Il nemico (Oriani)/Parte seconda/IV

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IV.

Loris era all’università di Kazan, l’antica capitale mussulmana, quando il 13 marzo 1881 Alessandro II soccombette al grande attentato diretto da Sofia Perowskaia. L’impressione ne fu immensa per tutto l’impero; all’università gli studenti radicali ne delirarono. I nomi di Sofia Perowskaia, di Jeliabof, Kibalchich e Rissakof s’involavano dalle loro labbra fra gli inni più ardenti. La grossa borghesia rimase atterrita, il popolo minuto compianse lo Czar, i mugiks invece lo credettero assassinato dai signori per tema di una seconda ripartizione di terre, e sarebbero insorti massacrando tutta la classe intelligente ad [p. 121 modifica]una sola parola di Alessandro III. Nessun acido rivoluzionario aveva potuto intaccare la loro massa rurale; fra la plebe senza numero delle campagne e lo scarso patriziato individuale delle scuole, anzi che contatto ed influenza reciproca, v’erano sfiducia ed ostilità aperta.

La passione d’apostolato, conducendo nel popolo tanti rivoluzionari, non aveva servito che a svegliarvi sospetti; e se qualche missionario era parso più avventurato nel comporre alcune drouynes di contadini, gettandone i più temerari in qualche processo politico, questa lustra di propaganda era tosto vanita. I mugiks nel partecipare a quei moti avevano presi i nichilisti per emissari segreti dello Czar.

Loris era a Kazan dal principio dell’inverno. Non aveva nemmeno tentato d’inscriversi all’università per difetto dei titoli necessari, e per ripugnanza alla tirannica disciplina imposta dal terrore del governo agli studenti. Si era presentato come un figlio di pope, orfano, venuto per frequentare solamente la biblioteca. Un passaporto falso, in piena regola, comprato al solito da un agente della polizia per cinquanta rubli, lo metteva al sicuro delle prime sorprese col nome di Loris Vassilich Orobine.

Viveva con certa modesta eleganza affettando una grande austerità di costumi, e non concedendo la propria intimità che a pochi sicuri. Il suo disegno era di penetrare nello spirito del gio[p. 122 modifica]vane radicalismo per valutarne le forze e studiarne le passioni. Mentre la negazione anarchica era nel suo spirito diventata manomania, per una facoltà abbastanza comune nell’ingegno russo una tendenza critica, sostenuta da forti qualità realiste, lo rendeva poco incline all’ammirazione di quel moto terrorista.

Fra tutti quegli studenti, che il principe di Bismark doveva definire benissimo un proletariato di baccellieri, non sentì che dolori personali provocati dall’indigenza e consolabili da un qualunque impiego. Moltissimi vivevano su borse istituite dal governo o dai privati; gli stessi ultimi czaricidi erano borsieri nutriti e educati a spese dello Czar. Gli studenti, per la maggior parte usciti dalle ultime file popolane, non avevano alcuna educazione nè morale nè intellettuale; ma spinti in alto dall’istinto delle loro famiglie, che sognavano così un avanzamento sociale, recavano negli studi colla passione di un guadagno immediato la mortificazione di una nuova superbia spirituale.

Poi la polizia, invitandoli a scuola, li sottoponeva alle più insopportabili precauzioni di sempre nuovi regolamenti, mentre l’amministrazione, anche più ostile, chiudeva loro dopo il corso dell’università quello degli impieghi.

