Il romanzo della fanciulla/Telefoni di stato (Sezione femminile)

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Telefoni di stato (Sezione femminile)

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Telefoni di stato (Sezione femminile)
Per monaca

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TELEGRAFI DELLO STATO

(sezione femminile)

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I.



Come Maria Vitale schiuse il portoncino di casa, fu colpita dalla gelida brezza mattinale. Le rosee guancie pienotte impallidirono pel freddo; il corpo giovenilmente grassotto, rabbrividì nell’abituccio gramo di lanetta nera: ella si ammucchiò al collo e sul petto lo sciallino di lana azzurra, che fingeva di essere un paltoncino. Nella piazzetta dei Bianchi non passava alcuno: la bottega del fabbro era ancora chiusa, la tipografia del Pungolo era sbarrata: per i vicoli Montesanto, di Latilla, dei Pellegrini, dello Spirito Santo che sbucavano nella piazzetta, non compariva nessuno. Una nitida luce bigia si diffondeva sulle vecchie case, sui vetri bagnati di brina, sui chiassuoli sudici: e il cielo aveva la chiarezza fredda, la tinta metallica e finissima delle albe invernali. Allora Maria Vitale, mentre si avviava, sorpresa dal silenzio e dalla solitudine, fu côlta da una vaga inquietudine.

— Sono forse uscita troppo presto, — pensò.

Battè il piede in terra, pel dispetto. Non avevano orologio, in casa, e alle sette meno cinque minuti, [p. 8 modifica] ella si doveva trovare in ufficio. Così, alla mattina, cominciava il fastidio: la madre si destava prestissimo e dall’altra stanza la chiamava:

— Mariè?

— Mammà?

— Alzati, che è ora. —

Ella si riaddormentava, col buon sonno delle fanciulle sane e tranquille. Dopo cinque minuti, la madre la chiamava di nuovo, a voce più alta.

— Ho inteso, mammà, ho inteso: mi sto alzando. —

Ma poichè il sonno riabbatteva sul lettuccio quella fanciullona robusta, la madre taceva, vinta: e interveniva il padre, l’ebanista, con la sua grossa voce:

— Mariettella, alzati: se no, paghi la multa. —

Ella, allora si decideva, si buttava giù di un colpo, sbadigliando, non osando voltarsi al letto, per timore di ricadervi accanto alla sorella Serafina: camminava piano, in camicia e gonnella, per non isvegliare i due fratellini, Carluccio e Gennarino, che dormivano nella stessa stanza, dietro una tenda. Andava a lavarsi la faccia in cucina: invece del caffè, che non si usava in casa, mangiava un frutto avanzato alla cena della sera prima e un pezzo di pane stantìo: si vestiva presto. Malgrado questa sua premura, quattro o cinque volte era giunta in ufficio dopo le sette, perchè non aveva l’orologio; la direttrice aveva segnato questo ritardo sul registro e Maria Vitale aveva pagato una lira di multa. Accadeva che dalle novanta lire di mesata, tra le sei che se ne prendeva il Governo per la ricchezza mobile e altre due o tre che se ne pagavano per le multe, si scendesse a ottanta, come niente. Così, [p. 9 modifica] ogni mattina, ella era presa da una gran tremarella: e talvolta usciva troppo presto.

— Che ora sarà? — pensava Maria Vitale, contristata dall’idea che fosse prestissimo.

Nel vicolo dei Bianchi, per dove si va a Toledo, incontrò il caffettiere ambulante, che portava in giro il suo fornelletto con le cogome sepolte nella cenere calda e tre o quattro tazzine infilate alle dita.

— Galante, che ora sarà? — domandò ella.

— Sono le cinque e mezza, signorina mia. Lo pigliate un tocchetto?

— Grazie: non ne prendo. —

Un’ora, ci voleva un’ora, ella era uscita un’ora prima. Se ne andava, con le lagrime agli occhi pel dispiacere, pensando a quel buon tempo di sonno che aveva perso: un dolore ingenuo, puerile, le saliva dal cuore alle labbra, come se le avessero fatto, una grande ingiustizia, come quando, piccoletta, la battevano per una colpa non sua. Che avrebbe fatto, in quell’ora? Oh come sarebbe volentieri tornata a casa, a ricacciarsi nel suo lettuccio caldo, con la guancia affondata nel cuscino e le braccia piegate alla vita! Era inutile, oramai: era uscita troppo presto, non avrebbe mai ritrovato quella bella ora di sonno perduta. Dove andare? Il venticello gelido la infastidiva, mandandole in faccia la polvere di via Toledo, non ancora spazzata: non poteva passeggiare a quell’ora, sola, come una pazza, fra i venditori di frutta che scendevano dai giardini alle vie centrali di Napoli, e fra i carri dello spazzamento che trabalzavano cupamente sul selciato. Andar a prender Assunta Capparelli che abitava ai [p. 10 modifica] Ventaglieli? Assunta era di servizio nel pomeriggio, quel giorno non aveva obbligo di levarsi presto: certo, felice, lei dormiva profondamente. Andare a prendere Caterina Borrelli, che abitava alla Pignasecca? Che! Caterina Borrelli era una dormigliona impeninente, che si alzava alle sette meno un quarto, si vestiva in sei minuti e arrivava all’ufficio correndo, ridendo, sbadigliando, col cappello di traverso, la treccia che si disfaceva, la cravatta a rovescio, e rispondeva vivamente all’appello: «presente!» Tutte, tutte dormivano ancora, le fortunate. Un’amarezza si diffondeva nella buona anima di Maria Vitale: le pareva di esser sola sola, nel vasto mondo, condannata a dormire scarsamente, condannata ad aver sempre freddo e sonno, mentre tutte le altre dormivano, al caldo, nella felicità intensa e profonda del riposo. E l’amarezza era anche senso di abbandono, disgusto della miseria, dolore infantile: chinando il capo come a rassegnazione, entrò nella chiesa dello Spirito Santo, macchinalmente, per rifugio, per conforto.

Subito, quella penombra sacra, quell’aria molle e umida, non fredda, la calmarono. Sedette in uno dei banchi di legno dipinto, quello dei poveri che non hanno il soldo per la sedia di paglia, e appoggiò il capo alla spalliera del banco che aveva innanzi. Ora pregava quietamente, dicendo un Gloria, tre Pater, tre Ave, tre Requiem, come è prescritto, quando si entra a caso in chiesa e non vi sono funzioni sacre. Poi raccomandò a Dio l’anima della nonna che era morta l’anno prima, la salute di sua mammà, di suo papà: nominava i fratelli, le sorelle, il compare, i superiori, i viaggiatori [p. 11 modifica] sul mare in tempesta, le anime abbandonate. Per sè non chiedeva nulla: in quel torpore fisico, non provava nessun desiderio spirituale e personale: nulla le si precisava, come bisogno, nell’anima. Solo, confusamente, avrebbe voluto pregare la Madonna che la lasciasse dormire, al mattino, sino alle nove: bella felicità, che non aveva mai goduta. Sentiva solo un sonno tenace scenderle sul capo e dalla nuca diffondersi lentamente per il corpo: dormiva, con la faccia tra le mani, il cappello venuto giù sulla fronte, con le gambe immobili e il busto penosamente inchinato: dormendo, udiva lo scaccino andare e venire, scostare le sedie, spazzare il pavimento marmoreo. A un tratto una voce le mormorò nell’orecchio:

— Vitale? Dormi o piangi?

— Ecco, mammà, — borbottò Maria, svegliandosi.

Giulietta Scarano, una fanciulla dai bei capelli castani, dalla testina piccola sopra un corpo graddo, dagli occhi chiari e sempre estatici, sorrideva mitemente, accanto a lei, guardando l’altare maggiore, dove lo Spirito Santo risplendeva in una raggiera d’oro.

— Mi sono addormentata: hai anche sbagliata l’ora, tu?

— No: esco presto, perchè devo venire a piedi, da Capodimonte. Entro sempre in chiesa, passando.

— Andiamo?

— Sì, sì: è ora. —

Si avviarono, Maria Vitale, tutta indolenzita, con un gran freddo addosso e un formicolìo nelle gambe: Giulia Scarano camminando come una sonnambula, senza parlare. [p. 12 modifica]

— Che hai? — chiese Maria.

— Niente, — disse l’altra, con la malinconìa di una voce giovanile, che i singhiozzi hanno velato.

— Sempre Mimì, eh? — insistette Maria, con la sua aria saggia e compassionevole di donnina invulnerabile.

— Sempre.

— Ci perderai la salute, Scarano.

— Così fosse!

— Non dir queste brutte parole. Oh che cattiva cosa è l’amore! Io non ho mai voluto fare all’amore, per questo.

— Già: si dice sempre così, quando non si vuol bene a nessuno. È che Mimi è ammalato, io non posso vederlo e mi sento morire, — scoppiò a dire l’altra, non potendone più.

— Oh poverello, poverello! speriamo che non sia niente, — mormorò Maria, che si contristava subito.

Scendendo per la via di Monteoliveto, erano giunte presso la fontana, Giulietta Scarano assorbita nella desolazione della sua idea amorosa. Maria Vitale crollando il capo sulle miserie umane. Ecco, ella non era una testa forte come Caterina Borrelli, che scriveva continuamente un romanzo in un suo quaderno, grosso grosso: ella non sapeva fare i versi come Pasqualina Morra; ma capiva che l’amore è un grande tormento.

— Non posso vederlo... — ripeteva ancora Giulia Scarano.

— Scrivigli una letterina.

— Gliene ho scritte tre, di quattro foglietti l’una, da ieri, ma non so come mandargliele: mammà ha [p. 13 modifica] cacciato Carolina, la serva che mi voleva bene e mi aiutava....

— Impostale.

— Non ho soldi pei francobolli: e mi vergogno di mandarle senza. Chissà, Galante, la nostra inserviente, potrebbe aiutarmi.... —

Erano innanzi al palazzo Gravina: severo palazzo bigio, di vecchio travertino, di architettura molto austera. Pareva, ed era, molto antico: certo aveva visto succedersi, dietro le sue muraglie profonde, casi lieti e casi truci, feste di amore e congiure di ambizione, dolci affetti umani e feroci passioni umane. Ora le sue stanze terrene, sbarrate ermeticamente sulla via, si aprivano al pubblico, sotto il portico, nell’interno del cortile e servivano da uffici postali: intorno ai suoi finestroni larghi e alti, sugli spigoli dei suoi muri oscuri, era una fioritura verticale di funghi bianchi, gli isolatori telegrafici di porcellana, da cui partivan tutti quei fili sottilissimi, dieci, dodici da una parte, tre da un’altra, quattro o cinque da una terza, trama leggera che si stende sul mondo. Sul balcone centrale, dietro il largo scudo di metallo, dove si legge: Telegrafi dello Stato, un uomo fumava, appoggiato all’inferriata, guardando il cielo mattinale.

— Chi è, quello? — chiese Maria Vitale.

— È Ignazio Montanaro: sarà stato di servizio questa notte. —

Per il largo scalone, Cristina Juliano le raggiunse, le salutò, senza fermarsi. Sembrava un brutto uomo, vestito da donna, col suo grande corpo sconquassato, troppo largo di spalle, troppo lungo di busto, senza [p. 14 modifica] fianchi, con le mani grandi, i polsi nodosi e i piedi enormi. Portava ancora il cappello di paglia bianca, dell’estate, abbassato sulla fronte per mitigare lo spavento che produceva il suo occhio guercio, bianco, pauroso: e per scoprire la dovizia meravigliosa di due treccioni neri, una ricchezza strabocchevole di capelli, che le tiravano la testa indietro, pel peso.

