Interviste dal libro "Dialoghi D.O.C. con manager di qualità"/Intervista a Fulvio Tessitore

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Intervista a Fulvio Tessitore

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Dialogando di management col Prof. Fulvio Tessitore il 18 gennaio 1996
ore 18:00 nello Studio del Magnifico Rettorato dell’Università di Napoli


Secondo la definizione classica, accettata però anche dagli studiosi oggi operanti nel settore, il management è un connubio tra arte e scienza, in quanto è necessaria la preparazione specialistica per essere efficienti sul piano operativo, ma ciò non toglie che il manager debba di volta in volta inventarsi in un certo senso e per buona parte la soluzione ai problemi che deve risolvere. E’ una definizione che Lei sente di poter condividere?

In linea di principio sono sempre diffidente nei confronti di spostamenti dei problemi dai loro campi specifici ad altri con l’idea, il progetto, l’illusione di ampliare l’ambito tematico, di nobilitare, ammesso che questa sia la parola adatta, un certo settore professionale. Ritengo che il cosiddetto (per lo meno in italiano) manager abbia alcune sue caratteristiche, tra le quali certamente c’è quella di una capacità di programmazione e, quindi, di proiezione della situazione che ha davanti verso possibili sviluppi. Se proprio questo debba risolversi in un connubio tra arte e scienza, non lo so. Sostanzialmente credo che sia giusto che un manager abbia una capacità, diciamo così, di valutare in una visione prospettica i problemi. Naturalmente, dire questo significa dire qualcosa di tanto generale da essere generico perché anche questa prospettiva acquisti poi una sua specificità.


Anche il buon meccanico sa dell’importanza di usare l’attrezzo adatto per uno specifico lavoro, tuttavia il manager per fare il suo lavoro non si serve di attrezzi, ma di uomini, deve quindi sviluppare la sua abilità nell’adoperarsi a far agire meglio i suoi uomini. Posso esprimere grosso modo così in italiano quello che è il pensiero portante di uno dei padri del management come scienza: Peter Drucker. Qual è il Suo commento?

Io non so se soltanto il manager abbia a che fare con uomini e non con attrezzi. La mia impressione è che chiunque svolge un’attività professionale consapevole ha la necessità di un rapporto: addirittura filosoficamente sono convinto che il soggetto è costitutivamente alteristico, che l’uomo è per natura non un esistente, ma un co-esistente, quindi mi pare evidente che questa capacità di rapportarsi agli altri debba essere tenuta in particolare evidenza. Ancora una volta (lo dico con un piccolo sorriso) io sono convinto che già vi sono troppe filosofie, per cui sarei un poco diffidente verso una filosofia del management.


Nella domanda precedente si pone l’accento sul fatto che l’elemento umano è predominante nel management tanto da imporsi all’attenzione di chi opera nel settore per decidere quale modello seguire nei rapporti interpersonali: quello gerarchico a piramide, o quello a cerchio basato sulla cooperazione. Lei quale preferisce?

Con questa domanda entriamo di più in una dimensione, come dire, funzionale, modellistica dell’attività di management. Ora, anche qui credo che sia difficile scegliere: è chiaro che su un piano di principio nessuno intende negare il modello cooperativistico e democratico, salvo chi ha il coraggio (ma oggi è sempre più difficile trovarlo) di dichiararsi deliberatamente anti-democratico, conservatore o reazionario. In genere piuttosto si verifica il contrario. Sarei lieto di trovare qualcuno che lo dichiarasse, invece siamo tutti democratici, tutti progressisti, tutti proiettati verso il nuovo ed il diverso. Quindi, sul piano teorico generale, come dicevo, non c’è dubbio che l’elemento della cooperazione debba essere l’elemento prevalente. La mia stessa risposta alla precedente domanda in qualche modo lo anticipava. Tuttavia, mi rendo conto benissimo che tale affermazione potrebbe essere interpretata come una stupida illusione o una forma di ipocrisia. Sostenerla non vuol dire che io non ammetta che vi sia la necessità anche nell’attività manageriale di una dimensione decisionale, e pertanto - come dire - di un rapporto gerarchico. Si tratta di coniugare, che è poi il significato più vero della democrazia, la coesistenza, la cooperazione con la responsabilità: decidere è un atto di responsabilità, non è soltanto o prevalentemente un atto di comando o di imperio. Ora, vi sono momenti in cui chi ha la responsabilità della conduzione di un’impresa, di un’istituzione, etc., ha l’obbligo o la responsabilità di decidere, e la decisione può essere valutata nelle sedi opportune. Questo significa anche democrazia: la possibilità di togliere il consenso da parte di chi non condivide la decisione, ma non può essere discussione permanente, la democrazia non può essere perdita di tempo, perché questo è precisamente il contrario della democrazia.


Non crede che proprio la centralità dell’uomo che riflette su come risolvere i suoi problemi di vita pratica e su come potenziare le sue capacità a tal fine costituisca un forte legame, che io vedo prepotente nella mia mente, del management con la filosofia?

