Importante scoperta del famoso tarèno di Amalfi/Capitolo I

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Prodromo Capitolo II


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Quidquid sub terra est, in apricum
     proferet aetas,
Defodiet condetque nitentia

Horat., epist. VI,
lib. I, v. 24.



Capitolo I.


L’antica civiltà delle nostre contrade, i fasti, le grandezze e l’autonomia delle città, onde un giorno andavan superbe, meglio dai monumenti che dagli storici possiam ritrarre. Una moneta, una lapide, un rudere venuto fuori, furono soventi volte e saranno all’archeologo indizio e documento di storiche scoperte, per le quali il nostro passato, già sì ricco di belle memorie, sempre più chiaro addiviene e più glorioso.

D’altra banda, la civiltà presente, cotanto operosa e diligente nel disotterrare e nel rintracciare le memorie di quella che l’ha preceduta, non può esser meno sollecita di tramandarle, e, dirò quasi, legarle alla forse più matura e profonda de’ dì che verranno.

Ciò posto, di non lieve momento è da riguardarsi la [p. 6 modifica]novella scoperta dell’antichissimo e singolare tarèno o tarì d’argento di Amalfi, già sino ad ora, come dicemmo, affatto sconosciuto e lungamente sepolto nella notte de’ secoli; cosicché la cotanta sua rarità e tenebrìa dato aveva a sospettare a qualche antiquario intorno alla sua realtà. Ma al fine il rinvenimento di esso è giunto a stenebrare ogni dubbio nato dalla sconoscenza; ed ora può ognuno a prima giunta ben vederlo qui impresso nel frontispizio, ritratto a fac-simile, giusta il modulo originale. E perchè poi il leggitore possa averne opportuno schiarimento stimiamo discorrerla per sommi capi.

Il tarèno o tarì è forse la prima moneta che siesi coniata dopo la caduta dell’Impero Romano. Ad ogni modo è di sicuro ch’esso è l’antichissima moneta dell’illustre Repubblica amalfitana.

Dalla testimonianza d’infinite scritture del medio evo si ha, che i tarèni amalfitani eran di oro e di argento; ma i primi rimangono tuttavia irreperibili e sconosciuti da per ogni dove1 .

Intorno ad essi qualche cosa ne disse di passaggio [p. 7 modifica]il nostro Chiarito2 e più diffusamente il Fusco3 il Minervini4 il Capialbi5 ed altri. Ma il Muratori credette meglio a passarsene sotto silenzio6. Sembra però a bastanza verisimile che i nostri tarèni d’oro, eccetto il peso, poco o nulla differenziavano da quelli di argento per la lor forma, leggenda e fattura; e principalmente per la piccola croce contrassegnata nel centro dell’area e da ambe le facce. Tale nostra opinione ha fondamento bastevole nelle seguenti parole, espresse in una pergamena dell’archivio badiale Cavense, in cui si dice Landonius et eius heredes dent illi homini, cui ipsa charta in manu paruerit quinquaginta solidos, quorum quisque habeat AURI TARENOS bonos Amalfitane monete, in quibus CRUX FORMATA pareat7.

De’ soldi d’oro, creduti immaginari8, ripetutamente troviam fatto ricordo nelle carte antiche di Amalfi, di Ravello, di Napoli, di Capua, de’ monasteri Cassinense, Cavense ecc., egualmente che de’ tarèni amalfitani d’oro e d’argento. [p. 8 modifica] L’origine di questi ultimi rimonta al cominciare del X secolo; ed in ciò convengono tutti gli eruditi fuor d’ogni contrasto. Il conte Carli9 concettosamente asserì, che il tarèno fu coniato a Taranto per la prima volta, e che da essa ne abbia preso il nome. Per altro, questa sua opinione venne confutata dal dotto canonico siciliano Dom. Schiavo, il quale ebbe a dire: « se noi ritroviamo notizia del tarì d’oro sino a quei tempi, in cui gli Arabi dominarono nella nostra Sicilia, dalla voce saracenica Tarain, o caldea Tarija, che commercio, negozio, e mercatura significano, dee ricavarsi l’origine di questa moneta»10 .

Da ciò, se l’amor di patria non ci facesse velo, saremmo per affermare che gli Amalfitani non immeritamente sin dal X secolo e forse anco qualche tempo prima avevan adottato ed imposto alle loro monete d’oro e di argento il nome di tarèno, come vocabolo allegorico al loro gran commercio, di cui faremo brevemente parola qui appresso.