Quindi gli studenti vivevano nella più squallida povertà, così derisi dal popolo che molti dovettero smettere l’uniforme per sottrarsi alle ingiurie nei [p. 123 modifica]quartieri più bassi della città. Alcuni erano alloggiati presso famiglie di artigiani o di piccoli mercanti, cui davano la magra pensione in cambio di più magri alimenti; altri s’ammassavano in case grandi come falansteri, uomini e donne in una promiscuità di miseria, nella quale i sogni politici ed amorosi nascevano colla stessa facilità. Pochi erano davvero nichilisti, allora che dopo il piccolo congresso di Lipetsk i terroristi avevano cominciato quel terribile duello a colpi di attentati e di patiboli. I più sguazzavano ancora nel radicalismo negativo, senza originalità di pensiero o di passione, che aveva ispirato gli eroi da romanzo a Tchernicewski a Tourgnenief e a Pisemski. Nemmeno lo scoppio della Comune di Parigi era bastato a dare un indirizzo più pratico alla logica del loro malessere coll’esempio della guerra civile. Gli ebrei, per l’indole dello spirito assolutista e una più dolorosa persecuzione nelle parti più delicate della vita, meglio atti a fornire un contingente rivoluzionario, erano presso che esclusi dalle università, e non potevano soggiornare nelle capitali senza diploma professionista o permesso speciale della polizia. Fra la studentesca e le alte classi nessun rapposto amichevole: gli studenti formavano una corporazione più spregiata che temuta, ora che il governo aggravava sovr’essi la mano. Poi la mendicità toglieva ogni poesia alle loro aspirazioni liberali, giacchè che appena fuori della scuola si sarebbero venduti al più misera[p. 124 modifica]bile degli impieghi. D’altronde la borghesia dei mercanti, quasi la sola, era troppo ignorante per indovinare il mondo ideale, che si apriva in quegli studi. Nullameno le scuole e per i bisogni fomentati, e il gusto acuito dell’investigazione, e la confidenza ispirata nel diritto, e le curiosità svegliate, e i confronti suggeriti creavano una minoranza eletta di studenti capaci d’interpretare i propri patimenti colle idee di una nuova civiltà e i dolori di tutto un popolo.

La morte dello Czar produsse nel loro piccolo cenacolo una esplosione; tutti i pareri erano unanimi. Slotkin e Kriloff, più anziani, perchè passavano di poco i vent’anni, tempestavano ferocemente; due studentesse ritornate a mezzo il corso da Zurigo s’abbandonavano ad una sorta di cannibalismo sul cadavere di Alessandro II. Si sarebbe voluto festeggiare quella strage con un banchetto e una luminaria, se la polizia avesse potuto permetterlo. Gli amori, oramai noti, di Sofia Perowskaia con Jelabof infiammavano quei giovani cuori, sebbene l’orrore di quella morte sulla forca gittasse molto freddo sul loro entusiasmo. Una colletta iniziata segretamente per coniare una medaglia commemorativa, colle due teste di Sofia Perowskaia e Jelabof da un lato e di Alessandro II dall’altro, fallì; pochi avevano danari, pochissimi osarono contribuire. Attraverso tale tumulto di frasi Loris constatava in essi una gran gioia di non essere coinvolti in quel dramma per poterlo [p. 125 modifica]meglio vantare a distanza. La morte dello Czar veniva considerata colle norme del classicismo, già abolito nelle scuole per timore del repubblicanesimo greco-romano, poi sostituito colle scienze naturali, e da capo reintegrato dopo che le teoriche positive delle nuove scuole erano sembrate dare frutti anche più pericolosi. Lo Czar era la vittima antica offerta in olocausto pei dolori del popolo; quella folla di studenti straccioni si vergognava momentaneamente meno dei propri cenci, pensando che un imperatore era caduto per strada sotto i colpi di miserabili pari a loro, e che pochi risoluti avevano potuto trionfare così del più potente governo del mondo.

Slotkin, incontrando Loris fermo dinanzi ad un bazar turco nella contemplazione di un magnifico tappeto persiano, gli disse:

— È arrivato Dmitri Orchanski, segretamente, uno studente di Pietroburgo.

Entrando in casa di Kriloff non vi trovarono alcuno. Per prudenza il convegno era stato mutato. La sera si riunirono fuori di Kazan in una strada deserta; erano pochi. Orchanski, giovane d’aspetto, povero, dava particolari su particolari dell’attentato colla vanteria ingenua di avervi partecipato almeno indirettamente; quindi raccontò lo scavo di Mosca, la mina al Palazzo d’Inverno, l’attentato fallito di Odessa. Una veemenza rettorica dava una grande efficacia di persuasione alle sue parole. [p. 126 modifica]

— Che ne dici dunque? si rivolse Slotkin a Loris.

— Aspetto la conclusione.

Orchanski offeso di quella freddezza guardò gli altri, come interrogandoli sulla fiducia, che si poteva avere in Loris, ma questi soggiunse:

— Naturalmente voi concluderete proponendo di metterci sotto il Comitato Esecutivo.

