona amata,
In Leiden posso dire di essere rinata.
Marianna. Via, taci, Carolina; non mi far arrossire.
Carolina. Oh il vero, mia signora, certo lo voglio dire.
Marianna. Amiche, vorrei darvi qualche divertimento,
Proporzionato in parte al bel vostro talento.
Oggi in qualche maniera procurerò ingegnarmi,
Spero che a desinare starete ad onorarmi.
Elisabetta. Non so che dir, madama; le grazie accetterò.
Federica. A madama Marianna non si può dir di no.
Marianna. Madama vostra madre sarà contenta, io spero.
(a madama Giuseppina)
Giuseppina. Lo sa che da voi sono; non si prende pensiero.
Oggi non ci son lettere da registrar; si sa
Che anche per me ci vuole un dì di libertà.
Marianna. Oh davver, mi contenta sì bella compagnia.
Ora proprio mi sento il core in allegria.
Qualcheduna di voi racconti qualche cosa,
Qualche bel dubbio o qualche novelletta graziosa.
Elisabetta. Vo’ proporvi un enigma.
Marianna. Oh sì, madama, dite.
Federica. Ditelo, che ho piacere.
Giuseppina. Lo goderò.
Elisabetta. Sentite.
Carolina. Perdonate, madama, il mio grosso cervello:
Che vuol dire un enigma?
Elisabetta. Vuol dire indovinello.
" Nacquer gemelli al mondo da poveri parenti
" Due figli di costume, di genio differenti:
" Uno buono, un cattivo; e quando uniti sono,
" Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
" Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati;
" Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno;
" Son tutti due per tutto, e non li vede alcuno.
Marianna. Oh madama, è impossibile ch’io giunga ad ispiegarlo.
Federica. Io non l’ho inteso bene.
Elisabetta. Tornerò a replicarlo.
(torna a dire l’enigma)
Giuseppina. Tante cose contrarie confondono la mente.
Elisabetta. Se non fosse difficile, non valeria niente.
Marianna. Zitto, zitto, mi pare aver dato nel segno.
Sarebbero, per sorte, e l’amore e lo sdegno?
Elisabetta. No, madama; per altro ammiro che pensiate
Essere i due gemelli due cose inanimate.
Federica. Spiegatelo, madama.
Giuseppina. Via, fateci il favore.
Elisabetta. Sono amiche carissime, la speranza e il timore.
Nacquer gemelli al mondo. Tosto che l’uom è giunto
All’uso di ragione, teme e spera in un punto.
E nacquero gemelli il timor, la speranza,
Tosto che il mondo antico corruppe la baldanza.
Da poveri parenti. La speranza e il timore
Conoscono il bisogno per loro genitore;
E l’uom quantunque ricco, alle passion ricovero
Dando dal proprio seno, sempre è meschino e povero.
Due figli di costume, di genio differenti.
Si sa che la speranza volar ci fa contenti,
E che il timor procura sempre abbassar le piume;
Onde son differenti di genio e di costume.
Uno buono, un cattivo. Accorderà ogni cuore,
Che la speranza è buona, che pessimo è il timore;
Ma soggiunge l’enigma: e quando uniti sono,
Spesso fa bene il tristo, e fa del male il buono.
E vuol dir, dal timore siamo tenuti in freno,
E la speranza allarga agli appetiti il seno;
Il provvido timore ci tiene in vigilanza.
Muoiono tutti due. Questo si vede spesso:
Finisce la speranza, ed il timore anch’esso.
Poi tutti due rinati. Con ciò spiegar s’intende
Di timor, di speranza le solite vicende.
Con quei che li alimentano, son per usanza ingrati.
Questo vuol dir, che gli uomini si trovano ingannati.
Dopo il timor taluno a trionfar si vede,
E dopo la speranza il piangere succede.
Volete voi conoscerli? Van sempre ad uno ad uno.
Sperar, temere a un tratto mai si è sentito alcuno.