D’altronde non sembra che si possa concedere agli arabo-saraceni di Sicilia una priorità di tempo sugli Amalfitani nel battere le loro monete; perocché sappiamo che quelli non cominciarono a spendere i così detti moezini, se non nella seconda metà del X secolo, allorché vennero [p. 9 modifica]coniati per la prima volta dal califfo Al Moez ledini ’llah, asceso al trono nel 953. Senza parlare delle monete beneventano-longobardiche, che sin dal VII secolo si spendevano in queste provincie; egli è fuor di dubbio che nel secol X pieno corso avevan tra noi le monete greche, sotto la varia denominazione di bizanzi, michelati, costantinati, romanati ecc., e precipuamente il nostro tarèno; il quale ci porge una prova rifulgente della celebrità del commercio amalfitano. E per vero, non havvi chi ignori l’esteso e ricco traffico che facevan gli Amalfitani nel X e XI secolo in quasi tutto l’Oriente, in cui non era città marittima de’ Musulmani ove non fosse una banca amalfitana. Essi commerciavano in Gerusalemme e vi fondavano un nosocomio prima che si fosse parlato di crociate. Le loro navi provvedevano ciò che mancava alla Palestina, riportando poi in patria delle preziose derrate quivi acquistate, e con desiderio di trasportarvi delle nuove. Laonde Guglielmo arcivescovo di Tiro favellando di costoro, lasciò scritto: Huius regionis habitatores (Amalphitani) primi merces peregrinas quas Oriens non noverat, ad supradictas partes (Syriae) inferre tentaverunt11.

Noi troviamo sin dal IX secolo (880) questa gente industriosa, sparsa dovunque ed applicata al traffico, tenere banca anco nel territorio di Roma12; il che dimostra [p. 10 modifica]di aver essa preceduto di qualche secolo i Pisani ed i Genovesi nelle cose commerciali13.

Non diciam nulla de’ Veneziani, che molto tempo innanzi erano stati i primi ed unici a fissare un gran commercio ed a possedere il monopolio dell’Oriente. Tuttavia egli è piucchè certo che gli Amalfitani prima del XI secolo eran già valenti navigatori, costruttori esperti di legni di portata, sagaci osservatori del mare e degli astri, e più che più abilissimi nel commercio senza un libro che loro apprendesse quest’arte.

Odasi di grazia il magnifico ritratto che fa di Amalfi Guglielmo Pugliese poeta e storico all’epoca della conquista de’ Normanni14 — Per fermo nessuna città mercantile può vantare un elogio più lusinghiero di questo in età così remota:

Urbs (Amalphis) haec dives opum populoque referta videtur;
Nulla magis locuples argento, vestibus, auro.
Partibus innumeris, ac plurimus Orbe moratur
NAUTA MARIS, COELIQUE VIAS APERIRE PERITUS15

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Hic et Alexandri diversa feruntur ab urbe,
Regis et Antiochi: haec freta plurima transit.
Hic Arabes, Indi, Siculi noscuntur et Afri:
Haec Gens est totum fere nobilitata per Orbem
Et mercanda ferens et amans mercata referre.

Noi diamo qui una versione di essi versi, che offriamo a coloro i quali non gustano troppo il sermone del Lazio:

Questa città (Amalfi) di popolo e ricchezza
Abbonda; e sfolgoreggia in vesti, argento
Ed oro, quanto mai altra qualunque
Città famosa. In numero ha nocchieri
Bramosi di sfidar venti e procelle;
E in Alessandria vanno, e cento lidi
Remoli; a que’ dell’Affrica son conti:
Agl’Indiani, agli Arabi di merci
Recan dovizia, e fanno in cambio acquisto
Di paesane merci. In ogni terra
Questa città di maraviglia è nome.

Un popolo adunque sì cospicuo che tanto lontano trascorse ne’ mari di Oriente e del Mezzogiorno, già ricco di oro, e, che più d’ogn’altro faceva ammirare in Asia [p. 12 modifica]i prodotti della sua industria, non era certamente ignaro di regole e di cognizioni necessarie, nè tampoco sprovvisto di un proprio codice marittimo, già noto sotto il nome di Tavola Amalfitana. Lungi dall’attendere lezioni di navigare e di trafficare dagli Arabi (come altri sognò), gli arditi nostri marinari approdavano a Famagosta (ant. Salamina), e di là correvano instancabilmente il mare dalle vicinanze di Laodicea sino ad Alessandria, donde facevan giungere le doviziose lor mercanzie sino alla città di El-Káhira o Mars (ant. Babilonia) sulla destra del Nilo.

Fuor dubbio, un buon accordo e delle reciproche relazioni commerciali passar dovevano fra gli Arabi e gli Amalfitani, a malgrado dell’odio di religione che divideva le due nazioni. Ma i primi non potevan vantarsi gran fatto superiori ai Cristiani nel viver civile, nel sapere e nella finezza delle arti.