— Perchè no?

— Perchè sì piuttosto? Hanno ucciso lo Czar, sta bene: e poi? Perchè non tentare un colpo di mano sul governo? Se non miravano a questo, a che serve aver ucciso lo Czar?

— Siamo pochi ancora.

— Anche Catilina aveva pochi congiurati, ma costretto a fuggire formò un esercito, si battè e fu vinto. Egli era un grand’uomo.

— La storia romana adesso!...

— La storia è uguale in tutti i tempi.

L’accento delle loro repliche diventava sempre più aspro. Gli studenti tacevano; qualcuno s’andava voltando per assicurarsi di essere soli, ma in cuor loro propendevano per Loris. La giustezza delle sue critiche coincideva colla loro paura istintiva. La discussione proseguì ancora.

— Finora siete andati a predicare nel popolo: io lo conosco tutto, seguitò Loris con superbia, esso non vi ha creduto. Siccome eravate per lui scienziati borghesi, vi ha sospettato imbroglioni: il popolo è ancora per lo Czar. Dovevate sedurre [p. 127 modifica]l’esercito. Volete fare una guerra senz’armi? Avete voluto uccidere uno czar, ma il suo cadavere ve ne costa parecchie centinaia. È stato un duello ridicolo.

A questa violenza tutti protestarono.

— Ridicola Sofia Perowskaia! esclamò Kriloff.

— Anche lei. Che importa il valore personale in una rivoluzione, che solo l’idea e il metodo possono far trionfare?

Orchanski era diventato rosso dalla collera.

— Chi siete voi per permettervi tali ingiurie sull’unica gloria rimasta alla Russia?

Loris sogghignò, l’altro rispose concitato:

— Non vi conosco.

— Io invece potrei sospettarvi.

Li separarono. Orchanski predicava sempre, gli altri tornavano ad infiammarsi. Quando furono presso la città, siccome Loris accennava a separarsi, gliene chiesero il perchè. Egli si limitò ad alzare le spalle. Orchanski, che non aveva ancora digerito la prima ingiuria, intervenne daccapo. Questa volta Loris si mantenne più calmo.

— So già quello, che egli seguiterà a dire, e ciò che voi altri farete: non vi iscriverete al partito.

— Ci credi vigliacchi?

— No, ma non vi inscriverete. Questo signore non potrà vantarsi a Pietroburgo di aver fatto proseliti, ecco tutto.

— Potrei vantarmi d’avervi data una lezione.

— Vorreste battervi meco? Perchè fra tanto [p. 128 modifica]romanticismo politico, non avreste anche questo romanticismo borghese! Consultatevi con questi signori; se saranno del vostro avviso, vi consentirò.

Quella scena acquistò a Loris grande autorità, ma gli diminuì le simpatie.

L’ascendente del suo carattere e della sua posizione, relativamente agiata, gli avevano conquistato una vera superiorità. Egli non parlava mai come gli altri del come si sarebbe poi guadagnata la vita, e mentre tutti farneticavano sempre dell’ultimo volume letto, Loris affettava il più grande disprezzo pei libri. Il suo scetticismo sembrava ridere di tutte le forme passionate della rivoluzione; ogni precursore era per lui un sognatore, e ogni scrittore un parolaio, perchè la rivoluzione bisognava farla colla guerra, e la guerra colle battaglie. Ma, caso strano, egli non pareva loro un prudente, che parlasse così per evitare i pericoli delle congiure. Quando trasportati dall’impeto della giovinezza essi dimenticavano gli ideali rivoluzionari per smarrirsi in facili amori, egli rimaneva svogliatamente cinico e superbo.

Qualcuno propose fra loro una società segreta, questo fascino irresistibile per tutte le giovani immaginazioni, ma Loris s’oppose. Allora sarebbe valso meglio il dispotismo del Comitato Esecutivo, che disponeva almeno di qualche mezzo; però secondo lui il Comitato Esecutivo non si sarebbe più mosso per lungo tempo. Gli altri [p. 129 modifica]credevano invece fermamente ad un nuovo attentato per l’incoronazione di Alessandro III, dopo la dichiarazione stampata sulla Norodonia Volia. Loris invece lo dichiarava altrettanto inutile che impossibile.