Ora teme, ora spera, fan le passioni un gioco,
E quando una s’avanza, l’altra le cede il loco.
Son tutti due per tutto. Dove si troverà
Un uomo che non speri, un che timor non ha?
E non li vede alcuno. Si può per spiegazione
Dir che non son corporei, ma v’è un’altra ragione:
Che temendo e sperando ogni mortal s’affanna,
Ma non conosce il vero, perchè l’amor l’inganna.
Ecco spiegar l’enigma tentai donna qual sono;
Se malamente il feci, domandovi perdono.
Marianna. Bello, bello davvero.
Federica. Bella composizione.
Giuseppina. Vo’ che me l’insegniate, ma colla spiegazione.
Elisabetta. Vi servirò, madama.
Carolina. Sinora sono stata,
Madama, ad ascoltarvi colla bocca incantata.
Me ne consolo tanto; lasciate che vi dia
Su questa mano un bacio.
Elisabetta. Oh no, figliuola mia.
(la bacia in viso)
Carolina. Che umiltà, che dolcezza! oh, che trattar cortese!
Oh, dove son le donne tutte del mio paese?
Mi comanda? la servo. (verso la scena)
(a Carolina)
Carolina. Con licenza, signore. (alle donne) Quel giovane ammalato.
(piano a Marianna)
Marianna. (Guarda se mai avesse necessitade alcuna).
(piano a Carolina)
Carolina. Sì, signora. (parte, e a suo tempo ritorna)
Marianna. (Infelice! merta miglior fortuna). (da sè)
Elisabetta. Via diteci, madama, qualcosa di curioso.
(a madama Marianna)
Marianna. Pensava in questo punto a un caso doloroso.
Un povero signore, polacco di nazione,
Venuto da mio zio per la sua guarigione,
In età giovanile ha una melanconia
Sì tetra, che di peggio credo che non si dia.
Elisabetta, Monsieur Bainer che dice?
Marianna. Procura consolarlo.
Federica. Capperi! monsieur Bainer saprà ben risanarlo.
Carolina. Madama, poverino! vorrebbe un po’ venire.
(piano a madama Marianna)
Marianna. (Che dicesti?)
Carolina. (Niente).
Marianna. (Non sai quel ch’hai da dire?)
Siamo qui tra di noi. Non vorran soggezione).
Compatite. (alle donne)
Elisabetta. Servitevi.
Carolina. (Gliel’ha detto il padrone).
Marianna. (Mio zio?)
Carolina. (Così mi disse).
Marianna. (Farà per ricrearlo.)
Nel stato in cui si trova, non vo’ mortificarlo).
Amiche, l’ammalato di cui parlammo adesso,
Vorria venir innanzi, se fossegli permesso.
Che dite? non è tale da recar soggezione.
Elisabetta. Io per me non mi oppongo.
Giuseppina. È padrone.
Marianna. Digli che non si pratica; procura d’avvertirlo,
Che in grazia del suo incomodo si fa per divertirlo.
Carolina. Gliel dirò, sì signora. (Proprio anch’io ci ho piacere.
Gli uomini appassionati non li posso vedere). (parte)
Marianna. È un forastier, si vede, assai civile, onesto.
Si può, ch’egli s’avanzi, permettergli per questo.
SCENA IV.
Monsieur Guden e le suddette.
Marianna. Favorite. Come si sta, signore?
(lo fa avanzare)
Guden. Ah, non saprei che dirvi, sempre in angustie il core.
Marianna. Sedete qui con noi. Vedete? in casa mia
Vien tutta gioventù, non vi è melanconia.
Guden. La gioventù è un gran bene; lo spirito è migliore.
Ma non può stare allegro, chi non ha quieto il core.
Marianna. Sempre col cuore in bocca; siete un grand’uom sincero.
Guden. Voi scherzate, madama, ed io vi dico il vero.
Marianna. Amiche, lo risvegli un po’ del vostro brio.
Elisabetta. Signore, il vostro nome?