— È inutile, questa Juliano mi è antipatica, — disse la Vitale.

— Non è cattiva, però, — rispose la Scarano, con la mitezza delle anime innamorate.

Sul pianerottolo le raggiunse Adelina Markò e si unì a loro.

— Che freddo! — disse ella colla voce molle e seducente.

Si lisciava, con la punta delle dita, i capelli biondissimi ondulati, che il vento aveva scomposti; ma il vento aveva reso più vivida la bella bocca dalle labbra delicatamente rialzate agli angoli, aveva colorito piacevolmente quella fine carnagione dorata di bionda. La leggiadra e flessuosa persona diciottenne era ben riparata in un vestito caldo ed elegante di panno verde cupo. Una piuma bianca volitante sul cappello di feltro verde, le dava un aspetto di amazzone giovanile, una figura di fanciulla inglese, aristocratica, pronta per montare a cavallo. Non era povera né popolana, Adelina Markò: era una delle due o tre felici signorine che lavoravano solo per farsi i vestiti, per comperare la biancheria del corredo. Quando entrava in ufficio, Adelina Markò, col suo sorriso benevolo, col suo passo ritmico, portando i suoi vestiti fini e ricchi, i suoi [p. 15 modifica] cappelli bizzarri, i suoi profumi squisiti, pareva una giovane duchessa che si degnasse visitare quella casa del lavoro, una infante reale benigna e umana, che si compiacesse passare una giornata fra le umili operaie del telegrafo.

Parlavano ancora del freddo, innanzi alla porta bianca su cui era scritto: Sezione Femminile. Venne ad aprire Gaetanina Galante, l’inserviente, mostrando il suo viso appuntito e olivastro di volpe maligna.

— È venuta la direttrice? — chiesero, quasi in coro, le tre ausiliarie, entrando.

— Ma che! è andata a messa, — rispose quella, sogghignando nella sua sfacciataggine di servetta viziata.

Respirarono. Era sempre meglio giunger prima della direttrice, per dimostrar zelo e amore all’ufficio. Come entravano in quell’anticamera tetra, la burocrazia avvinghiava l’anima di tutte quelle ragazze, il frasario di ufficio, sgrammaticato e convenzionale, fioriva sulle loro labbra. Quelle già arrivate, chi seduta, chi presso la finestra per avere un po’ di luce, parlavano già di linee, di guasti, d’ingombri sui circuiti diretti. Lo stanzone era cupo ed esse sbassavan la voce, per istinto. L’unica finestra dava sullo stretto vicolo dei Carrozzieri; l’oscurità dell’anticamera era aumentata dal grande armadione, diviso in tanti armadietti, dove le ausiliarie riponevano i cappelli, gli ombrellini, i mantelli: quelle più poverine, la colazione portata da casa: quelle meno povere, il ricamo o l’uncinetto: le più studiose o le più romantiche, i quaderni. In mezzo allo stanzone, un grande tavolino di mogano: a una parete un [p. 16 modifica] divano di tela russa: nessun altro mobile. Negli spazi liberi delle pareti, chiusi in sottili cornici di legno nere, senza cristallo, pendevano l’indice alfabetico delle ausiliarie e delle giornaliere, il regolamento interno, l’ultimo editto direttoriale, una carta geografica e telegrafica dell’Italia. Nessuno leggeva questi stampati polverosi e insudiciati dalle mosche: l’interesse di tutte era quel foglio di carta che circolava di mano in mano e che le destinava, per quel giorno, a una speciale linea. La direttrice, con la sua scrittura rotonda e tutta svolazzi, scriveva da una parte in colonna, il numero d’ordine che porta la linea, dirimpetto il nome dell’ausiliaria che doveva lavorarvi, in quel giorno, per sette ore. Appena entrate, tutte cercavano questo foglio, avidamente, mentre ancora si cavavano il cappello e si sbottonavano il paltoncino. E come vi erano linee buone e linee cattive, linee senza lavoro e linee con molto lavoro, linee dove ci vuole una pazienza infinita e linee dove è richiesta una sveltezza singolare, così le esclamazioni piovevano.

— È vero che sono una scema e che non so ricevere ancora bene, — mormorava Maria Vitale, — ma mettermi ogni due giorni a Castellamare, è insopportabile. Se faccio cinquanta telegrammi in sette ore, è un gran che: imparerò presto, a questo modo.

— E non ringrazi Dio? — le diceva Emma Torelli, una biondona alta e bianca, dalla forte pronunzia piemontese, — io vorrei non saper ricevere, come te. Oggi mi hanno dato Salerno, quella linea indiavolata: è sabato e vi saranno i biglietti del lotto che i salernitani giuocano a Napoli. Centottanta dispacci, come [p. 17 modifica] niente! Ho l’emicrania, io: vedrai che lite, oggi, fra me e il corrispondente, se non ara diritto!

— Ma come le viene in mente alla direttrice, di consegnarmi Avellino? — esclamava Ida Torelli, la seconda sorella. — Io con quel vecchione del corrispondente, non posso lavorare: figurati, cara Markò, una mummia di settant’anni, che non può soffrire la sezione femminile. Lo chiamate, non risponde: dopo un’ora, vi chiama precipitosamente e vi fa una sfuriata. A ogni parola trasmessa, interrompe: a ogni dispaccio, chiede spiegazioni. È irascibile, cocciuto e insolente: una linea da crepare.

— Io sto con Genova, — rispondeva la Markò, con una voce che pareva un canto, — il che non è divertente. La linea è così lunga che la pila non basta mai: la corrente è variabilissima: ora forte forte, che unisce e confonde tutti i segni, ora tanto debole che i segni non arrivano. Chiami il corrispondente, non ti sente: ti chiama lui, non lo senti. Corrispondi per dieci minuti bene e respiri. Che! All’undecimo minuto la linea si guasta. I dispacci crescono: il ritardo è sempre di tre ore. —

Le più scontente erano le hughiste, le migliori ausiliarie che avevano imparato a lavorare sulla macchina stampante Hughes. Vi si lavora in due a questa macchina complicata, che pare un cembalo: e vi è bisogno di forza e di attenzione in ambedue le impiegate. Ora in queste coppie, la direttrice non univa mai due che fossero amiche, per impedire il soverchio chiacchiericcio; univa sempre una brava a una più debolina. Così queste coppie mancavano di simpatia fra loro: [p. 18 modifica] l’una disprezzava l’altra, e l’altra sentiva il disprezzo. Queste galeotte del lavoro non si lagnavano ad alta voce, per superbia; ma se ne stavano ognuna in un cantuccio, imbronciate, senza parlarsi e senza guardarsi. Maria Morra si ripassava la parte di Paolina nei Nostri buoni villici che doveva recitare, da filodrammatica, al teatro di San Ferdinando; la sua compagna, Sofia Magliano, una brunetta, dal lungo viso caprino, covava il dispetto, lavorando a una sua stella, all’uncinetto; Serafina Casale, piccola, fredda, orgogliosa, pallida e taciturna, prendeva del citrato di ferro dentro un’ostia, per guarire dall’anemia che la minava; e Annina Pescara aveva la bella faccia rotonda tutta conturbata dall’idea di dover lavorare con quella noiosa di Serafina Casale.

In un angolo scuro, Giulietta Scarano pregava e supplicava l’inserviente, Gaetanina Galante, che le facesse questo favore, per amore della Madonna, che mandasse per qualcuno la lettera a Mimì. La Galante diceva di no, protestando che di codesti affari non si voleva più mischiare, che aveva avuti troppi dispiaceri, che le ausiliarie erano tante sconoscenti, che lei, l’inserviente, valeva molto meglio di tante che portavano superbia, perchè erano impiegate alle macchine e poi dovevano umiliarsi a lei, per ogni genere di favori. Giulietta Scarano impallidiva, le tremava la voce innanzi a quella serva che la torturava, con un rifiuto villano, affogato in un profluvio di trivialità: giunse sino a prenderle la mano, raccomandandosi.

A un tratto, sulle voci irose, lamentose e strascicate nella noia, sugli sfoghi dei rancori amorosi e di [p. 19 modifica] invidie di uffizio, un zittìo passò: entrava la direttrice. Subito, in coro, a voci digradanti, più basse, più alte, acute, lente, frettolose o in ritardo, queste parole si udirono:

— Buon giorno, direttrice. —

Ella salutava col capo, con un sorriso amabile sulle labbra di rosa morta. I fini capelli di un biondo cinereo erano tirati indietro, precisamente, non uno fuori di posto: tutto il volto aveva la grassezza molle, il pallore di avorio delle zitelle trentenni, vissute in monastero o in educandato, in una castità naturale di temperamento e di fantasia. In verità, ella aveva qualche cosa di claustrale in tutto; nel vestito di casimiro nero, nel goletto bianco, nella cautela del passo, nella bassezza della voce, nella morbidezza delle mani che pareva si dovessero congiungere solo per la preghiera, nella limpidezza inespressiva degli occhi bigi, in certi reclinamenti del capo, per pensare. Ella toglieva i guanti e il mantello, chetamente, e guardava le ragazze, osservando che Ida Torelli non aveva il busto, al solito, che Peppina De Notaris portava un anello al dito mignolo, che Olimpia Faraone portava troppa veloutine sul viso. Le ausiliarie si davano un contegno disinvolto, ma si sentivano sotto quello sguardo freddo e l’imbarazzo le vinceva. Ella entrò nel salone delle macchine e si sedette al suo posto, dietro la scrivania, scrivendo in certi suoi registri, pian piano, con la testa inclinata, come si farebbe il compito di scuola.

— Burrasca, in direzione, — disse Caterina Borrelli, rialzandosi le lenti sul naso rincagnato.

Le ausiliarie si trattenevano ancora in anticamera, [p. 20 modifica] visto che mancavano cinque minuti alle sette: ogni minuto squillava il campanello elettrico, qualcuno sopraggiungeva. Era Peppina Sanna, una magrolina, snella, tutta inglese, col vestito a quadrettini bianchi e neri, con gli stivaletti a punta quadrata e senza tacco, col grande velo azzurro che le avvolgeva il cappello e la testa, con un ombrello da pioggia, un sacchetto di pelle nera e un volume dell’edizione Tauchnitz sempre sotto il braccio. Era Maria Immacolata Concetta Santaniello, una fanciullona bianca, grassa e grossa che ondeggiava, camminando, come un’oca, di cui tutti si burlavano, che era piena di scrupoli religiosi, e prima di trasmettere un telegramma, invocava il nome di Gesù e Maria. Era Annina Caracciolo, brunissima coi capelli neri e ricciuti, la bocca rossa e schiusa come un garofano, gli occhioni languidi, l’andatura indolente di una creola: impiegata svogliata, che nessun rimprovero e nessuna emulazione poteva risvegliare. Si parlottava, in un gruppo di due o tre, sogguardando verso la direttrice che scriveva sempre, con la sua posa composta di alunna calligrafa; appena ella udiva una voce troppo forte, o una risata troppo alta, levava il capo e faceva:

— Pss! —

Poi, uno squillo del timbro e la voce liquida della direttrice:

— Signorine, in ufficio. —

In silenzio, esse sfilarono avanti alla sua scrivania e si diressero alle macchine. Nella piena luce del salone, rischiarato da tre finestre, si vedevano le facce [p. 21 modifica] assonnate di quelle che avevano troppo poco dormito, le faccie smorte di quelle colpite dal freddo, le faccie scialbe di quelle malaticcie; e da tutte si diffondeva un senso di pacata rassegnazione, di noia indifferente, di apatia quasi serena. Cominciavano la loro giornata di lavoro, senza ridere, tutte occupate meccanicamente in quei primi apparecchi: curve sulle macchine, chi svitava il coltellino d’acciaio che imprime i segni, chi metteva un rotolo nuovo di carta, chi bagnava d’inchiostro, con un pennello, il cuscinettino girante, chi provava la elasticità del tasto. Poi, nella quiete mattinale, principiò il ticchettìo dei tasti sulle incudinette, e ogni tanto, queste frasi suonavano monotonamente:

— Direttrice, Caserta non risponde.