— Allora?

— Una insurrezione. Sareste pronti ad arruolarvi sotto un capitano? disse loro squadrandoli così penetrantemente, che molti titubarono. Il capitano verrà forse più presto che non si pensi, forse non potrà vincere subito, ma anche sconfitto avrà fatto avanzare di un passo la rivoluzione. I martiri servono solo alle religioni, che possono venderne le reliquie.

Ma nell’alterezza di quest’idea non sapeva mescersi agli altri, simpatizzando coi loro difetti e attirando le loro forze. Il suo odio, troppo profondo contro la società, lo rendeva inabile alla vera politica, che sarà sempre la conquista delle adesioni incoscienti della folla. Un orgoglio smisurato gli impediva di agire, perchè ogni inizio essendo fatalmente piccolo gli pareva indegno di sè; i dispareri lo irritavano, talvolta s’impermaliva alla contraddizione. Nel suo sogno di vendetta si vedeva gigante sul mondo, al di sopra di tutti, senza amici, come Maometto e Napoleone. Così giungeva all’adorazione di sè stesso, triste pania di tutti gli ingegni, che si isolano, e di tutti i caratteri, che non operano.

Non leggeva e non scriveva. Poi lo riprende[p. 130 modifica]vano i desideri della gran vita mondana, facendogli sentire spasmodicamente l’indifferenza delle dame e dei signori, che nemmeno avvertivano la sua presenza. Allora gli pareva bella la posizione dello Czar, minacciato di morte da tutti i rivoluzionari, e nullameno fermo a non concedere nulla alle loro recriminazioni.

Benchè dicesse di essere venuto a Kazan per la biblioteca, non vi aveva ancora posto il piede, dacchè viveva in una famiglia di piccoli mercanti di grano, che gli avevano affittato una stanza. Il suo riserbo, la sua educazione, la sua stessa bellezza lo avevano reso l’idolo della casa, mentre la padrona, donna grassa sui quarant’anni, si era invano innamorata di lui, e i bambini invece lo sfuggivano istintivamente.

Nelle lunghe sere che gli studenti venivano a trovarlo, offriva loro la vodka; si leggevano i giornali clandestini, il Vpered, Zemlia e Volia, le opere di Marx, assurdamente permesse mentre quelle dello Spencer erano proibite. Quindi s’accendevano discussioni letterarie, nelle quali egli si manteneva indifferente. Allora uno degli scrittori prediletti era Ernesto Renan; Loris, che ne aveva letto poco, lo giudicò succintamente:

— Un musicista!

Non accettava nemmeno Zola, perchè il suo naturalismo gli pareva più falso di qualunque altro idealismo. Quei personaggi, viventi solo di sensazioni sensuali, erano manichini; il popolo [p. 131 modifica]non poteva essere così nemmeno in Francia. Una volta disse che i casuisti della morale ortodossa conoscevano l’uomo meglio di lui.

— Zola non ha mai dipinto un grand’uomo: gli sfugge dunque la parte più importante della vita. I mugiks non furono finora che candidati all’umanità.

Stimava più utile alla rivoluzione l’impianto di un opificio che un attentato; nel 1861 la Russia era senza grande industria, in quel momento possedeva già 85000 manifatture, dentro le quali si veniva elaborando il proletariato operaio. Ma la Russia non farebbe mai che una rivoluzione rurale. Questa secchezza di giudizi non piaceva. Egli non toccava mai le tesi predilette del radicalismo, la soppressione dell’eredità, l’abolizione della proprietà individuale, il libero amore, il collettivismo, il comunismo, tutti i sogni dei falansteri e l’utopie bonarie di una felicità futura nell’uguaglianza dei diritti e delle funzioni. Il solo libro, che si era degnato ultimamente di leggere, il Capitale di Marx, diventato la bibbia di tutti i rivoluzionari, non gli era piaciuto; trovava anzi ridicolo che gli economisti borghesi non avessero saputo rispondergli. Carlo Marx giudicava assurdo il sistema capitalista, senza aver saputo scoprire per quale vera ragione organica aveva potuto durare migliaia d’anni nella storia.

