Il re della montagna/19. Nadir e Fathima

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19. Nadir e Fathima

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18. L'insurrezione Conclusione


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Cap. XIX.

Nadir e Fathima


Fuori dalla porta d’oriente, i khan dei Curdi, delle tribù militari e dei Kadjars avevano radunato i loro cavalieri, i quali altro non chiedevano che di precipitarsi sulle truppe del Masenderan, che dovevano essere in marcia verso la capitale. Inebbriati dalla prima vittoria, elettrizzati dall’ardita figura del giovane sciàh di cui avevano ormai abbracciata con entusiasmo la causa, erano pronti a guadagnare la seconda battaglia ed a fiaccare per sempre la baldanza dell’usurpatore.

Quando videro giungere il giovane sovrano, seguito dal suo fedele Mirza, dal begler-beg e da Harum, che guidava i prodi montanari, un urlo immenso echeggiò tra le file di quei milleduecento cavalieri:

— Viva lo sciàh!... Morte a Mehemet!...

Nadir, Mirza ed i capi tribù tennero un breve consiglio, per scegliere la via che doveano prendere. S’accordarono per dirigersi verso la catena degli Elbours, monti che dividono la provincia di Teheran da quella di Masenderan.

Il begler-beg sapeva che fra quelle gole si trovava un kala-i-espid, ossia una fortezza inaccessibile, che un tempo era stata sua, e riteneva, con maggior probabilità, che lo sciàh si fosse diretto lassù, per attendere le truppe.

Nadir, senza perdere tempo, diede il segnale della partenza, e gli squadroni curdi, kadjars e delle tribù militari e quello dei montanari partirono, ventre a terra, attraverso la pianura di Sultanièh. [p. 200 modifica]

I cavalli, anche senza essere eccitati, resistevano meravigliosamente a quel rapido galoppo. Abituati alle corse sfrenate per le pianure sabbiose e per i deserti, erano capaci di prolungarlo fino all’alba, senza un momento di sosta e senza un sorso d’acqua nè un filo d’erba, essendo d’una sobrietà a tutta prova.

Nessun popolo, nemmeno l’arabo, ha tanta cura dei cavalli come il persiano. Con pazienza inaudita a poco a poco abituano i destrieri a sopportare delle marce lunghissime e dei digiuni incredibili.

Specialmente gli Usbechi, i Farsistani ed i soldati dell’Irak-Adjemi, del Korassan e dell’Aderbidjan li sottopongono a delle prove, che spesso li uccidono. Per mantenerli magri, acciocchè non scemi la loro velocità, e per mantenerli sobri, diminuiscono gradatamente il loro nutrimento al punto di non dare a loro che un pugno d’orzo al giorno, e di tenerli digiuni ventiquattro ore senza che ne soffrano. In tal modo ottengono dei cavalli che possono percorrere sessanta e talvolta perfino ottanta miglia, senza che si arrestino per riposare e per mangiare.

Procedendo con quella rapidità, alle due del mattino i milletrecento cavalieri che seguivano Nadir, avevano già attraversato la pianura di Sultanièh, che si estende dalla capitale persiana ai piedi della catena degli Elbours.

La imponente linea di montagne ormai stava dinanzi a loro. Se i fuggiaschi non l’avevano già varcata scendendo nei piani che corrono verso il Mar Caspio, potevano sperare di raggiungerli prima della loro unione colle truppe del Mesenderan, che dovevano essere ancora assai lontane.

Prima di avventurarsi fra i monti, i khan mandarono alcuni Curdi, che sono valenti nello scoprire le tracce, affinchè cercassero quelle dei fuggiaschi. Quell’esplorazione diede dei risultati insperati, poichè i cavalieri poco dopo ritornavano, per riferire che attraverso ad una gola avevano scoperto le orme recenti di una truppa di sessanta cavalieri.

— Le mie previsioni non si sono ingannate — disse il begler-beg. — Quella gola conduce al kala-i-espid, e noi li sorprenderemo prima che raggiungano le truppe del Mesenderan.

— Ah! Potessi riavere la mia adorata fanciulla! — disse Nadir.

— Non ci sfuggono più, Nadir — disse Mirza. — Renderemo noi all’usurpatore pane per focaccia: egli ci ha assaliti nel nostro castello e noi assaliremo lui nel suo. [p. 203 modifica]

— Avanti, miei fedeli! — gridò Nadir. — L’alba di domani saluterà un’altra vittoria.

I cavalieri ruppero gli squadroni, essendo stretta e malagevole la via che conduceva sulle cime della gran catena, e si spinsero dietro al giovane sovrano ed al begler-beg, che indicava i passi.

Quelle montagne erano aspre e selvagge quanto il Demavend. Profonde gole, che le tenebre rendevano oscurissime, fendevano i loro fianchi, e cupe foreste s’arrampicavano su per le loro balze. Ma i cavalieri del giovane sciàh procedevano con passo sicuro e rapidamente, ansiosi di giungere sotto le mura della fortezza.

