Il re della montagna/12. Una storia terribile

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12. Una storia terribile

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11. Sulla montagna 13. Il tradimento


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Cap. XII.

Una storia terribile.


Mirza, vedendo il volto della giovanetta, che egli fino allora aveva creduto fosse un ragazzo curdo, era retrocesso vivamente, come fosse stato colpito da una straordinaria sorpresa. Immobile a tre passi da Fathima, cogli occhi fissi su di lei, colla più grande meraviglia scolpita sul viso, la guardava senza parlare. Pareva che in quel momento un profondo pensiero tormentasse il suo cervello.

— Guardala!... — ripetè Nadir. — È degna di me?

Il vecchio non rispose. Continuava a guardarla con crescente attenzione, studiando le delicate linee di quel volto, gli occhi, l’opulenta capigliatura bionda, che si era snodata, cadendo sulle spalle della giovanetta come una pioggia d’oro.

— Ebbene, Mirza? — chiese Nadir, sorpreso da quel silenzio incomprensibile. — Perchè taci?

Mirza si scosse e mormorò a più riprese:

— Sogno io?... O gli anni hanno intorbidito la mia memoria?...

— Che cosa mormori? — chiese Nadir. — Mi sembri molto sorpreso, Mirza.

— È vero.

— Non è bella questa fanciulla?

— Sì, come un raggio di sole.

— Non è degna di me?

— Sì, Nadir; ma...

— Continua. [p. 127 modifica]

— Dove hai incontrato questa fanciulla?

— A Teheran, ed a lei devo la mia salvezza. Senza di lei, a quest’ora il tuo Nadir sarebbe morto.

— Sai, Nadir, che ella ha nei suoi occhi lo stesso lampo fiero che scorgo nei tuoi?...

— È strano, Mirza.

— E sai tu che nei suoi lineamenti io scorgo dei tratti che ho veduti sul viso di un’altra persona?

— Di quale? — chiese il giovanotto con istupore.

— Di una donna che aveva i capelli pure biondi, gli occhi neri, ed eguali lineamenti.

— Chi era?

— Tua madre, Nadir!

— Mia madre!... Sogni, Mirza?

— No, non sogno.

— È impossibile!

— È vero invece, Nadir.

S’avvicinò bruscamente alla giovanetta, che non era meno stupita di Nadir, e le chiese:

— Qual è il tuo nome?

— Fathima — rispose ella.

— Ma quello di tuo padre?

— Non lo seppi mai.

— Ma avrai un padre tu!

— Non l’ho mai veduto.

— L’hanno ucciso forse? — chiese Mirza, con voce agitata.

— Lo ignoro.

— Ma tua madre?

— Non l’ho mai conosciuta.

— Ma eri sola nel tuo palazzo?

— No: ero nel palazzo d’un principe.

— Il suo nome?...

— Hagdi Ibrahim.

Mirza emise un grido. Indietreggiò pallido come un morto e andò a cadere su di un cuscino di seta, come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Lampi feroci gli balenavano nello sguardo, ed i suoi lineamenti, così dolci, avevano assunto in quel momento un’espressione così selvaggia da far paura.

[p. 121 modifica]Mirza emise un grido. Indietreggiò pallido come un morto e andò a cadere su d’un cuscino... (Pag. 127.)

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— Lui! — esclamò con intraducibile accento d’odio. — Lui!...

— Mirza! — gridò Nadir precipitandosi su di lui. — Che cos’hai? Che ti è accaduto?... Perchè quegli sguardi?... Parla una volta, spiegami tutti questi misteri.

Mirza si rialzò: quell’eccesso inesplicabile di furore pareva che fosse subito sfumato. S’avvicinò a Nadir e alla giovinetta e, unendo le loro mani, disse:

— Dio ha compiuto un miracolo, figli miei: egli ha riunito due vittime dell’infamia d’un vostro comune parente e che erano nate entrambe sui gradini d’un trono. Possano i vostri genitori benedirvi e proteggervi di lassù.

Poi ruppe in uno scroscio di pianto: quel vecchio, che resisteva ancora malgrado tanti dolori passati, piangeva come un fanciullo.

— Mio buon Mirza — disse Nadir con voce commossa. — Perchè piangi?

— Non siamo tuoi figli? — disse Fathima.

— Il pianto fa bene talvolta — rispose il vecchio. — Ho amato tanto i vostri genitori, che tutte le volte che penso a loro, il cuore mi si spezza.