— Direttrice, si va bene con Aquila.

— Direttrice, al solito, Genova chiede un rinforzo di pila.

— Direttrice, Benevento vuol sapere l’ora precisa.

— Direttrice, Otranto ha un dispaccio di quattrocento parole, in inglese.

— Direttrice, Salerno dice che vi è guasto sulla linea di Potenza. —

Il sole d’inverno, ora, entrava in ufficio. Nessuna levava la testa, a guardarne, sui vetri, la striscia sottile. [p. 22 modifica]

II.

A un tratto, nella taciturnità delle macchine che pareva dormissero, in quel riposo festivo pomeridiano, una lieve chiamata telegrafica s’intese. Nessuno la udì: le poche ausiliarie, malinconicamente condannate a venire in ufficio, dalle due e mezzo alle nove della sera, di Natale, facevano altro. Maria Concetta Immacolata Santaniello, con le mani in grembo, nascoste sotto il grembiale di ufficio, diceva silenziosamente il rosario; Pasqualina Morra, la poetessa, leggeva un volumettino di versi di Pietro Paolo Parzanese, libro permesso dalla direttrice; Giulietta Scarano scriveva, rapidamente, sopra un foglio di carta da telegrammi; Adelina Markò con le mani ficcate nel manicotto, una piccola pelliccia al collo, sonnecchiava; Annina Caracciolo, la indolente, guardava in aria, col suo contegno di distrazione che le risparmiava il lavoro; e le altre, chi dormicchiava, chi chiacchierava sottovoce con la vicina, chi fingeva di non aver inteso, per non muoversi. Ma la chiamata risuonò, più viva: veniva da una macchina solitaria in un angolo di tavolino. Concetta Santaniello interruppe un mistero doloroso e disse, con un tono di orazione:

— Foggia chiama. —

Pure non si mosse; non rendeva servigio a nessuno e non si moveva mai, senza l’ordine della direttrice, [p. 23 modifica] con un egoismo placido di beghina scrupolosa. E come le chiamate si facevan sempre più precipitose, le ausiliarie, per dire qualche cosa, per interrompere quel noioso silenzio, per far chiasso, dissero ognuna:

— Foggia chiama, Foggia chiama. Foggia chiama, chi sta a Foggia, chi risponde a Foggia? –

— Zitto, zitto, eccomi qua, — disse Annina Pescara, entrando dall’anticamera e correndo alla macchina di Foggia. — È un bel seccante, Foggia! —

E si mise a ricevere, tenendo alta con due dita della mano sinistra la striscia di carta e scrivendo il telegramma che era per Napoli, sul foglio bianco. Dopo le prime parole, ella chiamò la sua indivisibile amica.

— Borrelli, vieni qua. —

La Borrelli piegò un giornaletto letterario che stava leggendo di nascosto, la Farfalla, se lo cacciò in tasca, si raddrizzò le lenti sul naso, con quel moto istintivo dei miopi e corse dalla sua amica. La Borrelli, ora, leggeva anch’essa sulla striscia di carta attentamente:

— Che imbecille! — esclamò, a un tratto.

— Scusa, mi pare che non sia un imbecille: vuol molto bene a questa sua innamorata; — rispose Annina Pescara, offesa nelle sue tendenze sentimentali.

— Sì, ma un uomo non si umilia così; — ribattè la Borrelli, facendo la dottoressa.

Il telegramma d’amore continuava, era di cinquantanove parole, veniva da Casacalenda ed era diretto a una Maria Talamo, in Napoli, alla Riviera di Chiaia. Era un telegramma dolcissimo: l’uomo effondeva il suo amore in quel giorno di festa familiare, dolendosi della solitudine che nulla veniva a confortare, [p. 24 modifica] desiderando una parola di affetto dalla persona amata, giurando che nulla lo avrebbe fatto desistere da questo amore, né la guerra degli uomini, né le avversità del destino, né il medesimo disprezzo di lei, donna adorata. Tutto questo era letto da Maria Morra che era accorsa anche lei, da Peppina Sanna che passando, si era fermata, da Caterina Borrelli e da Annina Pescara che riceveva sempre.

— Quanta rettorica! — esclamò la Borrelli.

— Questo telegramma viene da Casacalenda? — chiese la De Notaris, avvicinandosi.

— Sì, sì, — le fu risposto.

— Oh è il solito: ne giunge uno quasi ogni giorno: ne ho ricevuti anch’io.

— Questo è quel tale che si sdilinquisce sempre, — gridò Ida Torelli, dal suo posto, — aspetta, aspetta, che voglio leggere anche io. —

Erano aggruppate in dieci, attorno alla macchina di Foggia, Annina Pescara, tutta fiera, rizzava la piccola persona sulla poltroncina di tela e leggendo sulla zona, ripeteva ad alta voce, con tono solenne, quelle parole appassionate. Le ragazze stavano a sentire, tutte intente: Ida Torelli, la scettica, sogghignava: Caterina Borrelli, lo spirito forte, si stringeva nelle spalle, come seccata di tante sciocchezze. Ma le altre erano un po’ commosse da quella prosa telegrafica incandescente, e sottovoce già parlavano dei loro amori, più o meno sfortunati. Adelina Markò, la bellissima, aveva due o tre pretendenti, che ella non poteva soffrire e invece amava un alto impiegato telegrafico, vedovo con due figli, troppo vecchio per lei, che i suoi [p. 25 modifica] genitori non le avrebbero mai lasciato sposare: e si torturava per questo amore, non potendo nè parlargli, nè scrivergli mai. Peppina Sauna pensava al suo bell’ufficiale di marina, dai mustacchi biondi e dai capelli ricciuti, che navigava allora nelle acque del Giappone e che sarebbe ritornato solo fra due anni. Maria Morra, la filodrammatica, amava fedelmente, da cinque anni un impiegato che aspettava sempre un maggiore avanzamento per sposarla e che intanto si consolava, recitando, insieme con lei, la Celeste di Marenco e la farsa: Un bagno freddo. Annina Pescara, terminando di ricevere il dispaccio, pensava al suo studente di legge di secondo anno, che ne doveva studiare altri due per la laurea, altri tre per il diploma di procuratore e aspettare altri quattro o cinque per avere un po’ di clientela o il posto di pretore in qualche paesello della Basilicata. Questi umili, onesti, ferventi amori sgorgavano da quelle anime giovanili, in quel giorno di festa che dovevano passare in quello stanzone pieno di macchine, lontane dalle persone che amavano, lontane dai semplici piaceri famigliari. Ma, subito le discussioni cessarono. La direttrice era venuta dall’altra sala delle macchine, dov’era stata a conferire col capoturno della sezione maschile.

— Che è questo attruppamento, signorine? Ai posti, ai posti, non è permesso lasciare gli apparati!. Torelli, vedete: Napoli-Chiaia vi sta chiamando e voi siete qui a discorrere! — Sanna, avete finito di copiare quel registro che vi ho dato? — De Notaris, vi è un telegramma per Potenza, datelo. — Markò, anche voi imparate a lasciare il posto? Che smania di complottare! [p. 26 modifica]

— Direttrice, era un telegramma — disse Caterina Borrelli, con la sua improntitudine.

— Che telegramma? –

— E toltolo dinanzi ad Annina Pescara, la direttrice lo lesse. Le ausiliarie che erano ritornate, tutte umiliate ai loro posti, la guardavano per leggere sul suo viso monacale, l’impressione di quel telegramma amoroso. Ma ella non fece atto di nulla, e, voltate le spalle, andò a buttare il telegramma nella buca della porta, che divideva la sezione maschile dalla femminile. Ritornando, si fermò in mezzo alla stanza e disse severamente:

— Signorine, ho creduto sempre di esser qui a dirigere un ufficio di fanciulle serie, di impiegate solerti che dimentichino, in questo luogo, la storditaggine e l’imprudenza giovanile. Vedo di essermi ingannata, vedo che un nulla, una scempiaggine vi distrae, v’interessa, vi fa abbandonare il lavoro. Se non mettete giudizio, le cose andranno male. Ricordatevi, signorine, che con giuramento avete promesso di non rivelare il segreto telegrafico: il miglior mezzo, è di non interessarvi punto a quello che i privati scrivono nei dispacci. Siamo intese, per un’altra volta. —

Un silenzio profondo: nessuno osava rispondere. Ella aveva parlato lentamente e senza riscaldarsi, senza guardare in volto a nessuna, con gli occhi abbassati. Ella non era cattiva, ma sentiva moltissimo la sua responsabilità e tremava continuamente che la sua sezione sfigurasse innanzi ai superiori. Profondo silenzio, penoso: tutte pensavano, non riprendevano le loro occupazioni, come intorpidite. Solo il tasto della [p. 27 modifica] De Notaris strideva, trasmettendo a Potenza le parole del dispaccio.

E dopo:

— Che ore sono? — domandò la De Notaris.

— Le diciassette e trenta, — mormorò lieve lieve, Clemenza Achard, la sua vicina.

— Le diciassette e trentuno, — gridò Ida Torelli.

— Grazie, — disse la De Notaris, e segnò l’ora sul dispaccio trasmesso.

Cioè le cinque e mezza. Era notte da mezz’ora: eppure per arrivare alle nove, ci volevano altre tre ore e mezza. Erano state accese le fiammelle di gas, ma visto che non vi era lavoro, la direttrice aveva dato ordine che si abbassassero: il direttore predicava sempre l’economia del gas. Così in quella penombra, poco si poteva leggere e poco fare l’uncinetto: le ombre delle macchine si profilavano stranamente sui tavolini, con la loro ruota dove si svolgeva la carta, col piccolo braccio movibile di acciaio, con la chiave per dare la corda che pareva l’elsa a croce di una spada. Qualche punto lucido, qua e là: la campanella di vetro che proteggeva il piccolo parafulmine; il bottoncino di un tasto; gli orecchini di strass di Olimpia Faraone; gli spilloni di pastiglii nera, che Ida Torelli portava nei capelli biondi. Silenzio profondo: non potendo né scrivere, né leggere, né ricamare, le ragazze pensavano.

— Che voleva poi, Napoli-Chiaia, da voi, Torelli? — domandò la direttrice dal suo posto.

— Niente, direttrice: abbiamo scambiato un niente.

— Vi ha parlato, dopo?

— Sì: ha detto che era Natale e che si seccava. [p. 28 modifica]

— Spero che lo avrete messo al silenzio!

— Non gli ho risposto, direttrice.