A che pro’ la critica? Essa non migliorava l’arte e non distruggeva i fatti. Chi si sentiva capace [p. 132 modifica]d’insorgere doveva tentarlo, non fosse che per conquistare un posto migliore.

— Tu sei dunque individualista?

— Potrei diventare un ribelle se non lo fossi?

Poi una malinconia cupa s’impadronì del suo spirito. Qualche volta l’immagine di Tatiana, sanguinante e piangente sotto l’orribile figura di Topine, gli tornava all’immaginazione. Era essa davvero colpevole delle frustate di Vaska? Ridendo l’ultima volta a quella finestra, sapeva veramente del suo supplizio? Certo Loris allora non amava più; ma questa fredda superiorità di cuore, mettendolo al di sopra dei compagni, glieli faceva spesso invidiare, quando li vedeva felici nell’ebbrezza dei loro labili amori.

Come tutti i rivoluzionari, subiva inconsciamente il fascino dell’antica idea messianica. Se ogni fantastica ricostituzione della società finiva anche per lui alla ricostruzione di forme viete fra il convento e la caserma, l’azione storica gli si presentava ancora come opera individuale. Solamente un grande, sconosciuto ed inconoscibile da principio, potrebbe organizzare entro la propria superiorità i concetti amorfi della massa, dando coscienza alle sue vaghe aspirazioni. La predestinazione del grand’uomo era un dogma oscuro ed orgoglioso del suo pensiero; tutto gli sarebbe stato possibile tranne il considerarsi pari al popolo.

Gli mancava l’oblio di sè stesso, così necessa[p. 133 modifica]rio per trovare l’anima della moltitudine, e quella passione ardente dei minuti particolari, che forma davvero la caratteristica degli uomini d’azione. Non vi sono grandi fatti nella vita, ma grandi risultati spesso non visibili che a grandi distanze. I maggiori artefici della storia cominciarono sempre inconsapevolmente; le loro passioni coincisero col sentimento delle masse, mentre l’egoismo della loro carriera li salvò dall’incertezza dialettica dei sistemi. Credendo operare nel proprio vantaggio ubbidirono alle impulsioni popolari, finchè si ruppe l’impercettibile accordo del loro individuo colla moltitudine, e morirono abbandonati.

Loris, sentendo in Proudhon, in Lassalle e in Marx tre delle nature più vanitosamente aristocratiche del secolo, credeva di somigliare loro; e si scordava che questi oligarchi rivoluzionari, capaci di spregiare tutto nel nome del popolo senza credergli, dovevano pure per una antitesi forse inintelligibile a loro stessi avere coll’anima popolare qualche profonda affinità.

Ma nella studentesca era già scoppiato un dualismo nel giudizio su Loris; alcuni, offendendosi che non fosse studente, gli negavano ogni valore. Chi era? Che cosa faceva a Kazan? A sentirlo non v’era in tutta l’Università un professore decente, sebbene non avesse mai intesa una loro lezione; nessun autore aveva per lui abbastanza autorità. Ma gli altri insorgevano: perchè domandare ad un uomo chi è, quando il suo valore è [p. 134 modifica]manifesto? Non si sapeva forse che le Università russe erano le ultime del mondo? Se Loris non credeva a nulla, era questa la caratteristica del secolo, la sua superiorità sugli altri, che avevano ubbidito a idee riconosciute oggi false. I più rivoluzionari intervenivano allora: egli insultava i martiri senza avere ancora fatto nulla. Quali erano le sue idee? Parlava di guerra senza provare che la guerra fosse possibile. Il suo ingegno era ancora un enigma; però lo conoscevano coraggioso. In parecchie risse di studenti o fra studenti e popolani Loris si era sempre gittato in mezzo con una temerità superiore ad ogni complimento. Era questa la base della sua autorità, poi non faceva debiti; qualche volta prestava danaro. Nessuno lo aveva mai visto ubbriaco.

L’opposizione maggiore veniva da un piccolo gruppo, che si vantava nichilista; essi lo chiamavano per dileggio Catilina da quella sua frase.

— Catilina era amico di Cesare, ecco perchè Loris non odia lo Czar.