— Ma chi siamo noi? — chiesero Nadir e Fathima.

— Entrambi figli di sciàh.

— Ma siamo parenti adunque?

— Sì, figli miei.

— Ma in qual modo? — chiese Nadir.

— Lo saprai.

— Ma i nostri genitori sono morti? — chiese Fathima.

— Sì, fanciulla: sono stati assassinati.

— Ma da chi? — chiese Nadir. — Dimmelo, Mirza, che vada a strappare loro il cuore.

— Da un uomo che è potente quasi come lo sciàh e che è vostro parente.

— Dal principe Ibrahim?

— Sì, da lui, Nadir.

Il giovane montanaro mandò un urlo di rabbia, mentre Fathima si nascondeva il viso fra le mani, mandando un grido d’orrore.

D’un balzo Nadir afferrò un archibugio che stava in un angolo della sala e si slanciò verso la porta, gridando con voce tuonante:

— A me, montanari!... [p. 131 modifica]

Mirza gli si precipitò dietro e, afferrandolo per le braccia, gli chiese:

— Disgraziato, dove vai?

— A vendicare mio padre e mia madre! — rispose il giovanotto con fierezza.

— Vuoi farti uccidere?

— Non teme la morte il Re della Montagna.

— E la tua Fathima?... Non l’ami più adunque?

— Nadir!... Oh mio prode Nadir! — esclamò la giovanetta, tendendo le mani verso di lui.

In quell’istante apparve sulla porta Harum, seguìto dai montanari. Avevano in mano i loro fucili ed erano saliti, credendo che il giovane Re della Montagna corresse qualche pericolo.

— Che cosa desideri, Re della Montagna? — chiese Harum.

— Nulla — disse Mirza, prevenendo la risposta di Nadir.

— Mirza! — esclamò il giovanotto.

— Silenzio, Nadir!... Io t’ho amato come se tu fossi mio figlio, e tuo padre ti ha affidato a me.

— Ti obbedisco, Mirza.

— Dimmi, figliuol mio: l’ami questa fanciulla?

— Più della mia vita.

— Vuoi farla tua? È degna di te.

— Sì, Mirza.

— Harum — disse il vecchio. — Recati ad Ask senza perdere tempo e va’ a prendere il mollah della moschea: voglio che domani sera si compia il matrimonio.

— Siamo pronti a partire, Mirza — rispose il montanaro.

— Prenderai dei cavalli freschi nella scuderia del castello.

— Sta bene.

— Andate, amici, e guardate di non cadere in qualche imboscata.

— Abbiamo i nostri fucili.

Harum ed i montanari uscirono. Fathima si gettò fra le braccia di Nadir mormorando:

— Quanto t’amo!... Sono troppo felice!...

— Mia!... Mia per sempre! — esclamò il giovanotto, stringendosela al petto.

— Ah!... Ora sì, è bella la montagna!

— Figli miei — disse Mirza. — Sedetevi presso il fuoco ed ascoltatemi: è tempo che voi sappiate chi siete. [p. 132 modifica]

Stette alcuni istanti silenzioso, come se riordinasse dei lontani ricordi, poi disse con voce grave e vivamente commossa:

— Regnava sulla Persia uno sciàh leale, prode, magnanimo, buono, il migliore di quanti re abbiano governato la nostra patria. Non temeva nemici: era fiero come te, Nadir, bello come te, terribile cogli ambiziosi, e perciò si era creato formidabili rivali che cospiravano per abbatterlo.

«Pronipote del famoso Nadir sciàh, valoroso quanto lui, aveva conquistato colle armi quasi mezza Persia, debellando le truppe dei numerosi pretendenti che si disputavano il trono dello sciàh Zaki.

— Il suo nome? — chiese Nadir.

— Luft-Alì.

— Mio padre forse?

— Sì, tuo padre, Nadir.

— Ah! Sentivo di aver nelle vene sangue di guerrieri! Continua, Mirza.

— Contrariamente alle abitudini degli altri sciàh, che sposano quattro mogli e che nei loro palazzi tengono centinaia di schiave, giovanetto ancora aveva sposato una donna sola, la figlia del prode khan di Samarcanda, bella, bionda come la tua Fathima, cogli occhi neri, i lineamenti delicati, un amore di fanciulla, una perla che formava l’orgoglio della Corte di Teheran; e dalla loro unione eri nato tu.