— Va bene. —

La conversazione sulla linea, salvo affari urgenti di ufficio, era severamente proibita. Si era indulgente pei ritardi, per gli errori, per la incapacità; per la conversazione col corrispondente, non mai. Chi parlava e veniva sorpresa sul fatto era punita prima con l’ammonizione, poi con la censura, una pena gravissima; al corrispondente, si faceva una lettera risentita dalla Direzione, per avvisarlo che non vi ricadesse mai più. Eppure era questo il peccato più frequente, commesso con maggior gusto, perchè più pericoloso. Difatti anche in quel silenzio, in quella penombra, pianissimamente, Annina Pescara parlava col corrispondente di Foggia. Costili, dopo trasmesso il telegramma amoroso, aveva subito esclamato:

— Che moccoletto si regge noi, nevvero, signorina? —

E Annina Pescara aveva risposto subito che non le dispiaceva di reggere il moccolo, che l’amore era una bellissima cosa: il corrispondente aveva risposto che l’amore rende infelice tre quarti del genere umano. La discussione sentimentale ferveva sulla linea: Annina Pescara, che indovinava le parole del corrispondente, a udito, col semplicissimo rumore del coltellino che fa i segni, non aveva bisogno di lasciar correre la carta; poi, per non far udire le sue risposte in ufficio, dal rumore del tasto, aveva stretta moltissimo la vite del tasto, che così non faceva più chiasso. Immersa nell’ombra, con le spalle appoggiate alla poltroncina, ella parea dormisse, con una manina bianca allungata e [p. 29 modifica] immobile sul tasto: le sue amiche, le sue colleghe vedevano che ella parlava con Foggia, per averlo fatto altre volte anch’esse, altrove; ma chi avrebbe osato tradirla? Laggiù, anche Olimpia Faraone parlava con Reggio, come al solito: ma più imprudente, più inesperta, lasciava correre la carta, strappandola pezzo a pezzo e mettendosela in saccoccia: da venti giorni, ogni giorno parlava con quel corrispondente calabrese, che le aveva già scritto due lettere d’amore. I giorni di festa erano fatti apposta per la corrispondenza proibita: gli impiegati si seccavano nei loro uffici solitari, senza lavoro, e veniva loro voglia di chiacchierare; le ragazze si seccavano egualmente, e quel parlare con un ignoto, a tanta distanza, lusingava la loro fantasia. Questo accadeva chetamente; ma sul volto della peccatrice si leggeva la compiacenza dell’ingannuccio che commetteva.

— Pescara; — chiamò la direttrice.

— Direttrice? — trabalzò colei, spaventata, appoggiando la mano al tasto fortemente, per far tacere il corrispondente.

— Che, dormite?

— No, direttrice.

— Domandate a Foggia, se ha niente. —

Annina Pescara sorrise nell’ombra. Dopo un minuto, monotonamente:

— Direttrice, niente con Foggia. —

Ma Caterina Borrelli, che aveva sempre la malizia in risveglio, disse a Olimpia Faraone:

— Faraone, domanda anche tu a Reggio, se ha niente. — [p. 30 modifica]

E Faraone, tranquilla, con la voce strascicata:

— Si va bene con Reggio: non vi è niente. —

La direttrice non si accorgeva di nulla. Scriveva una lettera a una sua compagna di scuola, che ora faceva la maestra rurale, in un piccolo villaggio del Molise. Le augurava buon capodanno, ricordandole i bei tempi del convitto, dicendole che era contenta del suo posto: pure la lettera era malinconica. Anche su lei, povera donna, cadeva la stessa tristezza di tutte quelle fanciulle, riunite a far nulla in uno stanzone in penombra, innanzi a una macchina silenziosa, nel giorno sacro di Natale, mentre i parenti, i cari, gli amici erano riuniti a pranzo, a giuocar la tombola e si preparavano per un ballonzolo famigliare. Ella stessa che non aveva più nessuno, sola al mondo, era presa da una nostalgia della casa, delle persone amate. Levava la testa e guardava tutte quelle ragazze immobili, chi sonnecchiando, chi con la fronte fra le mani, chi discorrendo con la vicina a voce bassa, e non le sgridava più, sentendo la mestizia di quelle lunghe ore fredde scendere su quella gioventù: non le sgridava: le nasceva in cuore una pietà profonda di loro, di sé medesima.

Maria Vitale, starnutò due volte.

— Salute, — le disse, lieve lieve, la voce di Clemenza Achard.

— Grazie, — e si soffiò fortemente il naso, — sei qui tu? Neppure ti avevo visto. Non sei dell’altro turno?

— Ho dato il cambio a Serafina Casale, che preferiva venir di mattina essendo Natale.

— E ti sei sacrificata tu? [p. 31 modifica]

— Non è un sacrifizio. —

Era una soavissima creatura, magra, bruttina, gracile e timida, che poco sapeva lavorare e che restava sempre in silenzio, alle peggiori linee, dotata di una pazienza angelica, non lagnandosi mai, non alzando mai la voce, cercando di ecclissarsi quanto più poteva. Ella rendeva alle sue amiche una quantità di piccoli servigi, naturalmente: portava un disegno di tappezzeria per pianelle a una, un figurino di mode all’altra, un romanzo alla terza, un pezzo di musica alla quarta; si sedeva a una linea che andava male, in cambio della compagna nervosa che non ne poteva più; era sempre pronta a cambiar turno per una, a restar due o tre ore di più in servizio, per un’altra, a cedere financo il suo giorno di festa, che le toccava, ogni due mesi, a qualcuna che ne la pregava; ella prestava il suo ombrello e se ne andava sotto la pioggia a casa sua; prestava il suo scialle e tremava di freddo, andandosene. Tutto questo senza pompa, con una dolcezza silenziosa, con una naturalezza affettuosa tale, che le compagne finivano per non esserle più riconoscenti. Sapevano che bastava dire, per ottenere da lei qualunque di questi sacrifici:

— O Achard, te ne prego, fammi, fammi questo favore.... —

Ella non resisteva, diceva di sì, subito. Talvolta esse diventavano brutali con lei, che era molto educata. Infatti, Serafina Casale, il giorno prima le aveva detto; — Achard, te ne prego, lasciami venire di mattina, domani. È Natale, abbiamo gran pranzo in casa e dopo si va a teatro. Tu certamente non vai in nessun posto [p. 32 modifica] e del Natale non te ne importa niente: dammi il cambio. —

Ebbene, la mite creatura non aveva osato risponderle, che il Natale le importava molto e che da un mese pensava di andare al San Carlo, quella sera: e aveva fatto il favore, a chi glielo chiedeva con poca delicatezza. Quando la direttrice lo aveva saputo, aveva detto: — Povera Achard! abusano di voi. —

Così Clemenza Achard era lì, accanto a Maria Vitale, che aveva il naso rosso e lacrimava da un occhio pel forte raffreddore. Maria sfogava un malumore ingenuo, fisico e morale, perchè non poteva respirare e perchè doveva stare in ufficio di Natale.

— Figurati, cara Achard, che ho avuto appena il tempo di ascoltare le tre messe di Natale, alla chiesa dei Pellegrini, poi siamo andate con mammà, mia sorella e Gennarino, dalla comare, donna Carmela, che è panettiera e ha tanti denari. Ci ha dato il caffè: ma che caffè! mi pareva veleno: questo raffreddore non mi fa sentire più nessun sapore e poi il pensiero di dover venire in ufficio, alle due e mezza! Ho pranzato sola, all’una e mezza, sopra un angolo di tavola: un piattino di maccheroni ed un pezzetto di stufato; poi un mostacciuolo, che la comare mi aveva regalato. Tutta la famiglia mia avrà pranzato insieme, verso le tre, poi sono andati a teatro di giorno, al Fondo: si fa La figlia di madama Angot. Beati loro, che si divertono. Alle nove saranno già a casa e andranno a dormire, essi che hanno avuto la consolazione di godersi Natale.

— Se papà tuo ti viene a prendere alle nove, perchè non ti fai condurre a teatro? [p. 33 modifica]

— Sì! A quell’ora? Con tutta la buona volontà, sono così stanca, che ho un solo desiderio: dormire. O Achard, il lavoro mi è piaciuto sempre, anche per portare a casa quei quattrini, per sollevare papà che ha l’asma, dalla soverchia fatica, per confortare mammà che ha perso la salute coi figli; ma questa è una vita troppo dura. Quando tutti si godono la festa, noi in ufficio: il Padre Eterno si è riposato il settimo giorno, e noi non riposiamo mai. Se cadiamo ammalate e manchiamo all’ufficio, ci trattengono le giornate alla fine del mese, come non si fa colle serve; se manchiamo per volontà, non ci pagano e ci sgridano. Noi non sappiamo più che siano: Pasqua, Natale, Carnevale. Ci dànno le ottantaquattro lire, alla fine del mese? E tutto questo lavoro? Niente, niente, questa è la schiavitù.

— Perchè non hai fatto la maestra? — domandò l’Achard, dopo aver sospirato.

— Ero troppo stupida, — disse Maria chinando il capo, — facevo sempre degli errori di ortografia nel compito di lingua italiana e non capivo l’aritmetica.

— E che vuoi farci, allora? Pazienza ci vuole. O Natale o un altro giorno, non è la stessa cosa? Poi chi soffre per un dolore, chi per un altro.

— Anche tu, povera Achard, avrai dei guai. La matrigna ti tormenta?

— No, no, — disse quella subito, ma con voce tremante, — la matrigna è buona.

— Non hai un fratello militare?

— Sì, a Pavia.

— È venuto in permesso? [p. 34 modifica]

— Non ha potuto averlo.

— Avrà anche lui fatto il Natale solo, poverino. È per lui che ti dispiace? —

Clemenza Achard scosse il capo, come per dire di no, ma le lagrime le scendevano per le guancie, lente lente, senza singulti. Maria Vitale vedendola piangere, contristata per sè, per la compagna, affogata dal raffreddore, cominciò a singhiozzare fortemente.

— Che avete. Vitale? Perchè piangete? — domandò la direttrice.

— Niente, niente, — borbottò quella fra i singiozzi, lamentandosi, tossendo, soffiandosi il naso.

— Come, niente? Perchè piangete? Dite. —

Piango perchè ho il raffreddore, ecco, — fece l’altra, con un dispetto bambinesco.

— Fortunata te, che non hai altri motivi di piangere, — mormorò Giulietta Scarano.

— Sei una fanciullona, Vitale, — intervenne Annina Pescara, — respira dell’ammoniaca, per guarire.

— Ma che! È meglio una buona tazza di thé, — suggerì Peppina Sauna.

— Non dare ascolto, Vitale, — gridò Ida Torelli, — cacciati sotto le coperte e cerca di sudare questa notte: domattina, sarai guarita,

— Vitale, non far nulla di questo, figlia mia, — disse Caterina Borrelli, ridendo.

Vi fu un movimento in ufficio. Napoli Prefettura aveva comunicato una circolare all’Ufficio centrale, in cui si avvisavano tutti i prefetti e sottoprefetti del Regno di sequestrare il numero 358 del giornale La Spira, poiché il suo articolo intitolato il Monarcato che [p. 35 modifica] cominciava con le parole: sino a quando, e finiva con le parole: in un mare di sangue, conteneva voti contro l’attuale ordine di cose, insultava le istituzioni ed eccitava gli spiriti alla rivolta. Subito le fiammelle del gas furono rialzate, i tasti cominciarono a stridere. Campobasso, Avellino, Cassino, Pozzuoli, Castellamare, Salerno, Caserta, Benevento, Reggio, Catanzaro, Aquila, Foggia, Bari, Bologna, Genova, Venezia, Ancona, Cosenza, Casoria, Potenza, Sora, Otranto, furono pronti a ricevere la circolare del sequestro: per cinque o sei minuti l’ufficio si rianimò, un fracasso, di trasmissione si diffuse per le due stanze, come un giocondo rinascer di attività. Indi un minuto di pausa e di silenzio: quindi uno stridìo metallico dei coltellini, i corrispondenti che ripetevano tutti, a Napoli, il numero del telegramma, il titolo del giornale, il suo numero, il titolo dell’articolo, le parole con cui principiava e con cui finiva, insomma le cose più importanti, per evitare errori. Qualche voce domandò che ora fosse e fu risposto: ore diciannove. Le fiammelle furono riabbassate, le ausiliarie si distesero di nuovo nelle poltroncine, riprendendo il filo del loro discorso o dei loro pensieri. Il corrispondente di Catanzaro aveva subito detto a Maria Morra, dopo il telegramma del sequestro:

— Valeva la pena di scomodarci per così poco!