Guden. Guden è il nome mio.
Marianna. Monsieur Guden, adesso so anch’io qual vi chiamate.
Guden. Ch’io sono un vostro servo di già lo sapevate.
Elisabetta. Di Polonia mi pare.
Guden. Sì, madama.
Elisabetta. Lasciata
Avete per il Reno la Vistola gelata?
Guden. Della Vistola il freddo alle mie fiamme è poco.
Elisabetta. Anche da noi vi è il gelo, anche da noi vi è il foco.
Giuseppina. Sol per trovar un medico venir sì da lontano?
Guden. Qui sperai la salute, ma l’ho sperata invano.
Guden. Sperai alla mie piaghe miglior medicamento.
Marianna. Ditemi, monsieur Guden, in questo quarto mio
Sanavi quel rimedio, che ha suggerito il zio?
Guden. Sì, madama.
Elisabetta. Rimedio forse di nuova usanza,
Raccolto dalle mura d’intorno a questa stanza?
(tutte dimostrano l’ironia giocosa)
Marianna. L’aria delle finestre.
Federica. Meglio è quella di fuori.
Giuseppina. Perchè non va nel fiume a spegnere gli ardori?
Guden. Si burlano a ragione di un povero ammalato.
Elisabetta. Poverino! si vede ch’è in un misero stato.
Pallido, smunto e secco.
Federica. Non ha più carne indosso.
Giuseppina. Il mal dev’esser grande, se l’ammalato è grosso.
Guden. Mi beffano. Pazienza.
Marianna. Non le crediate offese.
Scherzar con bello spinto è il costume olandese:
Amiche, con licenza. Accostatevi a me.
(a monsieur Guden)
(Quale vi piacerebbe signor, di queste tre?)
Guden. (Madama, compatite; meglio sarà ch’io taccia).
Marianna. (Possibil non vi sia qualcuna che vi piaccia?)
Guden. (Vi è pur troppo).
Marianna. (Ma quale di quelle tre?)
Guden. (Nessuna:
Finchè non dite quattro, non ne ritrovo alcuna).
Marianna. Carolina. (chiama)
SCENA V.
Carolina e detti.
Marianna. (Ecco son quattro adesso).
Guden. (Ditemi fra le cinque, o per me fia lo stesso).
Levami questa rocca; ne ho abbastanza per ora.
(a Carolina)
Guden. Queste signore amabili non crederei d’offendere,
Chiedendo se son spose.
Marianna. Siamo tutte da vendere.
Elisabetta. E non è così facile trovare il compratore.
Federica. Han le robe che mangiano pochissimo valore.
Giuseppina. Oh, io poi non mi curo di essere comprata.
Guden. E madama Marianna?
Marianna. Ed io son destinata,
Finchè vive lo zio, starmi con esso unita;
Egli ha per me, signore, una bontà infinita.
Guden. Troppa bontà, madama, scusate, io non l’approvo.
Marianna. Dove potrei star meglio del luogo ove mi trovo?
Guden. (Eccomi sempre al peggio. Perduta ho la speranza).
(da sè)
Marianna. (L’Olanda e la Polonia sono in troppa distanza), (da sè)
Guden. (Le mie stolide brame godo che siano ignote.
Meglio è che non le sappia nè il zio, nè la nipote). (da sè)
Giuseppina. Ora siam tutti mutoli. Voi che avete viaggiato,
Diteci qualche cosa....
Guden. Oimè! (s’alza)
Giuseppina. Che cosa è stato?
Guden. Uno de’ miei assalti perfidi, micidiali.
Perdonate, vi prego; son vapori fatali.
Spero non sia niente... ma... di grazia, scusate.
Necessario è ch’io parta, madama... (Oh stelle ingrate!)
(parte)
SCENA VI.
Le cinque donne suddette.
Federica. La salute è un tesoro.
Giuseppina. Sento pietà di lui.
Va presto, Carolina, vedi se gli occor nulla.
