Il sessismo nella lingua italiana/Introduzione alla ricerca
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I.1 — INTRODUZIONE ALLA RICERCA
La parità dei diritti tra «uomo e donna» è dichiarata dalla Costituzione della Repubblica Italiana, è specificata nelle nostre leggi ed è riconosciuta da tutte le forze politiche del paese. Malgrado tutto ciò, la parità rimane in moltissimi casi un principio giuridico e morale non ancora realizzato nella prassi della vita quotidiana.
Il compito istituzionale della Commissione per la realizzazione della parità dei diritti tra uomo e donna è di rendere effettiva e concreta questa parità.
Per raggiungere una parità di fatto, cioè a dire l’uguaglianza delle possibilità per ciascun individuo di entrambi i sessi di realizzarsi appieno in ogni campo, é necessario che la società si liberi dai residui pregiudizi negativi nei confronti delle donne. Non pochi di essi sono alla base della nostra cultura e fanno quindi parte di una tradizione secolare. Essi non sono sempre facilmente riconoscibili, perché sono spesso nascosti e camuffati sotto forme di apparente valore oggettivo, e sono trasmessi, perpetuati ed avvalorati attraverso la lingua, in modo spesso subdolo e ripetitivo.
Non vi sono dubbi sull’importanza della lingua nella «costruzione sociale della realtà»: attraverso di essa si assimilano molte delle regole sociali indispensabili alla nostra sopravvivenza, attraverso i suoi simboli, i suoi filtri si apprende a vedere il mondo, gli altri, noi stesse/i e a valutarli.
Dell’importanza socio-politica della lingua ci si è resi conto da lungo tempo: sociolinguisti e psicolinguisti hanno compiuto studi e ricerche sulle variabili classe e razza nelle differenze di forme ed usi linguistici, sulle valenze negative di parole attribuite a classi e razze oppresse, così come sono in corso studi sul «discorso del potere» (lingua dei politici, deí mass media, ecc.).
Solo in quest’ultimo ventennio, con il risveglio della coscienza femminista, con la rimessa in questione dei valori culturali e la rivisitazione» dei vari campi della cultura e della scienza con ottica della differenza femminile, si è cominciata ad acquistare consapevolezza di quanto profondamente la nostra lingua sia intrisa di forme segnatamente sessiste e di valori patriarcali.
Anche se la rilevanza sociale della lingua è teoricamente riconosciuta nel campo della linguistica e della cultura in genere, nondimeno la lingua viene praticamente trattata come se fosse un mezzo «oggettivo» di trasmissione di contenuti. Si crede di poterla controllare, manipolare secondo i propri bisogni e i propri scopi, e invece ci sfugge quanto sia essa stessa a controllare e manipolare noi e la nostra mente: non siamo sempre noi a parlare la lingua, ma è la lingua stessa che ci parla.
Le forme linguistiche portatrici di «ideologie» e pregiudizi anti-donna sono così profondamente radicate nella nostra «struttura del sentire» che difficilmente le riconosciamo. La loro caratteristica inconscia e pervasiva le rende ancora più pericolose perché insidiose. Ognuno di noi usa spesso parole, espressioni, forme grammaticali che sono in contraddizione con le proprie convinzioni.
È inoltre molto difficile separare le pratiche «discorsive» della lingua dalla lingua stessa, cioè le leggi, i rituali, le istituzioni che ne regolano l’uso, dalla lingua vera e propria, dato che vi è tra le due una interazione costante. Si potrebbe dire che «le condizioni di uso della lingua sono inscritte nella língua stessa». Se si vuole sapere come la lingua funziona nei nostri confronti, essa va analizzata sotto i due aspetti quello più propriamente strutturale e quello dell’uso.
Le ricerche sul rapporto donna/linguaggio, che dagli Stati Uniti dei primissimi anni settanta si sono diffuse in molti altri paesi, con diversi approcci teorici e metodologici, coprono un terreno molto vasto e vario, che può però sintetizzarsi in due filoni principali: 1) la lingua delle donne eventuali differenze nell’uso della lingua parlata e scritta dalle donne (forme sintattiche, lessicali, fonologiche, paralinguistiche, ecc.); differenze nelle interazioni linguistiche (conversazioni: interruzioni, controllo della conversazione, silenzi, ecc.); modalità relativa alla enunciazione; eventuali differenze nelle funzioni linguistiche (neurologiche, ecc.); 2) la donna nella lingua forme «sessiste» della lingua quale «corpus» a disposizione di donne e uomini elementi linguistici inerenti alla lingua a livello grammaticale e strutturale dissimmetrici e discriminatori rispetto alle donne; uso di lessemi, di locuzioni ed immagini stereotipate e riduttive della donna.
Questo secondo aspetto è l’oggetto della presente ricerca, la quale si propone di rilevare le forme sessiste della lingua italiana, di classificarle e analizzarle linguisticamente, mettendone in luce i presupposti culturali che le sottendono indi mostrandone l’incidenza sui processi mentali e gli effetti pratici sullo sviluppo politico e sociale degli individui di entrambi i sessi.
Il primo passo è la riflessione e la presa di coscienza dei valori e degli effetti di senso della lingua che parliamo; la finalità pratica è lo stimolo verso un uso della lingua che rappresenti le donne più da vicino e che apra varchi alle novità che finora sono rimaste inespresse. Si vuole qui fare un discorso sul possibile e sul necessario che porterà alla proposta solo di «possibili» e«necessarie» varianti linguistiche.
Il corpus preso in esame è la lingua di ogni giorno che tutte e tutti parliamo, dove raramente si attuano scelte consce non solo a livello grammaticale, ma anche a livello lessicale. Non si è ricercato unicamente l’eccezionale, lo strabiliante, il particolarmente offensivo», ma soprattutto l’ovvio, il ridondante, lo scontato, che per ciò stesso si presenta come «naturale» ed ineluttabile». È infatti proprio attraverso queste forme che si continua a percepire la donna inferiore all’uomo, contribuendo in tal modo al mantenimento di questo assetto sociale.