Se alcuni edifizî sacri, già costrutti da valenti artefici amalfitani ne’ bei giorni di Repubblica, non fossero stati spietatamente rabberciati e deturpati dai moderni correttori nel XVII e XVIII secolo16, quelli ci farebbero oggidì luminosa testimonianza dello stile, del gusto e della maniera tutta propria de’ nostri nell’architettare e nel decorare. Non ostante di ciò, dai pochi vestigi che [p. 13 modifica]rimangono di essi monumenti, ben possiamo argomentare che quelli non si discostaron gran fatto dallo stile di architettare bizantino ch’era allora molto usitato nelle nostre contrade17. E comunque l’imitare non è copiare, così e non altrimente, gli Amalfitani, col frequentare i luoghi d’Oriente, presero da tutti, e si avvantaggiarono combinando e riunendo quanto sparso eravi colà di meglio in materia di scultura e di architettura.

Cotanta lor perizia nelle arti meccaniche e nell’edificare fece ad essi acquistare non poca rinomanza; cosicchè troviamo gli stessi Amalfitani insieme co’ Lombardi «peritissimis artificibus » chiamati a lavorare nella celebre chiesa di Montecassino dall’abate Desiderio nel 106618. L’istoria non ci ha tramandato i lor nomi, siccome di tanti altri valenti nostri artisti che rimangon tuttavia nell’obblio:

Multi, sed omnes illacrymabiles
Urgentur, ignotique longa
Nocte .....19.

Or dopo questa breve digressione, la quale ci ha alquanto allontanati dal nostro assunto, ripigliandone il [p. 14 modifica]filo, ci facciamo immediatamente a discorrere del rinvenuto nummo amalfitano.

Note

  1. Il Chiariss. archeologo Domenico Spinelli, principe di S. Giorgio, non ha guari defunto, e della cui amicizia tanto ci onoravamo, quanto pregiavamo la sua dottrina, non ebbe affatto conoscenza del tarì d’oro e d’argento di Amalfi, siccome scorgesi dalla laboriosa ed interessante sua opera sulle Monete cufiche battute da principi longobardi, normanni e svevi nel Regno delle Due Sicilie; in fol. — Napoli, stamperia dell’Iride, 1844.
  2. Chiarito, Comento istorico-critico diplomatico sulla costit. di Federico II, ecc. Part. 2, cap. 5, pag. 111.
  3. Salvat. Fusco, Dissert. sul ducato di re Ruggieri. Napoli 1812.
  4. Giul. Minervini, Graecum diploma ἁνέκδοτον etc. cui accedit excursus de auri Tarenis, etc. Neap. 1838.
  5. Cav. Vito Capialbi, Sulla moneta battuta in Catanzaro il 1528, a pag. 8 seg. — Messina 1839.
  6. Muratori. Dissert. sopra le Antichità Italiane. Tom. 2, dissert. 28.
  7. Archiv. Cavens., arc. 101, n.° 272.
  8. Salv. Fusco, Dissert. sul ducato di re Ruggieri, pag. 4.
  9. V. Gio. Rinaldo Carli, Sulle Zecche d’Italia. Tom. I, pag. 156.
  10. Cav. Domen. Schiavo, Il tarì d’oro, Dissert. tra gli opusc. di scrittori siciliani. Tom. XVI, pag. 225.
  11. Guillel. Tyriens. de bello sacro lib. 18, cap. 4.
  12. Epist. CCXLII papae Johan. VIII, data XIII Kal. decemb. Indict. XIII (880) in collect. Concilior. incipit: Joannes episcopus ad Amalfitanos, Multa vobis bona facere, etc.
  13. Denina, Rivoluzioni d’Italia, lib. VIII, cap. XII.
  14. Guillel. Apulus de reb. Normann. in Sicilia, Apulia et Calabria gestis, usque ad mortem Roberti Guiscardi; apud Murator. Scriptor. rer. Italicar. Tom. V.
  15. Peritus; altri scrissero Paratus — Questo verso, dettato in età remota, fa bellissima testimonianza della pratica e perizia degli Amalfitani nella navigazione; la quale più tardi cangiar doveva d’aspetto, mercè l’invenzione della bussola del concittadino Flavio Gioia.
  16. Tale scempio ebbero a subire il duomo di Amalfi costrutto nel 980 — la maggiore chiesa di Ravello (1086) — e l’altra di S. Giovanni del toro (1018) — Lo dica chi ha occhio artistico e fior di senno.
  17. Fu allora principalmente usato l’arco acuto, cotanto in voga, non che quello stile impropriamente chiamato per molti secoli gotico, ma con più verità detto dai francesi ogivale.
  18. Chronic. Cassinen. lib. 3, cap. 28.
  19. Horat. od. IX, lib. IV, v. 26 seg.