Di passo in passo che saliva, Nadir si sentiva il cuore battere forte forte e provava una sensazione strana, analoga a quella che aveva provato quando per la prima volta avea veduto la dolce fanciulla de’ suoi sogni. Una voce interna gli diceva che per quei sentieri era passata la fidanzata, e che si trovava lassù, fra le vette di quelle montagne.

Una forza misteriosa, irresistibile lo spingeva verso quelle cime, ed esso aizzava il destriero perchè affrettasse il passo. Di quando in quando si volgeva verso il begler-beg e gli chiedeva con voce tremula:

— E’ lontano ancora?

— Più su, più su — rispondeva il governatore.

— Temo di giungere troppo tardi.

— Giungeremo a tempo, mio signore.

Alle tre del mattino, dopo d’aver superata una cresta boscosa, l’avanguardia, che procedeva in silenzio, giungeva dinanzi ad una spianata, in mezzo alla quale giganteggiava una massiccia costruzione. Era una specie di castello, circondato da un’alta cinta difesa da un largo fossato, e formato di sette enormi torri e di un alto caseggiato che terminava in una specie di cupola.

— Il kala-i-espid! — disse il begler-beg a Nadir. — Lo sciàh è nostro!

— È solida la rocca?

— Inaccessibile, ma noi vi entreremo — disse il begler-beg con un sorriso misterioso.

— In qual modo?

— Questo kala-i-espid, un tempo apparteneva alla mia famiglia, ed a me è noto un passaggio segreto, che forse lo stesso sciàh ignora.

— Ma sarà giunto lo sciàh? [p. 204 modifica]

— Vedo delle ombre passeggiare fra i merli delle torri, e se lassù vegliano, ciò dimostra che lo sciàh è qui.

— Che siano giunte le truppe del Masenderan?

— Sarebbero accampate su questo altipiano.

— Guidami al passaggio segreto.

— Un momento, mio signore. Date ordine che i cavalieri circondino il castello, celandosi sotto i boschi, per impedire la fuga ai nemici. Qui lo sciàh usurpatore è venuto e qui morrà!

I khan furono tosto avvertiti. I milletrecento cavalieri, che stavano per raggiungere l’altipiano, tosto si divisero, e, piegando a destra ed a sinistra, occuparono le boscaglie, attorniando completamente la rocca.

Quando il begler-beg seppe che più nessuna persona poteva uscire dalla fortezza, scese da cavallo, e s’inoltrò, strisciando fra gli sterpi, verso il fossato. Nadir, Mirza, Harum, due khan e venti montanari lo seguivano in silenzio.

Dalla rocca non veniva alcun rumore. Sulle alte torri, all’incerta luce degli astri, si vedevano però di tratto in tratto brillare i fucili delle sentinelle, e nel caseggiato alcune finestre erano debolmente illuminate.

Il begler-beg, giunto sull’orlo del fossato, si lasciò scivolare fino in fondo, poi seguì le massicce muraglie della rocca, finchè trovò una grande lastra di pietra, seminascosta da un rosaio selvatico.

Frugò tra le foglie, poi premette una sporgenza, e subito la lastra girò su se stessa, mostrando una stretta ed oscura apertura, appena capace di permettere il passaggio ad un uomo.

— Avanti — disse il begler-beg. — Fra pochi minuti saremo nel cuore della piazza.

— Dove mette questo passaggio? — chiese Nadir.

— In una stanza del castello.

— Che sia abitata?

— Lo ignoro, mio signore.

— Preparate le armi — disse Mirza, volgendosi verso i montanari.

— Siamo pronti — rispose Harum.

Ad uno ad uno i ventisei uomini entrarono e presero a salire una stretta scala, che pareva fosse stata costruita nello spessore delle enormi muraglie del forte. Il begler-beg, che conosceva la via, apriva il passo e procedeva senza esitazione, malgrado la fitta oscurità. [p. 205 modifica]

Saliti sessanta gradini, si arrestò un istante, tendendo gli orecchi, poi, rassicurato dal profondo silenzio che regnava in quella parte del castello, si avanzò in uno stretto corridoio e si fermò dinanzi ad un ostacolo che chiudeva il passo.

— Ci siamo — sussurrò a Nadir.

— Che cos’è quell’ostacolo?

— Basta premere il bottone che ho sottomano per farlo cadere. È il fondo d’un grande quadro.

— Odi nessun rumore?

Il begler-beg accostò un orecchio al quadro ed ascoltò con profonda attenzione, rattenendo il respiro.

— V’è qualcuno nelle stanze — disse poi con voce alterata.

— Che cosa hai udito?

— Come un lamento od un singhiozzo soffocato.