Il linguaggio dei giornali e delle riviste è stato prescelto come terreno d’indagine, in quanto è la forma scritta della lingua più accessibile e più vicina alla lingua quotidiana che fornisce, per la sua ampia diffusione e autorevolezza, uno dei modelli principali di comportamento linguistico alla società contemporanea. D’altronde i nostri suggerimenti sono rivolti in primo luogo alla stampa, che massimamente contribuisce a coniare e far passare i neologismi e le mode linguistiche.
La lingua italiana, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro, intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico. Esempio paradigmatico: la stessa parola «uomo» ha una doppia valenza, perché può riferirsi sia al «maschio della specie» sia alla «specie stessa», mentre la parola «donna» si riferisce soltanto alla «femmina della specie». Non si può non sentire il peso dell’ambiguità di massime come «l’uomo è la misura di tutte le cose» in una società patriarcale che ha sempre considerato la donna come «altro», come «diverso».
Società e lingua sono strettamente connesse, lo studio dell’una getta luce sull’altra. L’analisi di un dato linguistico formale può darci insights sulla organizzazione sociale, la quale a sua volta ci illumina sulla organizzazione linguistica. Il principio della doppia valenza del maschile contrasta con un assioma della teoria dei tipi logici, formulata da Russell e Whitehead nei Principia Mathematica, secondo cui «qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione stessa», ad esempio il genere umano è la classe di tutti gli individui, ma non è esso stesso un individuo. Il linguaggio naturale spesso contravviene a questo assioma: Bateson (1973) dice che spesso nella lingua è difficile distinguere chiaramente tra elemento e classe con inevitabili conseguenti confusioni. Ciò che stupisce però è che, pur rilevando e lamentando le ambiguità che ciò genera, non sia venuto in mente né a Bateson né ad altri che l’esempio più chiaro e maggiormente gravido di conseguenze fosse proprio il doppio uso della parola «uomo» («man» per l’inglese) con valore marcato e non marcato.
Delle conseguenze logiche e sociali si è resa invece conto la lessicologa americana Alma Graham (1974), secondo la quale: se vi è un gruppo denominato A, i cui membri siano suddivisi in due sottogruppi A e B, non vi sono dubbi che il «sottogruppo A sia quello superiore, migliore, il gruppo parametro, il gruppo norma, e che il B sia il gruppo inferiore, il gruppo devianza, invisibile, non esistente». In poche parole l’uomo è la specie, la donna la sottospecie.
Per quanto riguarda la lingua italiana, come molte altre lingue a genere grammaticale, il principio del maschile non marcato pervade tutta la lingua, poiché qualsiasi sostantivo maschile (singolare e plurale) riferito a persona può ugualmente rappresentare i due sessi o il solo maschile: «gli italiani» possono essere sia «gli uomini italiani» sia le donne e gli uomini italiani». Le conseguenze che derivano o rimbalzano su altri tratti linguistici sono numerosissime e saranno qui oggetto di analisi particolare: sono state denominate *dissimmetrie grammaticali» per indicare le disparità di trattamento riservato alle donne e agli uomini nelle forme grammaticali, distinguendole dalle differenze «discorsive» e di uso lessicale, definite «dissimmetrie semantiche».
L’analisi particolareggiata ha reso necessaria questa suddivisione, ma nella realtà della lingua i due tipi di dissimmetrie si intrecciano e si saldano, cumulando e rinforzando il loro effetto.
Non si vuole, sia ben chiaro, negare né abolire le differenze tra maschio e femmina, sia di genere grammaticale che di sesso e di genere sociale. «Il senso, come la lingua, nasce a partire da differenze. Annullarle, sopprimerle corrisponde ad annientare la significazione» afferma Luce Irigaray nel suo ultimo libro Parler n’est jamais neutre (1985).
Il problema non sono le differenze, ma le valenze che esse esprimono: o nozioni stereotipate, riduttive e restrittive della immagine della donna, o il reiterato e pervasivo concetto base della centralità e universalità dell’uomo e della marginalità e parzialità della donna. La falsa «neutralità» del maschile, che spaccia per umano ciò che è solo dell’uomo» (marcato) è emblematica di tutta la cultura. «Il problema della sessuazione del discorso — fa notare Irigaray (1985) — paradossalmente non si è mai posto. L’uomo come animale dotato di linguaggio, come animale razionale, ha sempre rappresentato il solo soggetto possibile del discorso, l’unico soggetto possibile. E la sua lingua appare come lo stesso universale... Una legge, perpetuamente misconosciuta, prescrive tutte le realizzazioni della/e lingua/e, ogni produzione di discorso, ogni costituzione di lingua, secondo le esigenze di una prospettiva, di un punto di vista, di una economia; quelle dell’uomo, supposto rappresentare il genere umano».
E da qui a identificarsi con la divinità il passo è breve: chi può negare l’influenza che l’«andromorfismo» del linguaggio della religione (Dio, Nostro Signore, Padre Nostro, ecc.) ha sulla nostra idea della divinità (sessuata + maschile)?
La coincidenza tra lingua e cultura impone un’analisi diversa del maschile «neutro». Molti linguisti sostengono che nella mente di chi parla e di chi scrive è chiaro quando si riferisce al solo sesso maschile o a entrambi i sessi e che nel secondo caso è desemantizzato. Dagli elementi emersi dalla ricerca e da un’osservazione attenta della lingua quotidiana risulta invece che il maschile neutro è spesso ambiguo per emittenti e riceventi e influenza l’immagine che accompagna la parola.
Possono servire da esempio i termini usati per indicare le prime specie umane: l’Uomo di Pechino, l’Uomo di Cro-Magnon, l’Uomo di Neanderthal, ecc. In realtà il più delle volte i pezzi di ossa ritrovati non permettevano l’identificazione del sesso (nel caso del primo Uomo di Neanderthal pare si trattasse di un essere di sesso femminile!). Ma chi può negare che l’immagine che abbiamo di queste specie sia maschile Ovviamente non viene esclusa la Donna di Cro-Magnon, ma noi non la visualizziamo. Il primo reperto che abbiamo visualizzato al femminile è stato «Lucy», il cui sesso femminile è stato direttamente dichiarato e strombazzato come eccezione. Quante/i di noi si sono dette/i «Ah, finalmente una donna!». Anche i disegni che accompagnano articoli e dossier sull’argomento (oltre che nei testi scolastici) rappresentano figure in linea evoluzionistica, con fattezze sempre più umane, i cui ultimi esemplari son sempre inequivocabilmente maschi. L’immagine della donna primitiva figura soltanto quando si tratta della «famiglia» (generalmente in copresenza di bambini): in tal caso non si parla di evoluzione della specie umana, bensì di organizzazione sociale.