«La Persia era allora in fiamme; dovunque i pretendenti si combattevano, e tuo padre, malgrado tante vittorie e l’amore de’ suoi soldati e del suo popolo, non si riteneva sicuro. Temendo di venire un giorno assalito in Teheran dal feroce Mehemet, che gli disputava ferocemente il potere con un numeroso esercito, ti affidò alle mie cure, ed io ti condussi in questo castello, dove tu crescesti ignorando sempre di chi eri figlio. Così aveva voluto tuo padre, per sottrarti, in caso d’un disastro, alla crudeltà di Mehemet.

«Tua madre aveva uno zio, il principe Ibrahim, un ambizioso che aspirava a diventare potente sulle disgrazie di tuo padre. Sapendo a quale prezzo Mehemet avrebbe pagato un tradimento che gli schiudesse la via al trono di Persia, congiurò contro tuo padre ed una notte piombò su Teheran, svegliando la popolazione col rombo delle artiglierie.

«Parte delle truppe, corrotte dall’oro, avevano abbracciata la causa di Mehemet e del traditore, ed erano improvvisamente entrate nella capitale. [p. 133 modifica]

«Non scorderò mai quella notte tremenda, dovessi vivere cent’anni. Erano giunti in quei giorni al palazzo reale la sorella di tua madre e lo sposo suo, il khan di Irak-Adjem, conducendo con loro la figlia, una bambina di pochi mesi, ancora poppante, bionda, cogli occhi neri, bella come un bottoncino di rosa.»

— Chi era? — chiese Nadir.

— Eccola — rispose Mirza. — La tua Fathima.

— Ma noi adunque siamo...!

— Cugini, Nadir.

— Ah!... Fathima!...

— Mio Nadir! — esclamò la giovinetta.

— Il sangue non s’ingannava adunque!

— No, non si è ingannato — disse Mirza. — Da quell’epoca son trascorsi quindici anni, ma io vedendo questa fanciulla dinanzi a me, quando tu le hai levato il turbante, ho creduto di ravvisare la piccina da me veduta nel palazzo reale di Teheran.

— Continua la tua istoria, Mirza. A suo tempo il miserabile pagherà l’infame tradimento.

— Tuo padre, — riprese il vecchio, con voce sempre più commossa, — ignorava la congiura. Nel palazzo reale tutti dormivano. Udendo tuonare improvvisamente il cannone, tuo padre si svegliò e balzò dal letto afferrando le proprie armi. Tua madre, atterrita, cercò di trattenerlo, ma egli si slanciò nella sala del trono tuonando:

«— A me, mie guardie!...

«Era troppo tardi. I ribelli erano entrati nella piazza di Meidam, avevano sorprese le sentinelle ed invaso il palazzo, mandando grida di morte e chiedendo la testa di tuo padre. La popolazione, terrorizzata, non ardiva uscire dalle proprie case. Le guardie scampate al massacro, i servi, i valletti, i guardiani, fuggivano per le sale, opponendo una debole resistenza. Tuo padre, in mezzo a tanto tumulto, non si perdette d’animo.

«Radunò attorno a sè un centinaio d’uomini, fece scendere tua madre, ed i cognati colla bambina, e ripararono nel giardino, barricandosi in un padiglione, le cui mura massicce potevano opporre una seria resistenza.

«Gli assalitori, cento volte più numerosi, briachi di carneficina, aizzati dal traditore, che non inorridiva di lordarsi del sangue de’ suoi parenti, investirono furiosamente il padiglione, sfondando le porte e le finestre. [p. 134 modifica]

«Una lotta tremenda s’impegnò. Si battevano coi fucili, colle pistole, coi kandjar, coi pugnali, e fra gli spari udivo la terribile voce di tuo padre che tuonava:

«— Uccidete i traditori!... Coraggio, miei prodi!...

— Ah! — esclamò Nadir, scattando in piedi cogli occhi in fiamme. — Perchè non potevo accorrere anch’io in suo aiuto!... Infami!... Ed io sono vivo!...

Uno scroscio di pianto soffocò la sua voce. Anche la giovinetta piangeva in silenzio.

— Continua, Mirza — disse il giovanotto, tergendosi con una specie di rabbia le lagrime.

— Tre volte i traditori furono ributtati da quel pugno di valorosi guidati da tuo padre e dal khan di Irak-Adjem, ma finalmente irruppero come una fiumana nel padiglione. Mi ricordo di aver udito urla feroci, poichè io ero nel giardino, grida strazianti di donne; poi vidi volare dalle finestre delle teste umane e quindi alzarsi delle vampe.