— Che, scherzate? Chissà che vi sarà in quell’articolo, — aveva risposto Maria Morra.

Discussero di politica: Maria Morra odiava i repubblicani, li chiamava straccioni, il corrispondente era socialista. Il corrispondente di Cassino aveva anche [p. 36 modifica] mandato al diavolo il telegramma, dicendo a Clemenza Achard, che per rispondere presto, aveva ingoiato di traverso un bicchierino di rosolio e che ora tossiva come un dannato. Clemenza Achard era tutta confusa, non osando intraprendere una conversazione proibita e temendo di sembrare ineducata al corrisponente, se non gli rispondeva. Non sapendo che fare, battè un colpettino sul tasto, un puntino solo, timido timido: e Cassino, visto che la conversazione non attecchiva, si tacque. In quel momento dalla piazza della Posta, dove già si udivano i primi scoppi di trictrac e delle bombe natalizie, salì alla Sezione Femminile un lungo, dolcissimo fischio. Peppina De Notaris, malgrado la sua presenza di spirito, arrossì nel suo delicato volto di bruna, e tutte le ausiliarie, più o meno, chi trasalì, chi sorrise. La sapevano tutte, quella appassionata leggenda dell’innamorato di Peppina De Notaris. Era un giovanotto bruno e sottile come lei, impiegato al municipio: adorava Peppina. Restava in ufficio fino alle cinque: e se ella era libera nel pomeriggio, andava da lei e vi restava fino alle sette, l’ora del suo pranzo: vi ritornava dopo pranzo, subito. Ma quando ella era di servizio nel pomeriggio, egli pranzava in fretta e si andava a ficcare nel piccolo caffè della Posta, dirimpetto al palazzo Gravina. Ogni mezz’ora fischiava lungamente, dolcemente, come a dire: «eccomi, sono qui, ti voglio bene». In quel piccolo caffè non vi era mai nessuno e l’innamorato di Peppina che vi restava tre o quattro ore, leggeva tutti i giornali, parlava col padrone, col cameriere, si era fatto amico con tutti. Di estate sedeva sulla porta e parlava coi conduttori [p. 37 modifica] dei trams, che aspettavano i passeggeri per partire per Posillipo. E, puntuale, non si dimenticava mai di fischiare, ogni mezz’ora, come per dire: «consolati, bella mia, io son qua, ti voglio bene, non ho il coraggio di andare a divertirmi, mentre tu lavori, io ti aspetto, abbi fede, abbi pazienza». La soave leggenda sentimentale circolava nella Sezione Femminile: e il fischio lo aspettavano tutte, come se fosse un interesse affettuoso proprio. Alle nove Peppina De Notaris era la prima ad andarsene, salutando in fretta: fuori trovava suo padre che l’aspettava per ricondurla a casa: ma giù, sotto i portici del cortile per non dare nell’occhio, l’innamorato passeggiava. Si scambiavano un buonasera, sottovoce: e se ne andavano in tre, discorrendo, piano, di quello che era avvenuto il giorno nella Sezione Femminile e nell’Ufficio municipale. Egli non mostrava né impazienza, né stanchezza per aver tanto atteso, in un caffè solitario, a non far nulla: ella lo guardava con una tenerezza infinita, senza ringraziarlo.

— Signorine — avvertì la direttrice, — non dormite, perchè a momenti sarà qui il direttore. —

Quelle che facevano l’uncinetto, lo riposero, avvolgendolo in un pezzetto di giornale: quelle che leggevano, chiusero i libri. Pasqualina Morra riportò il volumettino delle poesie di Parzanese alla direttrice, che glielo aveva prestato: ella era la prediletta, perchè non parlava, perchè non si muoveva dal suo posto e per aver pubblicato dei versi a una viola, in una strenna religiosa. Maria Immacolata Concetta Santaniello, detta la bizzocchella, per farsi merito, si mise a leggere la convenzione di Pietroburgo, per il servizio telegrafico [p. 38 modifica] internazionale. La prima a muoversi dal suo posto per andare dalla direttrice, fu Cristina Juliano.

— Direttrice, — disse ella piegandosi sulla scrivania e fissandola col suo occhio tondo, bianco e guercio, — ora che viene il direttore, ditegli che mi faccia andar via mezz’ora prima.

— E perchè?

— È Natale: e debbo andar a ballare.

— Andate a una festa? — chiese la direttrice guardando il vestito di lanetta bigia, poverissimo, e la sciarpa al collo scarno, di ciniglia rossa.

— Balliamo a casa mia, — rispose l’ausiliara, tutta superba, — siccome affittiamo stanze a certi studenti....

— Quando verrà il direttore, glielo dirò. —

Cristina Juliano tornò al suo posto, dimenando il lungo corpo mascolino. Venne la volta di Caterina Borrelli:

— Direttrice, ora che viene il direttore, ditegli che vorrei andar via mezz’ora prima.

— Anche voi ballate?

— Io debbo andare al Sannazaro, alla prima rappresentazione della Marini.

— Che si recita?

— La Messalina, di Cossa. —

La direttrice aggrottò le sopracciglia.

— .... glielo dirò, — soggiunse poi, con voce secca.

— Anche per Annina Pescara? Io non vado in nessuno posto, senza lei.

— Mi pare che ne vogliate troppo, Borrelli. —

Due o tre altre andarono a chiedere questa mezz’ora, miserabili trenta minuti implorati come una [p. 39 modifica] grazia. Adelina Markò andava al San Carlo; Olimpia Faraone andava a ballare anche lei. La direttrice prometteva di dirlo, d’intercedere: non poteva far altro; ma erano troppi i permessi. Tutte quelle che li avevano chiesti, ora, guardavano continuamente verso la porta donde soleva entrare il direttore. Era un piemontese severo, talvolta duro, che comandava alle telegrafiste come a un plotone di soldati, e la cui collera fredda e il rigore settentrionale, sgomentavano le più audaci. Egli pranzava, da vero allobrogo, al Wermouth di Torino in piazza Municipio, e dopo capitava sempre in ufficio, per il controllo serale: entrava sempre di sorpresa, arrivava alle spalle, non salutava che la direttrice e ronzando attorno ai tavolini delle macchine, vedeva tutti i ritardi, le disattenzioni, le trascuranze, le macchine insudiciate di inchiostro azzurro stampante, i tasti troppi alti, quelli troppo bassi, i registri mal tenuti, i fogli di carta telegrafica disordinati. A bassa voce guardando bene negli occhi l’ausiliaria, egli faceva in pochissime parole l’osservazione: l’ausiliaria chinava gli occhi, non rispondeva, cercava subito di riparare il proprio errore. Sulle prime, qualcuna aveva tentato scusarsi; ma egli girava sui tacchi, le voltava le spalle e tirava via, come se non avesse udito, non ammettendo, per principio, che si discutesse con lui. Di giorno, col sole, questo direttore pareva meno terribile; ma di sera, nella penombra, con quegli occhi nerissimi e fieri d’inquisitore, con quel suo ronzare fra le macchine, con quella voce cheta cheta, che non voleva risposta, con quel suo abbrancare improvviso del registro, del tasto, dei dispacci, fermi, egli aveva qualche cosa di [p. 40 modifica] fantastico, egli faceva terrore. Di giorno lo chiamavano il papa, per l’infallibilità; lo chiamavano mammone, che è lo spauracchio dei bimbi napoletani: ma di sera non lo chiamavano che il direttore, e queste quattro sillabe, soffiate più che dette, facevano agghiacciare il sangue. Ma giungevano sino a desiderare la sua presenza: almeno per guadagnare mezz’ora!

— Vedrai che questa sera il direttore non viene e noi schiatteremo qui, sino alle nove, — disse Caterina Borrelli ad Annina Pescara.

— Dove sarà, che non viene?

— Festeggierà il Natale, pranzando con la vicedirettrice.

— Borrelli, sei maligna.

— Che maligna? Si sposano: non lo sai? —

Annina Pescara confidò subito la notizia a Ida Torelli, la dicerìa circolò a voce sommessa. La discussione era: la vice-direttrice può conservare il suo posto, maritandosi? Le ausiliarie, secondo il regolamento, non potevano; ma il regolamento si estendeva alla direttrice e alla vice-direttrice? Chi opinava di sì, chi negava.

— Vedrete, vedrete che si marita e resta qui; — sostenne Olimpia Faraone. — Ci divertiremo assai, fra il marito e la moglie.

— Ma che? La vice-direttrice è un po’ nervosa, ma non è cattiva, lo sapete; — disse Peppina Sanna.

— È buona, è buona, — soggiunse Caterina Borrelli; — bisogna conoscerla bene, per apprezzarla; io sono stata nel suo turno e lo so.

— Ma non rimarrà qui, dopo il matrimonio, — [p. 41 modifica] disse Peppina De Notaris; — si farà un concorso, fra le migliori, per il posto di vice-direttrice. —

Chi, chi poteva riescire? Quale nuova volontà avrebbero dovuto subire? Serafina Casale, forse, superba, sdegnosa, prepotente? O se fosse riescita Adelina Markò, così bella, così gentile, quello sarebbe stato un piacere grande per tutte: ma ella non avrebbe accettato, doveva maritarsi, un giorno o l’altro, era una impiegata provvisoria, di passaggio. Caterina Borrelli? Svelta, intelligente, ma troppo vivace, troppo tumultuosa, faceva troppe satire contro i superiori, non l’avrebbero mai nominata. Pasqualina Morra, la poetessa? Troppo giovane, molle, floscia, senza energia, senza prestigio.

— Signorine, signorine, un po’ di silenzio. —

Erano le otto e un quarto: questa ultima ora, dalle otto alle nove, sembrava di una lunghezza interminabile. Quelle che avevano chiesto il permesso, erano prese da una esasperazione nervosa: il direttore non veniva, no, e avrebbero dovuto agonizzare sino alle nove.

— O direttrice, quando viene il direttore! — esclamò, con accento desolato, la Borrelli.

— Eccolo qua: vuole qualche cosa? — le chiese una voce, alle spalle.

La Borrelli, malgrado la sua improntitudine, rimase interdetta. Il direttore si arricciava il mustaccio, come aspettando, guardandola freddamente, con la dominazione tranquilla degli uomini che non subiscono la femminilità. [p. 42 modifica]

— .... nulla, grazie; — mormorò stupidamente la Borrelli.