Analogamente i diagrammi statistici non disaggregati per sesso sono illustrati da figure stilizzate maschili.
Il maschile neutro occulta la presenza delle donne cosi come ne occulta l’assenza. Quando si parla, ad esempio, della democrazia ateniese sottolineando che «gli Ateniesi» avevano diritto al voto, viene di fatto nascosta la realtà che questo era negato al 50% circa della popolazione, le donne.
Che la lingua rispecchi e rinforzi l’identificazione degli uomini/maschi con l’universo salta all’occhio nella denominazione di «suffragio universale» ai tempi giolittiani, da cui le donne erano totalmente escluse.
Anche parlando di argomenti di attualità ci si imbatte in esempi rivelatori della falsa neutralità del maschile. In un articolo fuori ricerca intitolato «Gli agguati del tamponato» (II Messaggero 22/2/85) si dice: Il tamponato è un esemplare di automobilista molto diffuso... Innocuo all’apparenza... il tamponato tende i suoi agguati agli incroci con o senza semafori sulle strade a scorrimento veloce, se vede uno spazio per posteggiare o una donna da abbordare...». Si potrebbe inferire che in questo caso, nella mente dell’articolista, tra la sua indubbia conoscenza ed esperienza delle numerose donne presenti in questa categoria e lo stereotipo che «la guida» sia un attributo maschile, ha vinto quest’ultimo. Le parole rivelatrici «una donna da abbordare» erano peraltro state preparate da un’altra immagine di segno maschile (metafora militaresca) «tende i suoi agguati». Nel corpo della ricerca vi sono altri casi indicativi del genere.
Sull’influenza che l’uso continuo e pervasivo del maschile generico ha sulla mente di locutrici e locutori, numerose e serie ricerche sono state effettuate negli Stati Uniti (in inglese il maschile generico è rappresentato dall’uso neutro di «man» e dei pronomi e aggettivi anaforici «he, his,» ecc.).
Molte di queste ricerche sono state condotte nell’ambito della scuola e dei libri di testo ed hanno messo in luce l’importanza di questi elementi linguistici nello sviluppo della personalità ed identità delle ragazze e dei ragazzi. I risultati delle ricerche hanno chiaramente dimostrato sia che la concettualizzazione del maschile non marcato era prevalentemente al maschile sia che le donne avevano maggior difficoltà dei maschi ad identificarsi con pronomi maschili, concludendo che i ragazzi crescono allargando la loro sfera di riferimento con pronomi maschili che essi apprendono «naturalmente» in connessione con se stessi, mentre le ragazze li devono apprendere «artificialmente»[1]. Ad analoghe conclusioni giungeva una ricerca basata sulla capacità di «ricordare» un testo, in cui le donne ottenevano un punteggio inferiore agli uomini quando nel testo vi erano forme di maschile generico[2].
Grammatici e linguisti di varie lingue obiettano che il genere grammaticale ed il sesso non vanno assolutamente confusi, che sono due fenomeni completamente separati. Ciò può esser vero quando si tratta di oggetti inanimati, ma non si può negare che non sia puramente casuale che le parole riferite a persone di sesso maschile sono di genere maschile (le eccezioni quali: la guardia, la sentinella, ecc. confermano la regola perché ripetono i nomi delle azioni «il fare la guardia, la sentinella, ecc.») e che quelle riferite a donne sono di genere femminile (le eccezioni in questo caso, ad esempio i nomi di professione, sono particolarmente rivelatrici).
Del resto anche per le cose vi è spesso un legame tra genere e simbolismo sessuale, soprattutto riguardo alle immagini sessuate suscitate dal genere di alcune parole. Il genere ha una funzione metaforica, che Jakobson[3] definiva «il simbolismo dei generi», strettamente legato alla lingua specifica. Per il russo egli dava l’esempio della diffusa superstizione secondo cui un coltello che cade presagisce l’arrivo di un ospite inatteso di sesso maschile, mentre se cade una forchetta l’ospite inattesa è di sesso femminile: in russo «coltello» è maschile e «forchetta» femminile, come in italiano. Nelle nostre lingue romanze e in russo «la morte» (femminile) è rappresentata da una figura di vecchia con la falce, mentre nelle lingue germaniche «der Tod» (maschile) è rappresentata da un vecchio. Come dice Marina Yaguello «Non vi sono dubbi che la visione del mondo dei soggetti parlanti sia influenzata dalla dicotomia maschile/femminile imposta dalla lingua e questo è vero sul piano sincronico, quali che siano le radici storiche del sistema»[4].
Il problema è che tale dicotomia non divide il mondo in due parti parallele, di pari valore e potere. Che si tratti di questioni di genere o di scelte lessicali, c’è un principio che percorre e regge tutta la lingua: «la superiorità dell’uomo sulla donna». Mediante la ripetizione inconsapevole di forme linguistiche basate su questo principio si perpetua e si rafforza la posizione di potere dell’uomo e di subalternità della donna nella nostra società e si dà in tal modo quel «consenso» indispensabile al mantenimento di qualsiasi potere.
Se analizziamo lingue prive di generi grammaticali, come l’inglese, vediamo che il principio del maschile universale resta sempre alla sua base. Esso emerge alla superficie (Whorf parlava di genere «coperto») nei pronomi anaforici femminili attribuiti a navi, barche, automobili (oggetto di amore e di possesso da parte dell’uomo), alle nazioni (personificate come madri e nutrici), alla natura, (naturalmente femmina), ai cicloni (imprevedibili), generalmente battezzati con nomi femminili (pratica interrotta dopo le campagne femministe), ad alcuni animali, quali i gatti (simbologia «felina» corrispondente a caratteristiche sessuali e di temperamento attribuite alle donne). In inglese poi si ha lo stesso principio del maschile «neutro» con l’uso generico delle parole «man» e «men» e composti (congressman, mailman, ecc.) e dei pronomi/aggettivi anaforici «he, his», ecc.