«In mezzo al fumo, fra lo scrosciare dei legnami ardenti, fra i vortici di fumo e i nembi di scintille, udii ancora degli spari e vidi degli uomini combattersi ferocemente fra le pareti crollanti, poi il padiglione si sprofondò con immenso fracasso, seppellendo sotto le macerie amici e nemici. Uno però era stato tratto vivo dalle fumanti rovine, e quel disgraziato era tuo padre.»

— Infami! — ripetè Nadir. — E tu non vuoi che io lo vendichi?

— A suo tempo i traditori morranno — rispose Mirza.

— Prosegui — disse Nadir.

— Tuo padre, carico di catene come un malfattore, fu da tuo zio condotto a Chiras e consegnato al feroce Mehemet, il quale dapprima lo fece accecare, poi, quando entrò nella capitale, se lo condusse dietro facendolo beffeggiare dal popolaccio.

— E quest’uomo vive ancora? — gridò Nadir, piangendo di rabbia.

— È lo sciàh che regna a Teheran.

— Ed io che l’ho veduto non l’ho ucciso!...

— Lo sventurato tuo padre, gettato in una prigione, visse alcuni mesi, poi Mehemet lo fece assassinare assieme a tutti i suoi parenti1. [p. 135 modifica]

— E tu non me lo hai detto!... Avrei potuto salvarlo.

— Ti saresti fatto uccidere inutilmente, Nadir, poichè Mehemet è potente. Ti celai la fine sciagurata del padre tuo, ti impedii di scendere a Teheran per tema che ti scoprissero, e ti feci adottare dai cacciatori della montagna, fra i quali si celano dei ricchi signori, caduti in disgrazia e banditi da Teheran dallo sciàh attuale, ed essi ti proclamarono loro re. Sentivano per istinto che tu sei di sangue reale e non si sono ingannati.

«Tu hai creduto di essere figlio di qualche cacciatore di montagna, o di qualche ricco bandito, e invece sei figlio di re. Non hai che pochi sudditi, Nadir; ma in questi sotterranei sono nascosti dei tesori immensi, dei monti d’oro e dei cofani pieni di diamanti, coi quali potresti radunare un esercito potente e fare la guerra ai traditori. Il tempo non è ancora giunto, Nadir; ma oggi si cospira per te a Teheran, ed i fedeli di tuo padre non attendono che la tua comparsa per impugnare le armi. Oggi sono pochi, perchè si teme lo sciàh: fra qualche mese quanti saranno? Molti, figlio mio, e la tempesta che rugge sordamente dentro la capitale persiana, scoppierà un giorno tremenda.

— Ma Fathima? — chiese Nadir. — Perchè non l’hanno uccisa?

— Nel furor della mischia, un soldato nemico la vide e gli mancò l’animo di uccidere una creatura così debole. La raccolse, la salvò di fra le mura cadenti e le fiamme dell’incendio e l’affidò ad una tribù di illiati del Mare Caspio.

«Più tardi seppi che il traditore, forse inorridito da quella strage, la fece cercare e l’accolse in casa sua. Ecco perchè la tua giovane fidanzata non perì in quella notte tremenda.»

— Ah! — esclamò Fathima. — Lo sentivo per istinto che quell’uomo doveva essere un traditore; egli mi faceva paura.

— Il sangue non s’inganna, Fathima — disse Mirza. — Ora basta, figliuoli miei; fra due ore l’alba sorgerà e voi dovete essere stanchi. Dormite tranquilli e domani sera il mollah vi unirà per sempre.

Nadir accese un candelabro e conducendo la giovanetta verso una porta laterale le disse:

— È la tua stanza. Sogna di me come io sognerò di te, amor mio.

— A domani, mio Nadir — diss’ella raggiante di gioia.

[p. 129 modifica]Nel furor della mischia, un soldato nemico la vide e gli mancò l’animo di ucciderla. La raccolse, la salvò di fra le mura cadenti e le fiamme... (Pag. 135.)

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Quando la porta fu richiusa, Nadir s’avvicinò a Mirza cogli occhi scintillanti e il viso contraffatto da una tremenda emozione:

— Mirza — disse con voce sibilante — Voglio vendicare i morti di quella notte terribile.

— Li vendicherai, Nadir.

— Me lo prometti?

— Te lo giuro su tuo padre e su tua madre — rispose il vecchio con voce solenne.

— Sta bene: guai a loro, il giorno che il Re della Montagna ridiscenderà a Teheran!...




Note

  1. Storico.