Il direttore, come al solito, girava attorno ai tavolini, con una lentezza che faceva fremere d’impazienza quelle che volevano andar via prima: leggeva i registri, a lungo, come se li studiasse; leggeva l’ora di tutti i telegrammi fermi, per la chiusura festiva degli uffici. Markò, Borrelli, Juliano, Pescara, le altre, guardavano supplichevolmente la direttrice, quasi la implorassero di alzarsi dal suo posto, di raggiungere il direttore, di chiedergli quel benedetto permesso. Erano le otto e mezzo. La direttrice non capiva o fingeva di non capire: ella sapeva di non dover interrompere il direttore, nel suo controllo. Quei minuti che passavano, sembravano eterni. Ad un momento disperarono: il direttore aveva preso un telegramma di transito, alla linea di Terracina e se n’era andato verso la porta a tamburo della sezione maschile.

— Se ne va e non abbiamo il permesso, — pensavano.

Era un falso allarme: egli ritornò subito, e questa volta, andò direttamente alla scrivania della direttrice. Le parlava sottovoce, senza gestire, ma con una forza e una intensità che trapelavano: ella ascoltava, tutta intenta, con gli occhi abbassati, una mano bianchissima allungata sulla scrivania, l’altra che le reggeva la guancia: ogni tanto le palpebre le battevano, come se approvasse. Ella non rispondeva, però: ed egli seguitava a discorrere, energicamente, senza alzar la voce. Le ragazze che avevano chiesto il permesso fremevano, come se quell’ultimo quarto d’ora rappresentasse la [p. 43 modifica] loro salvazione. Ogni volta che la direttrice apriva la bocca, trasalivano: ma ella diceva due o tre parole, come se facesse una obbiezione, che il direttore subito ribatteva, ricominciando la sua perorazione. Alle otto e cinquanta, Caterina Borrelli, non potendone più, disse sottovoce:

— Al diavolo Galvani, Volta, la bottiglia di Leyda la pila di Danieli, il solfato di rame e la emancipazione della donna....

— Aquila dà la buona notte, — disse Adelina Markò, forte.

— Rispondetegli subito che va male il suo orologio, che mancano dieci minuti alle nove, che per sua regola non si permetta più di dare la buona notte, e che l’aspetti da Napoli, — ribattè il direttore.

Otto e cinquantacinque. Addosso a tutte quelle fanciulle era piombata la grande stanchezza finale, l’aridità di sette ore passate in ufficio, a compire un lavoro scarso e ingrato. Stavano immote, senza aver più neanche la forza di levarsi su, per andarsene: avevano intensamente desiderata quell’ora delle nove, si erano consumate in quel desiderio e adesso, esaurite, senza vibrazioni nervose, stracche morte dall’aspettazione, dall’ozio e dalle chiacchiere vane, non desideravano più niente. Quelle che dovevano ritirarsi a casa, pensavano alla cena e al letto, con un bisogno tutto animale di mangiare un boccone e di sdraiarsi: quelle che dovevano recarsi al teatro, a ballare sfinite, esauste, spezzate in tutte le giunture, non avevano più nessuna vanità, non provavano più nessun stimolo. [p. 44 modifica]

— Io resto qui sino a mezzanotte, — borbottò la Borrelli a Annina Pescara.

— E perchè?

— Per gusto.

— Napoli-Chiaia dà la buona notte.

— Mancano tre minuti alle nove: aspetti, — rispose il direttore, con una grande severità, questa volta.

Finalmente la voce liquida della direttrice:

— Ore ventuno: signorine date pure la consegna. —

Le telegrafiste sfilarono, a una a una, senza fretta salutando solo la direttrice, poiché il direttore non voleva essere salutato. Nell’anticamera, rischiarata da una vacillante fiammella di gas, innanzi agli armadietti aperti, esse s’infilavano i paltoncini, si avvolgevano al collo le sciarpe, mute, il viso concentrato e chiuso nella indifferenza, in un abbrutimento dello spirito. Olimpia Faraone, innanzi allo specchio di mezzo, con certi colpi di piumino, si metteva della cipria nei capelli biondi e le altre non la invidiavano, la guardavano un po’ meravigliate, che avesse ancora voglia di acconciarsi. Ma la sua civetteria, tutta languori, si compiaceva di quello stato di abbattimento. Adelina Markò aveva portato un corpetto di velluto nero, per indossarlo alla fine del servizio; ma, ora, il desiderio le era passato, e, tolte da un bicchiere d’acqua due camelie bianche, se le aggiustava sul petto, nella ricca cravatta di merletto: e tutta la bella persona, dalle dita molli e fiacche, che non giungevano a conficcare una spilla al leggiadro collo biondo e flessuoso, indicava una stanchezza infinita. Esse uscivano di là, salutandosi fiocamente, senza baciarsi, come istupidite, con la [p. 45 modifica] faccia rilasciata nella fatica: fuori le madri, i padri, i fratelli le aspettavano per ricondurle a casa.

— Che è? — chiedeva la madre di Giulietta Scarano alla figliuola,

— Niente, mammà.

— Ti senti male?

— No: sono stanca. —

Maria Vitale se ne andava, col padre, tutta incapucciata nella mantiglia che le aveva prestata Clemenza Achard: Maria Vitale piegava la testa sotto il peso plumbeo del raffreddore e respirava profondamente, per vincere l’oppressione del petto. Le ausiliarie si allontanavano per le vie della Posta, di Monteoliveto, di Strada Nuova Monteoliveto, di Trinità Maggiore, strette nei paltoncini, ombre dileguantesi nell’ombra, un po’ curve, come se una improvvisa vecchiezza le avesse colpite.

III.

L’editto del direttore, in forma di lettera alla direttrice, diceva così: — che pel giorno di domenica, 8 aprile, erano indette le elezioni generali politiche e pel giorno di domenica, 15 aprile, le elezioni di ballottaggio: che in quelle due settimane, ma, specialmente sabato, domenica, lunedì, vi sarebbe stato un grandissimo affollamento di telegrammi, su tutte le linee, importanti e non importanti: che quindi si rivolgeva allo [p. 46 modifica] zelo delle ausiliarie, per sapere se volessero prestarsi a un servizio straordinario, di due, tre, quattro ore, oltre le sette del servizio ordinario: che tutte quelle che volessero dare questa prova di amore al lavoro, si firmassero sotto quella carta; che si lasciava, per questo, intiera libertà, non volendo obbligare nessuno. — Questo editto era stato letto in forma solenne, alle due e mezzo, innanzi tutte le ausiliarie riunite, presenti direttrice e vice-direttrice. Le fanciulle ascoltavano, trasognate, con la sensazione di un grosso colpo nella testa, incapaci di decidersi: vi era tempo due giorni. E il fermento di ribellione nacque subito, si sviluppò in ufficio, nella strada, nelle case. No, non volevano prestar servizio straordinario. Era una oppressione, un martirio anche quell’ordinario: farne dell’altro? Niente affatto. Perchè, per chi? Le trattavano come tante bestie da soma, con quei tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia: e invece, esse avevano quasi tutte il diploma di grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di seconda classe, che avevano duecentocinquanta lire il mese. Farsi un merito? Ma che, ma che! Chi le avrebbe considerate? Non erano nominate nè con decreto regio, nè con decreto ministeriale: un semplice decreto del direttore generale, revocabile da un momento all’altro. Se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa, tutte, senza che avessero diritto di lagnarsi. L’avvenire? Quale avvenire? Erano fuori pianta, non avevano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento, che a quarant’anni il Governo le [p. 47 modifica] licenziava, senz’altro: — cioè se avevano la disgrazia di restar telegrafiste sino a quarant’anni, il Governo le metteva sulla strada, vecchie, istupidite, senza sapere fare altro, consumate nella salute e senza un soldo. Tutte quelle lagnanze sorde che correvano negli animi giovanili incapaci di sopportare il giogo burocratico, salivano alle labbra, amarissime, e tentavano lo spirito delle più serene: tutti i piccoli torti, tutte le piccole ingiustizie, tutte le piccole sofferenze, prendevano voce, si rinfocolavano nel ricordo, gli spiriti depressi si sollevavano in quel flusso di parole, in quelle frasi che venivano ripetute venti volte, in quelle doglianze monotone come un ritornello. In casa di Caterina Borrelli discutevano, Annina Pescara, Adelina Markò, Maria Morra, Sofia Magliano: in casa di Olimpia Faraone complottavano Peppina Sauna, Peppina De Notaris, Ida Torelli. Le amiche si davano convegno, per mettersi d’accordo. Si litigava dappertutto, fra quelle feroci e quelle miti: fra le ribelli aggressive che consigliavano di non andarci punto in ufficio, per lasciare i superiori nell’imbarazzo, e le ribelli passive che intendevano solo prestare il servizio ordinario. I parenti, i fidanzati, gli amici s’interessavano a quella grande questione, parteggiavano chi per una ribellione intiera, chi per un contegno indifferente, nessuno consigliava il servizio straordinario. Le ausiliarie si sentivano pregate dalla direzione, si sentivano le più forti: volevano mostrare di aver carattere.

Ma quando fu il giorno e l’ora della firma, sotto quel grande foglio bianco, avvenne un curioso fenomeno psicologico, tutta una rivoluzione in quegli [p. 48 modifica] spiriti. E in processione, silenziose, con un’aria decisa e un contegno fiero, ognuna andò a scrivere qualche cosa. La prima Rachele Levi, una israelita, piccola, bruttissima, sempre piena di gioielli, scrisse che avrebbe ogni giorno prestato un’ora di più di servizio. Grazia Casale, la bruna grassotta, tutta profumata di muschio, scrisse che avrebbe prestato servizio per sé e per sua sorella Serafina, che era inferma. Adelina Markò, sarebbe rimasta di giorno sino alle cinque e ogni sera sino a mezzanotte. Emma Torelli: farebbe cinque ore di servizio straordinario, ogni giorno. Ida Torelli: come sua sorella. Peppina De Notaris: sarebbe venuta alle sette, andata via a mezzogiorno; ritornata alle quattro, andata via a mezzanotte. Peppina Sanna: farebbe il servizio completo, dalle sette del mattino alle nove della sera: chiedeva solo due ore, per andare a pranzo. Maria e Pasqualina Morra: sarebbero venute dalle sette del mattino a mezzanotte, chiedevano due ore per andare a pranzo. E così tutte le altre, di ambedue i turni, senza eccezioni, salirono di offerta in offerta, sino a che l’ultima, Caterina Borrelli, scrisse col suo grosso carattere storto, questa dedizione completa: sono a disposizione della direzione. Ma sotto queste ultime parole fu attaccato un pezzettino di lettera: Maria Vitale scriveva da casa sua, dal letto, dove la bronchite l’aveva gettata per la terza volta, che sentendosi meglio, avrebbe fatto tutto il possibile, per venire a fare il suo dovere.