Carolina. (Lo so quel che gli occorre; ma sono anch’io fanciulla).
(da sè, e parte)
Marianna. Non vorrei ch’egli fosse.... Vedo tal stravaganza....
SCENA VII.
Il Marchese Croccante e le suddette.
Marianna. Che volete, signore? (si alza adirata)
Marchese. Adagio, madamina.
Il medico cercava; trovai la medicina.
(guardando le donne)
Marianna. Le stanze dello zio, signor, son più rimote.
Qui non abita.
Marchese. E bene, starò colla nipote;
Starò con questa bella compagnia graziosa:
È questa una giornata per me calamitosa.
Bainer non vuol ch’io beva. Con questa legge austera,
Se un po’ non mi diverto, io muoio innanzi sera.
Marianna. Chi siete voi, signore?
Marchese. Il marchese Croccante,
Gran partigian del vino, e delle donne amante.
Marianna. Vorrei, signor Marchese, saper con sua licenza:
Con donne al suo paese si usa tal confidenza?
Marchese. Soggezion non abbiate; son uomo di buon cuore.
Ragazze, chi di voi vuol far meco all’amore?
Elisabetta. Signor, mal conoscete l’onor delle donzelle.
Federica. Le Olandesi, signore, non fan le pazzerelle.
Marchese. Via, via. Ragazza bella. (a madama Giuseppina)
Giuseppina. Che vuol da’ fatti miei?
Marianna. Orsù, signor Marchese, qui non vi è pan per lei.
Favorite, madame, passar nell’altra stanza.
(accennando un’altra camera)
Elisabetta. Signor, più assai de’ titoli noi stimiam la creanza. (parte)
Federica. Il suo marchesato dev’essere in montagna. (parte)
Giuseppina. Avvezzo a conversare con gente di campagna. (parte)
Marchese. Oh che son spiritose!
Marianna. Non trattasi così, (inchinandosi)
Marchese. Mi lasciate qui solo?
Marianna. La porta eccola lì.
(parte, mostrandogli la porta di dove era venuto)
SCENA VIII.
Il Marchese Croccante, poi Pettizz.
Non san che cosa sia trattar con i marchesi.
Vonno dai loro amanti rispetto e servitù:
Non san che a noi è lecito qualche cosa di più.
Pettizz. Signor, dice madama...
Marchese. Sentiamo il complimento.
Pettizz. Che abita il padrone nell’altro appartamento.
Marchese. È venuto?
Pettizz. Verrà vicino al mezzodì.
Marchese. L’aspetterò.
Pettizz. Comanda? (gli fa cenno se vuol andare)
Marchese. Voglio aspettarlo qui.
Pettizz. S’accomodi.
Marchese. Madama di Bainer è nipote?
Pettizz. Sì signor.
Marchese. Dimmi un poco. Averà della dote.
Pettizz. Non ha che lei al mondo, ed ha dell’oro assai.
Marchese. Che ne vuol far in casa? Non la marita mai?
Pettizz. Non so.
Marchese. Quanto per dote sarà il suo assegnamento?
Pettizz. Ha tanto, che può fare un marito contento.
Marchese. Ci vuol poco. Secondo lo stato di chi prende.
Averà centomila?
Pettizz. Oh, di più si pretende.
E anche più si crede? (È un colpo da marchese).
Pettizz. Signor, con sua licenza. (vuol partire)
Marchese. Fermati. Hai tanta fretta?
Pettizz. Deggio andare in cantina; il cantinier m’aspetta.
Marchese. In cantina? a che fare? (con un poco di movimento)
Pettizz. Abbiam dei convitati,
E preparar si devono de’ vini regalati.
er esempio, che vini; Marchese. (commocendosi)
Pettizz. Borgogna, vin del Reno,
Canarie, Fontignac, Cipro, ma di quel pieno.
Marchese. Basta, basta. Oh che sete! sento abbruciarmi il petto.
Pettizz. Vuole un bicchiero d’acqua?