Il genere grammaticale porta una serie di concordanze sintagmatiche e paradigmatiche. Nella lingua italiana sono più importanti quelle sintagmatiche, cioè gli accordi con aggettivi, participi passati, ecc., in quanto i pronomi anaforici sono usati abbastanza raramente e gli aggettivi possessivi hanno forme uguali per le terze persone (suo, sua, ecc. concordati col sostantivo e riferibili sia a una «lei» che a un «lui»).
Le conseguenze linguistiche derivanti dal doppio uso del maschile producono differenze qui definite «dissimmetrie grammaticali», nel riferirsi a donne e a uomini con effetti di cancellazione, marginalizzazione e riduzione delle donne.
In conseguenza o in concomitanza con l’uso ambiguo di «uomo, uomini» e dei sostantivi maschili con valore generico si trova:
— L’uso di sostantivi quali: fratelli, fratellanza, fraternità, padri, paternità, ecc. con valore non marcato. Ad esempio: la fratellanza dei popoli, la paternità di questo lavoro è da attribuire a Maria X, ecc.;
— La concordanza al maschile di aggettivi, participi passati, ecc. con serie di nomi femminili e maschili (+ umano), determinata dalla sola presenza di un nome maschile. Questa regola, detta anche dell’assorbimento» o «inglobamento» del femminile da parte del maschile, è generalmente trattata dalle grammatiche in modo sommario, come se fosse «naturale» e ineluttabile, mentre per la concordanza di nomi di inanimati si prevedono anche altre soluzioni (ad es. l’accordo con l’ultimo nome)[5]
— La precedenza del maschile nelle coppie oppositive uomo/donna. Es.: i ragazzi e le ragazze, fratelli e sorelle, bambini e bambine, ecc. Fa eccezione il vocativo «signore e signori», (oggi talvolta «compagne e compagni») in cui si dà precedenza alle donne, per «cavalleria»! Questo gesto sta a indicare quanto sia sentita da locutrici/tori l’importanza dell’ordine di precedenza nella lingua.
Anche quando viene esplicitata la presenza della donna, il primo nome che si offre alla mente di «locutori e locutrici» è sempre il maschile, ribadendo ulteriormente la sua preminenza linguistica. Si potrebbe anche rilevare una coincidenza con la regola d’uso secondo cui, nelle coppie oppositive positivo/negativo, si dà generalmente la prima posizione al positivo: i buoni e i cattivi, il bello e il brutto, il vero e il falso, ecc. La stessa denominazione della Commissione segue automaticamente questa regola, parlando di «parità tra uomo e donna»!
— La designazione delle donne come categoria a parte, quando se ne vuole esplicitare la presenza in gruppi misti. Es.: vecchi, pensionati, disoccupati e donne. Questo modulo, che si potrebbe attribuire al dubbio che le donne non siano comprese nei maschili non marcati precedenti, viene però anche a coincidere con la tendenza «storica» di emarginare le donne dal gruppo, mettendole a parte, in genere insieme a «vecchi e bambini», oggettivizzandole e trattandole come bagaglio appresso («i barbari si spostavano portando con sé donne vecchi e bambini»). Esemplare l’infortunio linguistico in cui incorse lo stesso Levy Strauss in «Les Bororo» (1936), nella descrizione: «L’intero villaggio parti il giorno successivo in una trentina di piroghe, lasciandoci soli con le donne e i bambini nelle case abbandonate».
— Le limitazioni semantiche del femminile, conseguenti al fatto che è sempre marcato, mentre il maschile ha doppia valenza. Ad esempio, dire di Eduardo che era «uno dei più grandi attori italiani» può farlo emergere tra uomini e donne, mentre se parlassimo di Titina, l’espressione simmetrica, «una delle più grandi attrici italiane», non includerebbe gli uomini, dato che il femminile è sempre marcato.
— La mancanza di una forma femminile «simmetrica» a quella maschile nel caso degli agentivi, soprattutto quando si riferiscono a cariche, professioni, mestieri e titoli La forma femminile o «manca» del tutto o viene formata con suffissi riduttivi (—essa). Questo è un caso in cui tra forme linguistiche grammaticali e fatti sociali l’intreccio è strettissimo.
Non vi sono dubbi che, all’origine del problema degli agentivi, vi è la netta divisione dei ruoli tra donne e uomini, e la preclusione di alcune carriere alle donne (la carriera diplomatica e la magistratura sono state aperte alle donne soltanto nel 1963). Esisterebbe anche un problema analogo di forme linguistiche maschili per occupazioni «femminili» (più raro e diversamente risolto).
Il problema si pone in modo particolarmente acuto oggi che le donne stanno entrando in numero sempre crescente in tutti i campi di lavoro e della vita pubblica e che accedono a gradi sempre più elevati, prima riservati solo agli uomini. Generalmente le parole adottate sono varie, contrastanti, spesso danno un senso di confusione, di incertezza e causano grosse discordanze a livello grammaticale. Infatti per la lingua italiana le concordanze sintagmatiche sono le più rilevanti (mentre, come si è visto, per l’inglese lo sono quelle paradigmatiche).
Le forme che si usano alternativamente (talvolta due o tre forme diverse si trovano usate nello stesso articolo) sono le seguenti:
1) Uso del titolo al maschile, con concordanze al maschile di aggettivi, participi passati, ecc., come: «Il primo ministro indiano assassinato..», che nasconde, per chi non lo sappia, l’informazione che si tratta di una donna, o con incoerenze negli accordi come «..il premier (Indira Gandhi), scortato da,.. si è incamminata..».
Con l’uso del titolo al maschile non vi può essere una soluzione soddisfacente dal punto di vista grammaticale, e la presenza dell’articolo maschile il connota ancor più incisivamente il maschile del titolo.
Il titolo maschile per la donna serve di perenne memento che la carica «spetta all’uomo».
Spesso il titolo al maschile si usa anche nei casi in cui il femminile esiste ed è normalmente impiegato in tutti gli altri registri linguistici.