· · · · · · · · · · · · · · ·

Che giornata fu quella di domenica, otto aprile! Alla mattina piovvero, come fitta gragnuola, [p. 49 modifica] telegrammi di candidati ai grandi elettori, ai sindaci, ai segretari comunali, raccomandandosi: le ultime, ferventi, pie raccomandazioni: — telegrammi umili, ardenti, pieni di concessioni precipitose e di promesse disperate. Poi una circolare politica, del Ministero dell’interno, l’ultima, a tutti i prefetti e sotto prefetti del regno, in cifra, quattro cento settantadue gruppi di numeri, una fatica immensa, con la paura continua di un errore di cifra che avrebbe guastato il senso del dispaccio: e per ogni cifra sbagliata, l’impiegato paga sei lire di multa. Ma l’accesso di febbre telegrafica fu a mezzogiorno. Da tutti i comunelli, da tutti i grossi comuni, da tutti i capoluoghi, da tutte le sottoprefetture, arrivavano i risultati delle frazioni, al Ministero dell’Interno, alla Stefani, ai giornali, ai candidati, agli amici dei candidati, ai capipartiti, alle associazioni politiche: e subito dopo, telegrammi privati di commenti, di sfiducia, d’incoraggiamento, di speranze moribonde, di trionfo, di congratulazione, di aspettazione, di bestemmie, di amarezza, di scetticismo. Alle tre del pomeriggio, l’accesso febbrile divenne furioso. Nella sezione maschile erano attivati quattro fili con Roma, due più dell’ordinario e il ritardo era di tre ore; con Firenze, con Milano, con Torino vi era un ingombro tale di dispacci, che si contavano a serie di dieci. Tutte le macchine. Morse, Siemens, Hughes, doppia Hughes, Steele erano in movimento: i due capoturni erano presenti, andando e venendo, come sonnambuli, col sigaro spento, un fascio di telegrammi in mano. La porta di comunicazione con la Sezione Femminile era semiaperta, caso nuovissimo, ma nessuno si voltava. [p. 50 modifica] Nella Sezione Femminile erano presenti tutte le ausiliarie, ognuna a una macchina; la direttrice andava e veniva. La vice-direttrice, piccolina, coi capelli, corti, una testolina simpatica di garzoncello svelto, correva da una macchina all’altra, riordinando dispacci, regolando i sistemi di orologeria, dando l’inchiostro, lesta come uno scoiattolo, le mani pronte, l’occhio vivo, la parola alta e breve. I telegrammi nascevano, sgorgavano, spuntavano da tutte le linee; su tutte il ritardo era di tre ore, i telegrammi da trasmettere si ammonticchiavano, formavano fasci, manipoli, cumuli; mentre se ne trasmetteva uno, ne arrivavano cinque da trasmettere, mentre si finiva di trasmettere una serie di dieci, ne restavan fermi cinquantadue. Le ausiliarie erano prese dalla febbre, che ogni ora saliva di grado. Alta, seduta sul seggiolone, col vestito coperto da un grande grembiale nero, Adelina Markò lavorava alacremente alla macchina Hughes, con Genova, trasmettendo con una lestezza di dita di pianista emerita, con uno scricchiolìo rapidissimo di tutto quell'ingranaggio, dando la corda al congegno con certi colpi potenti del piede diritto, i capelli rialzati sulla testa per non aver fastidio sulla nuca, le maniche rimboccate per poter trasmettere più facilmente: accanto a lei, Giulietta Scarano aveva appena appena il tempo di registrare i dispacci. Maria Morra sedeva sull’alto seggiolone, anche lei, alla linea di Bari: un ciuffo di capelli le scendeva sopra un occhio, aveva una macchia d’inchiostro azzurro sul mento, il goletto sbottonato lerchè si sentiva soffocare, due macchie rosse sui pomelli: ogni tanto, Emma Torelli le dava il cambio, per [p. 51 modifica] farla riposare, un po’ registrando i dispacci, classificandoli, facendo tutto il servizio di segreteria. Fra le coppie di hughiste, ambedue egualmente responsabili della linea, vi erano questi brevi dialoghi, senza lasciar di trasmettere e di scrivere.

— Quanti ce ne sono ancora?

— Quarantatre.

— E che ritardo?.

— Due ore e cinquanta.

— Madonna Santissima! —

Sulla linea poi, col corrispondente:

— Quanti ne avete?

— Sessantaquattro — era la risposta recisa.

Esse impallidivano. La moltiplicazione dei telegrammi era miracolosa, tutti telegrafavano, ora. Si era dovuto attivare un quinto filo con Roma e — onore insperato — lo aveva la Sezione Femminile, che sin’allora non aveva mai corrisposto con la capitale. A quel filo, macchina Morse, si riceveva soltanto: vi era stata messa quella che riceveva meglio, la Borrelli. Con le lenti fortemente piantate sul naso, una gamba incavalcata sull’altra, come un uomo, con un movimento nervoso della bocca, senza mai levar la testa, senza muoversi, senza voltarsi, ella riceveva sempre, indovinando le parole dalla prima sillaba, finendo di scrivere il telegramma, prima che il corrispondente finisse di trasmetterlo. Dopo averne ricevuti quindici o venti, ella lo interrogava:

— Ne avete molti, ancora!

— Moltissimi.

— Quanti saranno? [p. 52 modifica]

— Una settantina.

— Date. —

E ricominciava a ricevere, con la bocca arida, le dita sporche di inchiostro, sino alla prima falange. Poi, presa da una specie di delirio telegrafico, diceva al corrispondente: «trasmettete più presto, io so ricevere». Quello affrettava la trasmissione, rapidissima, di una velocità quasi irraggiungibile e quella lo aizzava, lo spronava, come il fantino al cavallo da corsa, dicendogli ogni tanto: «più presto, più presto, più presto».

Sulla linea Napoli-Salerno, lo spettacolo era diversamente meraviglioso. Il corrispondente di Salerno era il migliore impiegato di quell’ufficio: e corrispondeva con Peppina Sanna, una delle più forti, se non la più forte, della Sezione Femminile. La mattina si erano scambiati una sfida gioconda, da campioni valorosi, si erano salutati come due schermitori di prima forza: e il torneo era cominciato. Alternavano trasmissione e ricevimento, a partite eguali, di un dispaccio: appena il corrispondente dava la firma del suo dispaccio, Peppina Sanna aveva la mano sul tasto per dare il proprio. Era un alternarsi di rumori: ora il tasto di Napoli rapidissimo, saltellante, sotto la ferma mano di Peppina, ora il coltellino che riceveva la trasmissione di Salerno che ballava, ballava, con un ticchettìo infernale. Si eccitavano, a vicenda: «che tartaruga siete!» — esclamava Peppina Sanna. «Ah, sono tartaruga?» — gridava il corrispondente e correva, correva come un indiavolato, per vedere di sbigottirla. «Credete di spaventarmi?» — esclamava lei e precipitava talmente [p. 53 modifica] la propria trasmissione, che non pareva possibile egli arrivasse in tempo a riceverla.

— Svelte, signorine, svelte, — strillava la vice-direttrice.

— Abbiamo un grave ritardo, — mormorava la direttrice, girando attorno ai tavoli.

Anche il direttore andava e veniva, ma muto, serio, senza fare osservazione, passeggiando come un leone nella gabbia. Non diceva niente, vedeva tutto: la faccia pallida di Annina Pescara che sedeva da dieci ore alla linea di Reggio e crollava ogni tanto il capo, come se non potesse reggerlo; la pazienza angelica di Clemenza Achard, che combatteva con sette piccoli uffici sulla sua linea, che tutti avevano telegrammi e tutti volevano avere la precedenza; il tormento di Ida Torelli che si dannava alla linea Napoli-Ancona-Bologna, ella aveva sessanta dispacci, Ancona e Bologna perdevano il tempo a litigare fra loro; la perizia di Peppina De Notaris che arrivava a intuire, più che a leggere, la trasmissione del corrispondente di Catanzaro, una bestia che non sapeva trasmettere. Egli dava le volte come il leone, ma non diceva niente: le ausiliarie, erano tutte svelte, tutte intelligenti, quel giorno: quell’ambiente, quell’eccitamento avevano sviluppato in loro qualità nuovissime. Si soccorrevano, con amore, scambievolmente, d’inchiostro, di penne, di carta; le più disadatte alla corrispondenza, registravano, mettevano l’ora ai dispacci, contavano le parole, mettevano i rotoli di carta, raccoglievano i telegrammi trasmessi. Non vi erano più distinzioni di turno, di antipatie, di [p. 54 modifica] valori: si assistevano fraternamente, arse dal desiderio di far bene. Alle otto della sera, di quella domenica, le ausiliarie telegrafiche, tutte presenti, senza aver fatto colazione, senza aver pranzato, seguitavano a trasmettere, Hughes, e Morse seguitavano a ricevere, fra un fascio di telegrammi già dati e un fascio da darsi, con gli occhi lustri, le trecce disfatte, la mano nervosa che forte stringeva il tasto, e la voce velata chiedeva, ogni tanto:

— Vi è ingombro, ancora? —

IV.

Dopo un ottobre dolcissimo, con un sole tepido di primavera e una grande fioritura di rose, il primo novembre, giorno dei Santi, un bianco strato di nuvole aveva coperto il cielo e nel pomeriggio era venuto la prima pioggia autunnale, la pioggia che bagna sempre il pietoso pellegrinaggio della gente che va al cimitero, il giorno dei Morti. E per tutta la prima settimana di novembre piovve sempre, con qualche intervallo in cui la pioggia smetteva, come per stanchezza: ma dopo circa mezz’ora le goccioline ricominciavano a cadere, lente, rade, poi s’infittivano, venendo giù, per due o tre ore, con una monotonia di rumore che addormentava. Nell’anticamera della Sezione Femminile, gli ombrelli aperti, lucidi d’acqua, gocciolavano dalle punte delle balene appoggiate [p. 55 modifica] al suolo: sulla spalliera del divano di tela russa e su qualche sedia si asciugavano certe mantelline bagnate, certi scialletti che la pioggia faceva stingere; finanche sopra una macchina Hughes che serviva per l’istruzione, era disteso un waterproof nerognolo, chiazzato da larghe macchie nere di acqua. Le più prudenti, appena entrate, si cambiavano gli stivaletti, mettendone un paio vecchi, che conservavano nell’armadietto: ma alla fine dell’orario, era difficile calzare nuovamente, quelli che l’umidità aveva fatto restringere. Da che erano venute le pioggie, la colazione di quelle che potevano spendere, non era più composta della granita di limone, che si risolveva in un liquido acidulo e verdastro, in cui s’intingeva un panino da un soldo: col novembre si prendeva il cioccolatte, una bevanda nerastra, pesante, caldissima, che bruciava la lingua e lo stomaco. Gabriella Costa, la piccola Lavallière, detta così pel suo bianco volto ovale e malinconico, per i riccioli biondi della fronte e delle tempia, diceva, lamentandosi dolcemente, che in quel cioccolatte vi era del mattone pesto. Questo incidente delle colazioni, era un eterno soggetto di lite fra Gaetanina Galante, la inserviente, e le ausiliarie: esse non pagavano giorno per giorno, facevan conto, mangiavan biscotti e paste; alla fine del mese, quando ella presentava il conto di dieci, quindici lire, financo, esse torcevano il muso, le più educate tacevano, le più pettegole dicevano che vi doveva essere errore certamente; non avevano mangiato mai tutta quella roba. Ma con Gaetanina Galante era difficile di averla vinta, tanto era insolente e ineducata: aveva già fatto un bel [p. 56 modifica]gruzzoletto coi guadagni delle colazioni e a certune aveva prestato dei quattrini, con l’interesse: poco, venti, trenta lire, cinquanta lire, che esigeva a rate mensili di cinque lire, di dieci, secondo la somma. Il giorno in cui dall’amministrazione scendevano le mesate, ella si tratteneva più a lungo in ufficio, per esigere. Non pagarla, era impossibile, tanto era il terrore che la direttrice o il direttore venissero a sapere di questo debito, e lei si avvaleva di questo terrore, per esercitare un certo dominio su quelle che le dovevano dei denari. Una le faceva i cappellini, un’altra le regalava un paio di guanti, una terza le prestava il suo medaglione d’oro, quando ella doveva andare a ballare: e questa serva le trattava da compagne, da amiche, dava loro del tu, di che esse arrossivano e si vergognavano.