Marchese. Che tu sia maladetto!
Pettizz. Servitore umilissimo.
Marchese. Eh, dimmi: la cantina
È lontana di qui?
Pettizz. Non signore, è vicina.
Marchese. La vedrei volentieri. Giacche il ber m’è vietato,
Almen che mi consoli coll’occhio e l’odorato.
Pettizz. Sento il padron, mi pare.
Marchese. Quand’è così, non vado.
Digli che favorisca di venir, se gli è in grado.
Pettizz. Puoi andar nel suo quarto.
Marchese. Cosa mi vai quartando?
Digli che venga qui, che son io che il domando.
È qualche cavaliere, è forse un’eccellenza,
Che abbia d’avere anch’egli le camere d’udienza?
Un uom che ha fatto ricco di sue fatiche il frutto?
Eh, che quarti, che quinti? riceva da per tutto.
Pettizz. (Affè, se glielo dico, sarà il signor Marchese
Con tutto il marchesato mandato al suo paese). (da sè)
Marchese. Tieni.
Pettizz. Che mi comanda?
Marchese. Tieni, buon figliuolino;
Pettizz. Pagar per le parole non si usa in questo loco;
E se ho da vergognami, nol fo per così poco, (parte)
SCENA IX.
Il Marchese Croccante.
Gli pare che sia poco un fiorin per niente.
Ma qui d’ungari e doppie si fa gloriosa pesca
A forza di salassi, a forza d’acqua fresca.
Sarà ben fortunato colui che la nipote
Pigliandosi di Bainer, avrà sì ricca dote.
Anch’io m’abbasserei, se la potessi prendere.
Già della nobiltade in casa ne ho da vendere.
Mi mancano i quattrini, e un poco di salute.
Qui c’è tutto: danari, donna, beni e virtute.
Eh! per mettermi in grazia del medico dabbene,
Mostrarmi rassegnato e docile conviene.
Bever acqua tutt’oggi, e anche doman, se vuole.
Centomila fiorini? son altro che parole.
SCENA X.
Monsieur Bainer ed il suddetto.
Marchese. Amico, ho da parlarvi di cosa d’importanza.
Bainer. Vi prego di spicciarvi, perchè sono aspettato.
Marchese. Sappiate innanzi a tutto, che l’ordine ho osservato:
Che ho bevuto dell’acqua, e che in una parola,
L’acqua mi ha fatto bene. (Nè anche una goccia sola).
Bainer. Mi rallegro con voi. Seguite il sano avviso,
E svanirà col tempo la maschera dal viso.
Marchese. Coll’assistenza vostra spero di risanarmi.
E poi... non ho ancor moglie, e penso di ammogliarmi.
Marchese. Acqua, acqua, signore, acqua in gran quantità.
Bainer. Qual ragione a quest’ora vi sprona a incomodarvi?
Marchese. Questo pensier di nozze... Bainer, ho da parlarvi.
Bainer. E venite a quest’ora?
Marchese. Cosa volete fare?
Mi divertisco un poco. Oggi non vo’ pranzare.
Mangiar senza ber vino non può il stomaco mio.
Bainer. Se non pranzate voi, signor, vo’ pranzar io.
Marchese. Ma è presto ancor.
Bainer. Da noi si pranza a mezzogiorno.
Di gente, d’ammalati, ho pieno il mio soggiorno.
Molti saran venuti da luoghi più lontani;
Signore, con licenza, ci vederem domani.
Marchese. Sentite una parola.
Bainer. Vi domando licenza.
(in atto di partire)
Marchese. Ma io voglio parlarvi.
Bainer. Ma questa è un’insolenza.
(parte)
Marchese. Centomila fiorini sarebbero un colpetto.
Se dirglielo non posso, gli scriverò un viglietto.
Eh, la dote, la dote, mi ha fatto restar muto;
E che ringrazi il cielo, che oggi non ho bevuto, (parte)
Fine dell’Atto Terzo.