Es.:
e così via.
Il femminile di senatore esiste ed è una forma perfettamente regolare e socialmente accettabile: senatrice (segue la regola —tore —trice). Nel caso di amministratore, direttore e segretario, i corrispondenti femminili sono normalmente usati: amministratrice, direttrice, segretaria, ma per cariche di minor prestigio. Per parlamentare europeo l’aggettivo è quello che dà il valore maschile, dato che il nome è epiceno!
Il desiderio, non sempre conscio di dar risalto al diverso livello della carica, è forse spesso il motivo che induce molte donne nei gradi più alti a preferire il titolo maschile, il che, d’altra parte, non fa che confermare che il genere maschile, in questo caso strettamente connesso al sesso maschile, è il più autentico detentore di prestigio e potere e che la donna, se vuole salire di grado, ad esso si deve adeguare.
La scelta di tali titoli da parte di qualche donna, oltre che una sfiducia nel proprio sesso, fa trasparire una connotazione classista.
Anche con agentivi epiceni (eguali al maschile e al femminile) si usa spesso l’articolo maschile quando si tratta di occupazioni o cariche di prestigio. (Es.: il Presidente della Camera Nilde Jotti).
Il nome di professione o mestiere al maschile è particolarmente ambiguo e pericoloso quando si tratta del mondo del lavoro. Ad esempio le offerte di lavoro sulla stampa (come dimostra l’indagine effettuata nell’ambito di questa ricerca)[6] continuano, nonostante le leggi, ad esser formulate, per la maggior parte dei posti, al maschile, con il sottinteso pretesto che può avere valore neutro. Pretesto che non regge ed è smentito dalla presenza di offerte al femminile (evidentemente non neutro) per posti di «segretaria» o di «dattilografa».
2) Uso del modificatore donna anteposto o posposto al nome base (titolo al maschile).
Esempi:
donna sindaco, donna ministro, donna questore, ecc. oppure sindaco donna, ministro donna, questore donna, ecc.
Queste forme sono dissimmetriche: non c’è un caso in cui uomo sia anteposto o posposto al titolo al femminile — uomo balia, uomo casalinga (o balia uomo, casalinga uomo) non esistono, mentre si possono sentire: balio e casalingo, sia pure in tono ironico — e segnalano chiaramente che quei titoli sono del maschio.
«La donna sindaco» deriva infatti dal sintagma «la donna che ha la funzione di sindaco», così come il «sindaco donna» deriva dal sintagma «il sindaco che (però) è donna».
3) Aggiungendo al titolo maschile per «formare il femminile» il suffisso —essa, suffisso chiaramente derivativo, che ha assunto una connotazione spregiativa, ridicolizzante o «ostile», come la definisce il dizionario Devoto-Oli alla voce «deputato»[7].
Tale suffisso nel suo uso iniziale (più vicino all’origine greca —issa) aveva una sfumatura accrescitiva, che poi nel suo sviluppo in epoca più tarda, con radici in correnti dialettali, è venuta ad esprimere l’«idea del grosso» (es. coltello-coltellessa) e «quella del rozzo» con evidente «valore peggiorativo». [8] La connotazione peggiorativa si è via via attenuata in alcuni nomi di professioni: dottoressa, professoressa, studentessa, grazie alla presenza massiccia delle donne in queste funzioni, senza peraltro essere del tutto scomparsa.
Il suffisso —essa viene spesso usato in casi in cui le regole stesse dell’italiano non To prevederebbero: «vigilessa» o «presidentessa» contro «vigile» o «presidente», mentre questi due sostantivi sono epiceni e quindi basterebbe cambiare l’articolo; «avvocatessa » contro «avvocato», mentre la radicale avvocat— (participio passato) dovrebbe essere seguita, come per gli altri participi passati, dalle due desinenze: —a per il femminile e o per il maschile.
Tutte queste forme non fanno che ribadire il concetto che il maschile (genere) è il parametro, che dal maschile si forma il femminile (sempre derivativo) ed il femminile è quello che «manca». Il principio base è sempre quello che il maschile (genere grammaticale) è superiore cosi come lo è il maschile (genere sociale) nella società.
Quando si parla di una donna o di un uomo in politica, in cronaca, nella vita sociale e culturale, la lingua fornisce forme diverse di segnalazione: l’uomo, se noto, viene generalmente designato col solo cognome (Cossiga, Moravia, Natta, ecc.), più raramente con nome e cognome (Francesco Cossiga, Alberto Moravia, Alessandro Natta, ecc.), eccezionalmente con il solo nome o diminutivo: Ron (per Ronald Reagan). La donna invece si sigla con il solo cognome preceduto dall’articolo la (la Jotti, la Morante, l’Anselmi, ecc.) o indicando nome e cognome (Nilde Jotti, Elsa Morante, Tina Anseimi, ecc.). Solo recentemente si incontrano talvolta sui giornali, soprattutto nei titoli, donne importanti designate col solo cognome (Falcucci, ecc.). Per personalità politiche straniere e nella cronaca spesso si usa il primo nome (Indira, Elena per Elena Massa, ecc., o un diminutivo (Maggie, Gerry, Cory, ecc.).
Il cognome preceduto dall’articolo si usa talvolta anche per l’uomo usi dialettali ma generalmente in contesti di cronaca, per persone non conosciute e di nessun rilievo politico o sociale (nell’incidente «il Rossi» restava ferito...). È ormai raro, se non obsoleto, l’articolo con nomi famosi: il Manzoni.
Davanti al nome di personalità politiche femminili, soprattutto straniere, si trova spesso l’appellativo signora: la Signora Gandhi, la Signora Thatcher. La spiegazione che ciò sía dovuto semplicemente all’uso inglese di Mr. Mrs. + cognome non è accettabile, perché noi non diciamo mai, ad esempio, «Il Signor Scargill».
Nel mondo della cultura il Signora... è profuso a piene mani, dimenticando spesso che la donna può avere anche un titolo: Prof., ecc. L’uomo invece ha praticamente tabuato il suo appellativo: Signor(e)... ritenendolo socialmente sminuente e preferisce fregiarsi di titoli professionali o onorifici.