Dal primo giorno della pioggia, si erano manifestati i guasti di linea, il tormento autunnale e invernale dei telegrafi. Procida aveva subito inviato un telegramma di servizio, dicendo che per la pioggia non vedeva più le isole di Ponza e di Ventotene; immediatamente dopo, Massalubrense telegrafò che non vedeva più Capri; le comunicazioni semaforiche erano dunque interrotte. Dopo tre giorni, la linea delle isole che parte da Pozzuoli, tocca Ischia, Forio d’Ischia, Casamicciola e Procida, un po’ sottomarina, un po’ aerea, e poi di nuovo sottomarina, principiò a soffrire: la corrente giungeva a intervalli, si corrispondeva con grande stento. Alla sera si guastò addirittura, non rispose più nessuno. Tutta pensosa la vicedirettrice andò alla porta della sezione maschile, chiamò il capoturno e gli disse: [p. 57 modifica]

— Con le isole, è guasta ogni comunicazione.

— Molti dispacci, fermi?

— Sette.

— Poco male, li manderemo per posta. —

Sotto quella pioggia continua, in quella umidità che impregnava l’aria, le strade, le persone, i vestiti, le anime, il servizio telegrafico era tutto un lavoro di pazienza. Quando entravano in servizio, le ausiliarie guardavano il cielo, facevano una smorfia di sfiducia e chiamavano il corrispondente. Talvolta, sul principio, il servizio procedeva bene, per un’ora, per due: a un certo momento i segni scomparivano e l’ausiliaria pensava: ci siamo: «Madonna assistimi». Ma più spesso il guasto si dichiarava dal mattino, il tormento si manifestava subito dal buongiorno del corrispondente che Napoli non sentiva, e dal buongiorno di Napoli che il corrispondente non sentiva. Le sette ore di servizio passavano, consumate in tentativi vani di farsi sentire, battendo forte il tasto, facendo i segni lunghi, chiari, lentissimi.

— Per carità, direttrice, — mormorava l’ausiliaria, — la nostra pila è troppo debole, aggiunga qualche cosa d’altro.

— Avete già trenta elementi di più: che posso farvi? — rispondeva la direttrice, desolata.

— È inutile, è inutile, — soggiungeva l’ausiliaria. — Otranto non mi sentirà mai. —

La corrente partendo o giungendo, soffriva un morbo capriccioso e strano che la prendeva a sbalzi, che le dava tregua per due ore e la prostrava per una giornata, che la faceva balzare, subitamente ringagliardita o la [p. 58 modifica] immergeva in una debolezza mortale, il fluido possente che un po’ di rame, un po’ d’acido solforico, un po’ di zinco fanno sviluppare, il fluido fortissimo che niuno ha ancora spiegato, la grande efficienza naturale, inesplicabile e grande come il calore, come la luce, la corrente elettrica, forza, volontà, pensiero, era ammalata, attaccata nella sua forza e nella sua potenza. La torcevano per dolore, certe convulsioni strane, per cui le macchine parea dovessero spezzarsi, sotto il suo impeto: essa batteva sul metallo certi colpi duri, secchi, ripetuti fittamente, come bussasse per aiuto, come se chiamasse al soccorso: e nell’abbattimento che susseguiva questi impeti, il coltellino della macchina aveva un tremolìo indistinto, un movimento così lieve che pareva un soffio.

— Direttrice, direttrice, — diceva lamentosamente Annina Pescara, — certo Bologna mi sta dicendo qualche cosa, ma i segni non arrivano.

— Rendete sensibile la macchina. —

Si smontava la macchina, si regolava più delicatamente il sistema di orologeria, si accorciava la spirale per farle sentire meglio la corrente, si accostava il coltellino a un capello dalla carta. La macchina, così regolata, pareva uno di quei raffinati temperamenti umani, in cui la vibrazione è immediata, in cui i nervi frizzano a qualunque piccolissima sensazione: l’apparato era sensibile. Allora, pallidamente, qualche segno compariva, parole spezzate, frasi monche: pareva un delirio fioco ed indistinto, di persona morente. E il guasto era dichiarato, per non avere responsabilità:

— Vi è dispersione su Bologna. — [p. 59 modifica] Pure la telegrafista restava alla sua linea, tentando ancora, tentando sempre, sperando sempre di poter corrispondere. La malattia della corrente era così bizzarra! Da un istante all’altro essa poteva guarire, per un’ora, o per una giornata. E con questa incertezza, la telegrafista passava le sue ore in sforzi inutili, provando, riprovando, con una costanza di coraggio, con una rassegnazione tutta giovanile. Ogni tanto si udiva qualche sospiro profondo:

— Che hai? — domandava la Caracciolo, che ci si divertiva ai guasti, perchè non si lavorava.

— Questa linea di Catanzaro mi fa morire, — rispondeva Grazia Casale.

E ogni tanto:

— Non si corrisponde più con Benevento.

— Che guasto vi è?

— Corrente continua. —

Ma il guaio maggiore erano i contatti. Per la pioggia, per le strade cattive, per la pessima manutenzione dei fili, per un uccello che vi si posava, per un caso qualunque, frequentissimo in inverno, due linee che andavano nella stessa direzione, si univano, e accadeva il contatto. A un tratto, mentre si parlava con Reggio, saltava fuori, sulla linea, Torre Annunziata, e le trasmissioni s’imbrogliavano, si confondevano, i corrispondenti litigavano, le correnti s’intrecciavano. E la voce triste di Clemenza Achard, lieve, lieve, diceva:

— Non si va più con Reggio: vi è contatto con Torre Annunziata. —

· · · · · · · · · · · · · ·
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In quel giorno, il dodici novembre, aveva cessato di piovere, dalla mattina: ma il cielo era rimasto chiuso e grigio, quasi nero alla linea dell’orizzonte, dietro la collina di San Martino. E nelle nuvole il tuono rumoreggiava sordamente, continuo; un lampeggìo folgorava azzurrino, all’orizzonte. Alle quattro il capoturno, che aveva la faccia stanca e annoiata, si presentò alla porta della Sezione Femminile, chiamò la vice-direttrice e le disse:

— Non comunico più con la Sicilia. —

E si guardarono tutti e due, avendo sul viso l’aria preoccupata di chi subisce un guaio irreparabile. La direttrice ritornò in mezzo alle ausiliarie e comunicò la notizia.

— Non si corrisponde più con la Sicilia. —

Le fanciulle si guardarono fra loro, crollando il capo: a poco a poco, l’ufficio di Napoli pareva s’isolasse da tutti gli altri paesi, con cui era legato. Da quattro giorni non si avevano notizie di Venezia che dava i suoi telegrammi a Roma; Campobasso mandava i suoi telegrammi per posta; di Ancona non si sapeva nulla; con Benevento non si comunicava; ora questo isolamento dalla Sicilia, che era il più importante, sembrava l’abbandono completo, l’isolamento assoluto. In quel giorno, tutte le altre linee andavano male, non per l’umidità, ma per le scariche elettriche dell’aria che colpivano la linea e spezzavano i segni della trasmissione.

— Signorine, non toccate con le dita il metallo del tasto; potreste prendere una scarica, — aveva raccomandato la direttrice. [p. 61 modifica]

Ma qualcuna ci si divertiva a quel giuoco, di prender una scarica. Bastava toccare uno dei reofori, o il manico del tasto, o un bottoncino esterno della macchina, per sentire una piccola vibrazione, passante dalle dita al polso, dal polso alla nuca.

— Borrelli, Borrelli, non scherzate con le scariche elettriche: potreste essere fulminata.

— Sono cose che si raccontano, vice-direttrice. —

Maria Immacolata Concetta Santaniello si segnava a ogni tuono più forte e si vedevano le sue labbra muoversi, come per la preghiera. Peppina De Notaris, a ogni scarica elettrica, si arretrava con un lieve movimento di paura. Peppina Sanna aveva una smorfia nervosa della faccia, come se tutta quell’elettricità le si scaricasse nei nervi. Sofia Magliano, cercando invano di farsi rispondere da Cosenza, parlava, con Maria Morra, di quella bella Adelina Markò che nel mese di luglio aveva date le dimissioni e nel mese di agosto si era felicemente maritata con un giovanotto di Salerno, un negoziante: ella aveva dato un addio alle fisime sentimentali, per cui si attaccava al vedovo di quarant’anni ed era felice, adesso, come aveva scritto alla direttrice. Ora la più bella della sezione era Agnese Costa, una alta, snella, con un bel collo bianco, una nuca grossa e due grandi occhi grigi. Anche Emma Torelli si era fidanzata con un impiegato telegrafico e il matrimonio si doveva fare fra cinque o sei mesi. Discorrevano di questo, un po’ nervosamente, eccitate dalla fatica inutile di poter avere una risposta dai corrispondenti, dalle scariche elettriche e dalle cose che dicevano. La verità, sul caso della Juliano, non [p. 62 modifica] si era mai potuta sapere: era mancata a un tratto: ma tre o quattro volte era stata chiamata in direzione, l’avevano vista salire dall’altro salone, col suo grande corpo slogato, da uomo mal fatto. E anche la direttrice era stata tre o quattro volte in direzione, per molto tempo a conferire col direttore; e n’era venuta via con la faccia stravolta e le labbra di rosa morta anche più pallide. Una disgrazia, quella della Juliano, che colpiva tutta la sezione: una disgrazia non chiara, ma di cui si sentiva il malessere latente. E pensare che ella era così brutta! Ma tutto un garbuglio di segni comparve sulle linee di Cosenza e di Catanzaro dove stavano Maria Morra e Sofia Magliano, e poco dopo la vice-direttrice annunziava:

— Un palo è stato fulminato, verso Salerno: contatto su Cosenza, Catanzaro, Reggio, Potenza e Lagonegro. —

Sei linee erano abbattute nello stesso tempo: ma non tacevano: su quelle macchine vi era un imbroglio di correnti, di trasmissioni, di colpi forti che l’elettricità dell’aria tagliava in due. Il tuono rombava più forte; in tutti i punti di contatto, fra metallo e metallo delle macchine, vi era una lieve scintilla.

Gli isolatori, a punte metalliche, come i denti di un pettine, scintillavano, a riprese. In questo la direttrice entrò, vestita di nero, con un velo di crespo nero sul cappello e i guanti neri: aveva gli occhi rossi e gonfi. Si mise a discorrere piano con la vice-direttrice: le ausiliarie la guardavano, subitamente diventate pallide a quel lutto, senza curarsi più dell’elettricità: certo ella ritornava di lassù, dove era andata con le altre ausiliarie. Non osavano chiamarla e chiederle [p. 63 modifica] che era accaduto lassù. Un lampo guizzò nel cielo livido: e un forte tuono scoppiò, un fulmine era caduto in città. Tutte le macchine scricchiolarono, a tutti i reofori, a tutti i bottoncini, vi fu un fioco scintillìo: negli isolatori parve un fiammeggiamento. Il capoturno si presentò alla porta della sezione maschile e gridò:

— Temporale; vi è pericolo: linee alla terra! —

La vice-direttrice esitò un momento innanzi a una misura così grave, che si prendeva rarissimamente: ma un nuovo fulmine cadde più vicino.

— Linee alla terra! — comandò il capoturno.

Subito dopo una quiete si allargò nell’ufficio. Napoli era isolata: i tasti, le macchine, gli isolatori, parevano colti da una improvvisa morte: la corrente era morta. E attorno alla direttrice, che veniva dal cimitero, le ausiliarie, aggruppate, rimpiangevano Maria Vitale che era morta.