— Grande Allah! — mormorò Nadir. — Ho il cuore che mi si spezza!...

— Che vuoi dire, mio signore?

— Apri — disse Nadir.

— Ma verremo subito scoperti, signore.

— Abbiamo le nostre armi, ed ai primi spari i nostri cavalieri si slanceranno all’assalto. Apri, te lo comando!...

Il begler-beg non esitò più. Premette lentamente il bottone, l’ostacolo s’abbassò, scomparendo in una fessura, e dinanzi a Nadir apparve una vasta stanza con le pareti coperte di splendidi arazzi ed il pavimento di superbi tappeti. Era illuminata debolmente da una lampada dorata sospesa al soffitto.

I suoi occhi caddero su di una giovane donna semi-sdraiata sopra un divano e che teneva il viso celato colle mani.

Impallidì, poi un’onda di sangue gli affluì al capo, ed un rauco suono gli rumoreggiò in fondo alla gola.

Si slanciò con un salto nella stanza, e precipitandosi verso quella donna, esclamò:

— Fathima!... Guarda il tuo Nadir!...

La giovinetta sussultò, alzossi di scatto, guardando, gli occhi lagrimosi, l’amato giovane, ed emise un grido soffocato.

— Tu... qui!... — balbettò infine.

Poi vacillò, come se le forze improvvisamente le fossero mancate, ma Nadir la ricevette fra le braccia, stringendosela fortemente al petto: [p. 206 modifica]

— Qui, sul mio cuore, mio raggio di sole! — esclamò.

— Grande Hussein! — mormorò ella piangendo e ridendo ad un tempo. — Fa che non sia soltanto un dolce sogno.

— No, Fathima adorata, no, mio vago fiore di Teheran, non è un sogno: sei fra le braccia del tuo Nadir, che tanto ti ama e che ti ha tanto pianta!...

— Ma sei vivo ancora?

— Sì, Fathima, sono vivo, e tanto potente da far oggi tremare, con un solo gesto, la Persia intera.

— Ah! No, no! È un sogno! — esclamò ella. — Tanta felicità sarebbe troppa!...

— Sono il tuo leale Nadir, adorata fanciulla — disse il giovane sciàh.

— Ma come sei qui, mio valoroso Nadir? — chiese ella, aggrappandosi al suo collo. — Ma non ti hanno ucciso adunque, quella notte fatale che mi strapparono al tuo fianco? Ti ho veduto cadere... Ah!... Che orribil notte!... Ed ho veduto un uomo colpirti nel petto... Nadir!... Mio Nadir, non lasciarmi più... più!...

— No, non ti lascerò più, Fathima, e sarai mia e per sempre. I traditori sono stati uccisi o dispersi, ed oggi Teheran, la capitale della Persia, ed il palazzo reale sono miei.

— Teheran tua! — esclamò ella.

— Sì, Fathima, Teheran è nostra.

— Ma che hai fatto tu adunque?

— Ho pugnato ed ho vinto.

— Ma tu sei...?

— Non più il Re della Montagna, ma Nadir sciàh!

Ella si svincolò da lui esclamando:

— Il mio signore!...

— No, Fathima, il tuo fidanzato, e noi saliremo assieme sul trono di mio padre.

— Nadir!... È troppa gioia!...

Poi fece un gesto di spavento e il suo volto impallidì.

— Disgraziato!... — mormorò. — Ma non sai che qui vi è l’usurpatore?... Se ti sorprendesse?

— Non lo temo più — rispose Nadir con fierezza.

— Non sei solo?

— Là — disse il giovane sciàh indicandole l’apertura, — vi sono [p. 207 modifica]Mirza, Harum e ventitrè fidi amici, risoluti anche a farsi uccidere per me, e attorno al castello milleduecento cavalieri pronti a dare l’assalto.

— Ma all’alba le truppe del Masen-Deran saranno qui! — esclamò ella con angoscia.

— Giungeranno troppo tardi.

— Sono molte, Nadir. Si parla di diecimila uomini.

— Li disperderemo; e poi... all’alba l’usurpatore sarà morto.

Fathima lo prese per una mano e lo trasse verso la finestra. Ella gli additò l’orizzonte orientale, che si tingeva dei primi riflessi dell’aurora.

— Fra pochi minuti le truppe saranno qui — disse ella. — I corrieri del re, giunti ieri sera, le avevano incontrate a sedici miglia dai monti.

— Quando giungeranno, la rocca sarà in nostra mano. Una parola ancora, Fathima. L’adge si è compiuto?

— No, mio Nadir. Lo sciàh aspettava prima le truppe.

— Allah sia ringraziato. Domani tu sarai...

S’interruppe bruscamente, curvandosi innanzi come se ascoltasse.

— Qualcuno si avvicina — mormorò.