Esistono ancora per la donna le due forme di «signora» e «signorina» che ne connotano l’appartenenza all’uomo o il presunto stato fisico e che coincidono con il cognome del marito o del padre, dissimmetriche all’appellativo unico di «signore» (coincidente con il cognome che l’uomo eredita dal padre e tramanda ai figli).
Si nota oggi la tendenza nell’uso quotidiano di unificare i due appellativi femminili nella forma di «signora». È anche questa, indicativamente, un’area di incertezza linguistica e di cambiamento.
Oltre gli aspetti formalmente linguistici, strutturali e morfologici, vi sono non poche caratteristiche del linguaggio, come viene generalmente usato a proposito della donna, che sono talmente stereotipate da diventare automatiche quasi come gli usi grammaticali. Nel campo semantico, nell’uso delle parole e delle immagini è difficile parlare di «regole» come per la grammatica. Vi sono però «regole d’uso», a cui ognuno di noi si attiene parlando e scrivendo, che ci vengono inconsapevolmente imposte quasi come le regole grammaticali.
Nella lingua parlata e scritta di ogni giorno, nella lingua cosiddetta «spontanea», raramente si attuano scelte consapevoli lessicali e di costruzione del periodo. Ed anche quando si elabora un discorso o un articolo, quando si ricercano, scartano e scelgono termini e costruzioni appropriate, le parole a nostra disposizione, i loro significati, le loro posizioni nel periodo, sono in gran parte determinate dalla consuetudine linguistica. Talvolta la parola o il costrutto usuale non è adeguato al nostro pensiero, provocando un momento di conflitto o di impasse nel pensiero stesso o di blocco di tipo «afasico». È ciò che le donne hanno provato quando, attraverso le scoperte e le insights della presa di coscienza femminista, hanno cominciato a guardare se stesse e i propri rapporti con gli altri con occhi diversi e tentato di rappresentare in parole queste nuove intuizioni. Ma le parole mancavano o erano talmente intrise di significati, di connotazioni impresse dalla visione patriarcale che non corrispondevano alla nuova immagine di sé e del mondo che cominciava a prender forma nel discorso delle donne.
Si trattava spesso di parole chiave quali: femminilità, maternità, il cui significato, dato per scontato, era il riflesso di un immaginario maschile che proiettava su di esse i propri bisogni ed i propri desideri. Ma la retorica maschile contagiava persino le donne che vivevano queste esperienze in prima persona, ingiungendo loro di viverle secondo i valori semantici patriarcali.
Molte di queste parole, infatti, come altre riferentisi a donne o alle loro esperienze hanno talmente semplificato e stereotipato il referente da togliergli la sua fondamentale complessità e tutta la dimensione esperienziale. Pensiamo alle parole: madre, maternità.
La sedimentazione storica dei significati delle parole è codificata e fissata dai dizionari (la cui lettura è illuminante, per non dire edificante) e rivela inequivocabilmente quello che è il pensiero comune sulla donna. Da tener presente che il dizionario è considerato il punto di riferimento per la correttezza della lingua. Ecco un esempio, niente affatto peregrino, delle definizioni date alle voci: «DONNA» e «UOMO» in due dizionari tra i più recenti e accreditati:
1) LESSICO UNIVERSALE ITALIANO (edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana):
Donna: La femmina dell’uomo.
Esempi: «una bella donna»; «una donna giovane e piacente»; «una donna di spirito»; «emancipazione della donna»; «i diritti delle donne»; «malattie di donne»; «lavori da donne».
Uomo: (signif. 2): Designazione dell’individuo di sesso maschile, in contrapposizione espressa o tacita a donna.
Esempi: «Dio creò la donna dalla costola dell’uomo»; «le lacrime non sono da uomini, ma da donnicciole».
2) DIZIONARIO DEI SINONIMI E DEI CONTRARI di Aldo Gabrielli — ristampa 1981:
Donna: femmina (dell’uomo) / figlia d’Eva, costola d’Adamo moglie, consorte, sposa, fidanzata, compagna, amante, druda / padrona, signora, gentildonna, matrona, madama, dama, madonna (at.) / serva, domestica, fantesca / (nei giochi) regina / bel sesso, gentil sesso, sesso debole, secondo sesso;
Uomo: creatura di Dio, persona, creatura intelligente, cristiano, essere umano, figlio di Adamo, figlio d’Eva, mortale, maschio, cittadino, soldato, guerriero / marito, sesso forte, viro / prossimo, genere umano, mortali / specie umana / adulto.
Da notare soprattutto in quest’ultima voce uomo la confusione tra i significati non marcati e quelli marcati dalla parola.
Dall’insieme di queste definizioni si potrebbe inferire che tali parole chiave non hanno più un significato denotativo, bensì quasi unicamente significati connotativi ed associativi. E di che tipo!
In questa indagine si è cercato di analizzare alcune parole chiave (a titolo esemplificativo), così come si sono rilevati gli stereotipi più comuni riferiti alle donne.
Vi sono aggettivi, sostantivi e persino verbi che hanno talvolta un «genere» secondo gli stereotipi donna/uomo. Ad esempio «fragrante, leggiadro, grazioso» si potrebbero definire aggettivi di «genere femminile», mentre aggettivi come «audace, potente», rientrando nella categoria «virile» possono definirsi di «genere maschile». Ma anche in questo caso non vi è completa simmetria. Infatti gli aggettivi «femminili» sono quasi colpiti da interdizione linguistica nell’uso con referente maschio: chi dice mai «È un uomo leggiadro»? Non vi è un’analoga interdizione per l’uso di aggettivi «maschili» con referenti donne, in quanto il maschile porta sempre con sé una certa connotazione positiva.