Una sera in un tractir s’accese fra studenti una grossa lite. Loris aveva parlato male di Tchernicewski, il martire sepolto vivo nella Siberia, analizzandone succintamente tutte le opere: la sua risposta a Stuart Mill, poco scientifica e meno filosofica, quasi sempre combatteva un testo capito al rovescio; il suo romanzo «Che fare?» diventava ridicolo come arte dopo quelli di Dostoievski e di Tolstoi; la sua stessa prigionia in Siberia, non [p. 135 modifica]abbellita da alcun tentativo di fuga, perdeva ogni interesse.

— Non vale più del suo partito, che non ha osato nemmeno il rischio di farlo evadere.

I più violenti s’alzarono in piedi, parlavano tutti in una volta. Loris li lasciò dire, poi volgendosi al gruppo nichilista, che fomentava gli odî contro di lui:

— Se voi amaste Tchernicewski, esclamò, invece di essere qui a Kazan, vantandole sue opere, sareste in Siberia per salvarlo.

Fu una doccia fredda.

— Occorrerebbero denari.

— In Siberia? basta il coraggio; io ho girato tutta la Russia per tre anni senza un kopek.

— Vanteria!

Scoppiò una collutazione fra i nemici e gli amici di Loris; egli vi assistè impassibile.

L’indomani era chiamato in polizia, una settimana dopo aveva passata la frontiera.

Rimase cinque anni all’estero viaggiando per l’Europa. Quando giunse a Parigi non gli rimanevano che poche migliaia di rubli; ma il suo disegno era fisso irrevocabilmente. Piuttosto che sottomettersi lavorando a qualcuno, avrebbe rubato sino al giorno, nel quale potrebbe iniziare la lotta. Su questo non aveva alcun dubbio morale nella coscienza. Con perfetta lucidezza comprese subito che di tutti i furti il più facile e il più proficuo è quello del giuoco. Da Parigi venne [p. 136 modifica]ad Aix-les-Bains, ove era sicuro di trovare dei maestri, avendo già scelto come giuoco più propizio l’écarté. Dopo un mese aveva stretta relazione con alcuni bari e ricevute tutte le lezioni; allora scomparve. Per sei mesi, con una pazienza da prigioniero, si addestrò nella propria camera a togliere dal mazzo delle carte il re con tale disinvolta rapidità, che fosse impossibile accorgersene; egli poi lo avrebbe tentato solamente nei momenti più opportuni, a seconda del carattere dell’avversario e del luogo. Quando credette di essere perfetto, si vestì da operaio e si mise a frequentare le bettole per tentare in basso le prime armi, e giudicare della propria forza. L’esperimento andò bene; allora ridivenne un elegante, e andò a Nizza. Si faceva chiamare come a Kazan Loris Orobine, spacciandosi per un emigrato politico; ma la sua cultura e i suoi modi squisitamente signorili dovevano ottenergli dappertutto la stessa simpatica considerazione.

Viveva solo, in un riserbo quasi troppo aristocratico, non concedendosi alcun vizio. Alcune relazioni con veri signori russi a Cannes gli valsero l’ingresso nella buona società.

Non giuocava che all’écarté dopo aver misurato il valore dell’avversario, affettando pochissima passione al giuoco, e non rubando che nel momento più favorevole. In quella vita mondana gli si era attaccata una così grande vanità signorile, che avrebbe profondamente sofferto di un [p. 137 modifica]qualunque scandalo proprio; quindi sulle prime vinceva appena di che intrattenere quella appariscente eleganza. Evitava colla massima cura le grandi cortigiane e gli avventurieri; per quattro mesi divenne il compagno indivisibile, quasi l’infermiere, di un vecchio lord spinitico, che aveva comprato sulla spiaggia di Cannes una villa incantevole. In questa continua tensione obliava quasi lo scopo rivoluzionario della propria vita. Finalmente un’estate, ai bagni di Trouville, potè vincere ad un americano quarantamila franchi. Ciò gli permise di arrischiare più grosse partite ogni qualvolta lo stimasse opportuno; dopo tre anni sebbene possedesse trecentomila lire non ne spendeva più di mille al mese. L’anno seguente ad Amburgo vinse un altro centinaio di migliaia di lire. Si era proposta la somma di mezzo milione.

Poi venne nella Svizzera per mettersi in rapporto coi rivoluzionari.