Aveva appena pronunciate queste parole, che la porta della stanza improvvisamente si aprì ed un uomo semi-vestito, tenendo in pugno una scimitarra la cui impugnatura scintillava come se fosse tutta coperta di diamanti, si precipitò verso Nadir, gridando:

— Ah! Traditore!

La giovinetta emise un urlo acuto.

— Lo sciàh! — esclamò.

Nadir, abbandonata la fanciulla, aveva estratto rapidamente il kandjar, tuonando:

— Assassino de’ miei genitori! Ti tengo finalmente!

Un uomo però, più rapido del lampo, si scagliò come una tigre fra i due rivali...

— Lo sciàh è mio! — gridò. Era Harum.

La sua destra, armata di un acuto pugnale, era scesa fulminea, e la lama penetrata intera nel cuore dell’usurpatore1.

[p. 201 modifica] — Lo sciah è mio! — gridò. Era Harum. (Pag. 207.)

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Lo sciàh rimase un momento ritto, poi stramazzò pesantemente al suolo, tenendo ancora infissa nel petto l’arma micidiale.

Il montanaro, volgendosi verso Nadir e tutti gli altri, che si erano slanciati nella stanza colle armi in pugno, disse:

— Quell’uomo voleva uccidermi col cannone; io l’ho ucciso col pugnale dei figli del Demavend. Lo sciàh è morto: viva Nadir sciàh!...

In quell’istante una scarica formidabile rimbombò nelle gole della montagna.

— Le truppe del Masen-Deran! — gridò Mirza.

— Salviamo i nostri cavalieri — disse Nadir. — Si aprano le porte del castello!...

I montanari, guidati da Harum, dal begler-beg e dai due khan, si slanciarono fuori dalla stanza, irrompendo nelle sale.

I principi del seguito dello sciàh e la piccola guarnigione, sorpresi da quel drappello di uomini che emetteva urla formidabili per farsi credere di essere in grosso numero, non opposero resistenza.

In un momento furono disarmati, legati, cacciati in una sala sotto la guardia di quattro montanari. Poi furono aperte le porte della rocca ed abbassati i ponti.

All’estremità dell’altipiano, i cavalieri, quantunque quasi dieci volte inferiori di numero, avevano impegnata coraggiosamente la lotta colle truppe del Masen-Deran, occupando fortemente tutte le gole.

Fu ordinata la ritirata, ed i milleduecento cavalieri si ritrassero nella rôcca, abbassando i ponti e barricando le porte, mentre il begler-beg faceva chiudere il passaggio segreto.

Le truppe del Masen-Deran, che credevano di essere state assalite da poche bande di predoni, non trovando più alcuna resistenza, superarono le alture e mossero verso la fortezza, ma trovando i ponti alzati, le porte chiuse e le torri e le alte muraglie gremite di difensori, si arrestarono sull’altipiano.

Un cavaliere splendidamente vestito e che portava le insegne di khan, si avanzò fin sotto le mura della rocca, gridando:

— Dov’è lo sciàh!... Io sono il comandante delle truppe del Masen-Deran.

Il begler-beg, che si trovava sul bastione assieme con Nadir, Mirza, Harum ed i khan, si curvò sul parapetto e con voce tuonante gridò:

— Lo sciàh usurpatore del trono di Luft-Alì è stato ucciso. [p. 211 modifica]Teheran ha salutato sciàh il legittimo successore, il prode Nadir. Chi non lo riconosce è nemico della capitale, e se non lo salutate, domani le tribù militari della pianura di Sultanieh, i Curdi ed i Kadjars vi daranno battaglia!...

Un profondo silenzio accolse le parole del begler-beg, ma ad un tratto le truppe, che si erano schierate in ordine di battaglia sull’altipiano, prese da un improvviso entusiasmo, gridarono ad una voce:

— Viva l’erede di Luft-Alì! Viva Nadir sciàh!...

Poco dopo i ponti venivano abbassati e le truppe del Masen-Deran, che non avevano cancellato ancora il ricordo del loro antico signore, vilmente assassinato da Mehemet, si unirono ai milleduecento cavalieri del giovane re.

Nadir, che dall’alto dei bastioni aveva udito le grida delle truppe, e che aveva veduto i propri fedeli abbracciare i camerati del Masen-Deran, si volse verso la giovinetta, che si appoggiava sul suo braccio, e, baciandola in volto, le disse:

— Sei mia, Fathima adorata: ti offro il mio cuore e metà del mio trono.

— Ed io la mia vita Nadir — diss’ella.

— Vieni, mio raggio di sole: fra giorni Teheran ti saluterà regina di Persia; ma tu sola, poichè il tuo Nadir non potrebbe amare nessun’altra donna.

[p. 209 modifica]— Vieni, mio raggio di sole: fra giorni Teheran ti saluterà regina della Persia. (Pag. 211.)

Note

  1. Storico.