Non si potrebbe parlare di un «fragile signore», mentre si usa spesso la «fragile signora». Ciò segue una vera e propria regola semantica, secondo cui l’aggettivo anteposto al nome ha generalmente una connotazione diversa dallo stesso aggettivo posposto al nome (un pover’uomo/un uomo povero, ad esempio) e spesso l’aggettivo davanti al nome sta a indicare che la qualità da esso espressa è intrinseca al nome che modifica. La «fragilità», infatti, è una qualità considerata tradizionalmente intrinseca della donna. Nel linguaggio della stampa questo è uno stereotipo frequentissimo soprattutto in riferimento a donne di potere: se ne sottolinea la fragilità fisica o emotiva, la «femminilità» in contrasto con la posizione di potere e la forza che esse hanno; è una forma di riserva mentale o una maniera di esorcizzarne il potere, sempre sentito come «eccezionale» e «pericoloso».
Le immagini stereotipate usate per indicare questa forza sono disperatamente monotone: «polso di ferro», «mano di ferro», «la Lady di ferro»; la metafora «di ferro» è divenuta cosi scontata, così estenuata che si potrebbe definire, alla Orwell, «metafora morente» o «metafora vuota».
L’uso dello stereotipo non solo toglie vivacità alla descrizione, ma appiattisce l’individuo donna ad una generalità senza colore. Con queste metafore «di ferro» attribuite indistintamente a Golda Meir, a Indira Gandhi, a Margaret Thatcher si nascondono le grosse differenze dei tre personaggi, livellandole con un giudizio sommario e generico.
Gli stereotipi che si riferiscono alle donne — come agli esseri umani in genere — sono un condensato di ideologie e pregiudizi negativi ed hanno ben poca corrispondenza con la dinamica sociale delle donne oggi.
Lo stereotipo è un’arma subdola e pericolosa; esso contiene un grano di verità, un dato riconoscibile, che viene però estrapolato dal contesto dinamico e contraddittorio, viene generalizzato e congelato e diventa «ovvio». Un esempio può essere la nozione della «piccolezza» della donna. È vero che in molte razze umane l’individuo femmina è statisticamente più piccolo dell’individuo maschio. Da ciò la «piccolezza» diventa una caratteristica intrinseca della donna, estensibile dal fisico a tutti gli altri aspetti intellettuali, morali, e messa in risalto e ribadita in contesti dove è del tutto irrilevante (mentre quella dell’uomo è l’eccezione, un dato caricaturale) attraverso aggettivi, diminutivi gratuiti e inutili, riferiti non solo alle donne, ma anche agli oggetti che le circondano.
Per rendersene conto basterà riflettere sulla dissimmetria nell’uso di diminutivi e vezzeggiativi quando si parla di uomini.
Mentre è normale descrivere l’abbigliamento di una donna usando parole come «cappellino, scarpette, giacchina» sarebbe per lo meno strano parlare del «cappellino» delle «scarpette» o della «giacchina» di un uomo.
E cosi si continua a passare l’idea che la donna, anche se può eccezionalmente assurgere a certe posizioni di prestigio e di potere, in realtà è pur sempre, per natura, piccola, debole, fragile, indifesa quindi bisognosa di un uomo che le faccia da «protettore»!
L’uso continuo degli stereotipi — e noi tutte/i ce ne serviamo — di clichés, di frasi fatte, di luoghi comuni, di insulti al femminile («figlio di puttana», ad es.) ecc. riduce non solo l’oggetto del discorso, ma anche inevitabilmente chì lo usa.
Diceva Orwell (1954) che la prosa inglese moderna e soprattutto quella degli scritti politici era caratterizzata da un misto di vaghezza e di pura incompetenza... Non appena si sollevano certi argomenti, il concreto si dissolve nell’astratto e nessuno sembra in grado di pensare in giri di frase che non siano triti e ritriti: la prosa consiste sempre meno di parole scelte per il loro significato e sempre più di locuzioni attaccate l’una all’altra come le sezioni di un pollaio prefabbricato». Ed il suo consiglio a giornalisti e politici era: «sia il significato a scegliere la parola e non il contrario. Nella prosa la cosa peggiore che si possa fare con le parole è di arrendervisi».
Dell’interdipendenza tra lingua e pensiero Orwell era ben consapevole: «Il nostro inglese diviene brutto e impreciso perché i nostri pensieri sono sciocchi, ma la sciattería del nostro linguaggio agevola i pensieri sciocchi. Il punto è che il processo è reversibile».
Le dissimmetrie nel discorso sugli uomini e sulle donne corrono sul filo conduttore delle nozioni stereotipate: oltre all’uso dissimmetrico di aggettivi «di genere femminile», di diminutivi e vezzeggiativi, cui si è prima accennato, vi sono anche casi di polarizzazione semantica di aggettivi e sostantivi, che acquistano cioè significati diversi se modificano un nome maschile o femminile (es.: una buona donna / un buon uomo; una donna onesta / un uomo onesto; una donna leggera / un uomo leggero e anche: un governante / una governante). In queste polarizzazioni semantiche si può notare la costante che la connotazione della parola riferita alla donna viene dal campo semantico sessuale o dall’area casalinga e familiare. Questa è un’ulteriore dimostrazione del presupposto che le donne «servono» agli uomini: o come oggetti sessuali e di piacere estetico, o come nutrici, custodi, vestali e così via. In breve le donne non hanno diritto (nella lingua come si vorrebbe ancora che fosse nella società) ad una esistenza autonoma, per sé, ma la loro vita, le loro azioni sono giustificate solo se sono in funzione di un uomo — e, per delega da parte dell’uomo, — dei bambini, dei vecchi, della specie.
Questa ideologia, complementare a quella della «superiorità dell’uomo sulla donna» è sottesa a tutta la lingua.
La reificazione della donna emerge anche dall’uso frequente di sineddochi (la parte per il tutto!) quali: la bionda, la rossa, la bella, ecc., che sono la controparte verbale di molte immagini pubblicitarie di gambe, seni e «pezzi» vari del corpo femminile.
Vi è poi la consuetudine linguistica di identificare la donna attraverso l’uomo — i giornali sono pieni di: la moglie di..., la donna di..., la figlia di..., la vedova di... (ma perché non si potrebbe designare Ranieri di Monaco come il vedovo di Grace Kelly)?
La priorità del maschile nelle coppie oppositive, le dissimmetrie degli appellativi e dei nomi e la nozione di donna proprietà e appendice dell’uomo si saldano nelle forme abituali di presentazione delle coppie su giornali, riviste e nella lingua d’ogni giorno: «Il Prof. Rossi e signora», «L’ing. Bianchi e la sua signora», «L’avv. Neri e moglie», ecc. dove molte volte la «signora» è altrettanto nota o altrettanto ignota quanto il marito.