A Zurigo si mescolò fra la folla degli studenti e delle studentesse russe, a Ginevra conobbe i maggiorenti della rivoluzione, ma non vi fu bene accolto. Poi informazioni giunte forse dalla Russia gli rassicurarono la fama. Allora si vide circuito perchè s’inscrivesse nel partito, ma questo era già diviso in sette, che si combattevano fra loro. I compagni di Bakounine e gli scolari di Marx si facevano una guerra mortale. Nelle riunioni si agitavano più questioni accademiche che [p. 138 modifica]non si allestissero complotti; sopratutto mancavano i danari, quantunque l’Europa supponesse molto ricco il partito nichilista. Loris avrebbe voluto acquistarvi grande importanza senza farvi prima il gregario; ma i modi patrizi e il carattere altero glie lo impedirono. I più lo giudicavano un dilettante, di coloro che simpatizzavano platonicamente colla rivoluzione senza volervisi compromettere; però la fredda violenza delle sue idee e la inesorabile perspicacia delle sue critiche lo facevano sospettare di ben altra natura. Allora fu sorvegliato. Si seppe che era un giuocatore, si dubitò della sua onestà; fra i rivoluzionari si affollavano avventurieri di ogni sorta, troppo addestrati in tutti i giuochi per non sorprendere quello di Loris. Infatti una sera, in un caffè, Loris, avendo fatto in una partita di cento lire saltare il re, un baro se ne accorse.

Questo difetto non gli avrebbe molto nuociuto in tale ambiente, se si fosse gettato a capo fitto nel partito, ma la sua indipendenza da ogni legame e la poca stima, che mostrava pei maggiori uomini e le massime imprese nichiliste, gli attirarono molti odî. In un duello rimase ferito.

Ma ogni giorno si sentiva più scontento di sè stesso. Una sete di gloria gli bruciava il sangue facendolo sognare di un gran colpo, che lo mettesse alla testa della rivoluzione, e gettasse il suo nome a tutti gli echi d’Europa. Visitò la Germania, l’Inghilterra, per fermarsi da capo a Pa[p. 139 modifica]rigi. Era tornato allo studio nella solitudine delle proprie ore.

Un vuoto freddo e buio gli si allargava nell’anima, incapace di più amare, ora che quella fortuna al giuoco lo aveva sottratto alle più pungenti umiliazioni della miseria. In che dunque consisteva la sua preparazione? Fino a quando avrebbe durato? Napoleone a venticinque anni era già generalissimo d’Italia. Nelle più cupe malinconie qualche volta pensava al suicidio, dicendosi che i tempi non erano maturi, e forse nemmeno egli possedeva le qualità indispensabili al futuro grand’uomo.

Quell’isolamento morale, da cui non avrebbe potuto uscire nemmeno scendendo all’azione, lo condannava ad immolarsi per una grande idea o a suicidarsi, perchè nessuno può resistere nel vuoto. Egli vi si dibatteva da cinque anni. Un’amara svogliatezza dava un’aria romantica al suo volto rigido, mentre una maggiore esperienza della vita gli rendeva egualmente antipatici i gentiluomini mondani e gli emigrati politici, le cortigiane e i giornalisti, gli avventurieri e i politicanti, fra i quali era costretto a vivere. I giorni gli sfuggivano a uno a uno come a quei malati, che sanno di non poter più guarire.

E a poco a poco la Russia l’attirava, col suo popolo vergine e colla sua estensione di continente metà europeo e metà asiatico, solcata da tutte le tradizioni, agitata da tutti gli istinti, ter[p. 140 modifica] rorizzata da un gruppo di studenti, che aveva potuto dichiarare guerra all’impero, uccidendo uno czar e tenendo l’altro prigioniero nel suo palazzo. Là tutto era ancora possibile. La Russia autocratica e piena di piccole repubbliche cosacche, col comune socialista e un governo senza libertà, si avanzava lentamente come una inondazione nell’Asia, tentando di arrestare contemporaneamente in sè medesima il progresso della civiltà. Solo nella Russia l’incredulità pessimista rinnovava ancora i miracoli delle fedi religiose, e il dolore del popolo poteva essere il prognostico più sicuro della sua grandezza.

L’inverno seguente Loris ritornava a Pietroburgo.