Ma oltre a questi e ad altri elementi linguistici particolari vi è soprattutto un «registro» speciale che si usa parlando delle donne nei mass media: si tratta di un meccanismo psicologico, generalmente involontario. È un tono in linea di massima riduttivo ed anche superficiale, perché il peso del discorso è spostato sulla «femminilità» (stereotipo) e non poggia sul contenuto del messaggio e della notizia. Si potrebbe obiettare che ciò è del tutto naturale perché, ad esempio, una donna «primo ministro» costituisce novità in quanto è donna! Si dimentica però che, al di là delle intenzioni di chi scrive, l’effetto su chi legge è di spostare l’attenzione sul suo essere donna (stereotipo) invece di attirarla sulle sue azioni (positive o negative) in quanto ministro e di scatenare sentimenti atavistici di «sfiducia» e «diffidenza» nei riguardi della donna in tale ruolo.
E cosi le donne importanti nel mondo politico, culturale, imprenditoriale sono inesorabilmente ricondotte dalla stampa allo stereotipo della «femminilità» con minuziose e generalmente non pertinenti descrizioni del loro aspetto e abbigliamento, con risalto particolare delle loro qualità «intrinseche» di «madri», «mogli», «donne di casa», messe a contrasto (quindi in contraddizione) con il loro ruolo pubblico e di potere. Quest’ultimo viene riconosciuto, indicativamente, con la designazione al maschile, portatore di valore. In tal modo la donna è schizofrenicamente divisa tra la sua «femminilità» (rassicurante) e l’abito» maschile, che la abilita a gestire certi poteri!
Anche nelle interviste a donne di spicco, la formula prevede sempre domande sul «personale», sulla famiglia, sugli amori.
«...Elda Pucci ha appena appreso di essere stata designata dalla DC a sindaco di Palermo. ’È contenta? Ne ha già parlato con la mamma, con cui vive?’ ’No dice la Professoressa Pucci non l’ho ancora fatto altrimenti non dormirebbe... ’Elda Pucci ha 51 anni, è nubile, libera docente di clinica pediatrica e primario dell’Ospedale dei bambini... ’Elda Pucci ha paura di fare il sindaco a Palermo?’ ’Certo, la mafia c’è afferma ma in questo contesto viviamo da sempre...». (II Messaggero, 3/4/83).
L’opinione dei componenti della famiglia è quasi d’obbligo quando si tratta di donne. Altra domanda di rito «Come concilia il suo lavoro con famiglia, figli, ecc.?», che, pur toccando un punto dolente della vita delle donne, posta in questi termini dà per scontata l’ineluttabilità del conciliare. È da notare che nelle interviste, l’intervistata stessa può difficilmente sottrarsi a questo gioco, anche quando non lo condivide:
(Marisa Bellisario) «A 45 anni, denunciati con la civetteria della bella donna, M.B. è la ’manager della nuova ondata’»... D.: «’Miracolo, genio?’ R.: ’Ma no, basta solo un po’ di fantasia e un certo amore per il proprio lavoro’ ... La signora B., sposata felicemente senza figli...coccolata dalla stampa e dalla televisione. È fotogenica, indossa un pullover rosa confetto, sul quale si posa una collana liberty pure rosa. E rosa sono anche gli orecchini... D.: ’Da ragazza ha sognato di fare l’attrice? Ha mai avuto una collezione di bambole? ’R.: ’Per carità, niente bambole. Da ragazza ho avuto un grande modello, Salgari’...» D.: ’Le sarebbe piaciuto di essere la donna di Sandokan...?’ R.: ’Ma no, io volevo essere proprio Sandokan. Mi piaceva il suo modo di fare, diretto e impetuoso... D.: ’Lei ammette di essere vanitosa?’ R.: ’Non lo nascondo affatto e le aggiungo che non è una prerogativa esclusivamente femminile...’».
Nei titoli dei giornali sovente viene estrapolato un elemento del tutto marginale nel testo ma connotato sessualmente, enfatizzandolo a tal punto da far sparire il vero contenuto dell’articolo. Anche nei titoli, quando si parla della donna, si usano spesso toni faceti, ammiccanti o condiscendenti, mentre per l’uomo si usano toni sobri, seri, anche quando ostili. Ad esempio, i titoli qui sotto riportati si riferiscono ad una serie di articoli su personalità del mondo del lavoro, apparsi sul Corriere della Sera, recanti la stessa firma. La differenza nella indicazione delle tre personalità, nella scelta lessicale e nel tono si commentano da sole:
’Non so bene cosa voglia dire oggi essere conservatore’. (2/3/85)».
’Mi sono sempre alzato un’ora prima degli altri (1/3/85)».
’Sono cresciuta sognando di essere Sandokan’(27/2/85)».
Gli aspetti qui rilevati e analizzati non sono che alcune manifestazioni di sessismo mentale che emergono alla superficie della lingua. Il terreno da indagare è vastissimo e in gran parte inesplorato. Questa ricerca non ha quindi nessuna pretesa di esaustività né di completezza. Si tratta di una prima indagine che vorrebbe stimolare studi e ricerche da parte di linguiste e linguisti sensibili a questo problema ed una proposta di lettura diversa della lingua dei giornali, cosi come della lingua quotidiana.
Nella seconda parte della ricerca si daranno dei suggerimenti di possibili alternative che evitino almeno alcune delle forme più pesantemente sessiste, ma lo scopo fondamentale di questo lavoro è di stimolare la presa di coscienza che la lingua non è nė «neutra» né «neutrale» e che essa influenza fortemente i comportamenti umani e sociali.
- Testi in cui è citato Bertrand Russell
- Testi in cui è citato Alfred North Whitehead
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Nilde Iotti
- Testi in cui è citato Francesco Cossiga
- Testi in cui è citato Alberto Moravia
- Testi in cui è citato Tina Anselmi
- Testi in cui è citato Alessandro Manzoni
- Testi in cui è citato George Orwell
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