Per rispetto del management io direi che è un’attività specifica, non capisco perché la dobbiamo nobilitare battezzandola con una filosofia. Naturalmente, se adoperiamo il termine filosofia nel senso generico della parola, così come si dice che c’è una filosofia dell’andare a cavallo, allora c’è probabilmente anche una filosofia del management.


Quel <<Conosci te stesso>> di socratica memoria è il comune spartiacque delle due discipline che nacquero ad un parto, secondo il mio avviso, perché non sono altro che le due facce della medesima medaglia, l’uomo, nel duplice manifestarsi della sua attività mentale o spirituale o come altro si voglia dire, che è contemplazione teoretica da una parte, e azione pratica dall’altra: non vi può essere l’una senza l’altra, e viceversa, non Le pare?

Credo non vi sia bisogno di andare ad evocare Socrate. Io amo ricordare una tradizione più vicina a noi, e naturalmente più incidente perché più rispondente ad una serie di problemi contemporanei, che è quella che Dilthey enuncia nell’introduzione all’Einleitung quando parla dell’uomo intero: fisico e morale. Questa è una riflessione che peraltro già in Dilthey arriva al culmine di un processo in qualche modo più lungo. Alcuni degli autori, ai quali io sono molto vicino perché li ho molto studiati (da Goethe a Humboldt, per non parlare di Kant), avevano già posto, all’interno di una discussione diretta ed indiretta del significato antropologico del kantismo, questo rapporto. Si sa bene che anche in Kant il rapporto dei sensi con la spiritualità è determinante tanto che Kant è stato definito da Schiller il Dracone della Germania: è un problema che la grande svolta della filosofia kantiana pone all’attenzione della cultura contemporanea. Personalmente, come ho già detto, credo che bisogna fare riferimento a questo uomo intero. Naturalmente, detto questo ancora una volta si fa un’affermazione di carattere generale: la mia interpretazione della situazione è non idealistica, ma da un certo punto di vista anche la circolarità neo-idealistica e crociana del mondo dello spirito teoretico e pratico si può dire che va nella stessa direzione. Quindi, ritengo che questa sia una direzione del sapere contemporaneo. Tuttavia, le interpretazioni per fortuna sono e possono essere diverse tra di loro.


Del resto, soltanto chi ha fatto un lungo tirocinio di miglioramento delle proprie potenzialità, solo chi ha a lungo riflettuto sia sulla sua interiorità sia sul mondo esterno è in grado di capire quali corde toccare nell’altro per farlo scattare e muovere all’unisono con sé stesso. Si dice, infatti, che un buon manager è colui che ti manda al diavolo e tu ci vai di corsa. Con ciò voglio dire che uno dei principali compiti del manager è quello di far fare ad ognuno il proprio lavoro addirittura con entusiasmo: in ciò consiste la cooperazione con i propri uomini, che se adeguatamente sviluppata non solo evita ogni tipo di malcontento e di reclamo, ma innalza anche il livello di produttività sia per qualità che per quantità. Vorrei qualche Suo commento in proposito.

Certo, questa domanda rappresenta una situazione che sostanzialmente è una situazione generale di chi ha appunto una capacità di rapporto con gli altri, anche se espressa in maniera molto divertente dando un certo significato positivo all’affermazione che <<chi ti manda al diavolo...>>. Naturalmente, io ho sempre un poco di preoccupazione di una formulazione che attribuisca a qualcuno la capacità di far fare ad altri ciò che si vuole, anche perché (ho detto prima che sono uno studioso di Humboldt) non posso dimenticare le critiche che questi muove allo Stato del bene comune, alle concezioni eudemonistiche, che si esprimevano nella formula fridericiana <<ragionate ma ubbidite>>. Io per la verità non credo in questa formula, non credo neppure che corrisponda alle concezioni contemporanee delle istituzioni, delle comunità etiche, delle aggregazioni sociali.

Presumo che sia diverso il significato dell’affermazione come qui viene fatta: essa vuole significare, credo io, che chi ha una responsabilità di governo e di gestione deve avere una capacità di organizzazione del lavoro in modo da far sì che ognuno manifesti al meglio le proprie potenzialità. In questo senso io concordo con questa opinione; al contrario, una concezione decisionistica che renda un individuo interprete degli interessi degli altri in nome del bene comune, come una volta il sovrano era l’interprete del benessere dei sudditi, mi sembra sbagliata oltre che superata dalla storia.


In che modo la Sua formazione nel campo degli studi filosofici in senso specialistico L’ha aiutata ad affrontare e condurre in questi anni la carica di Rettore del nostro Ateneo?

Lei sa bene che vi sono delle ricerche anche di ordine statistico, le quali hanno potuto affermare e dimostrare che il laureato in filosofia agisce meglio, che so, del laureato in ingegneria nei compiti dirigenziali. Come al solito ogni assolutizzazione finisce con l’essere una generalizzazione. Non so se sia vero, probabilmente ci sono l’una situazione e l’altra. Piuttosto a me sembra che tale affermazione dica un’altra cosa, e sia giustificata da un’altra considerazione: una considerazione secondo la quale lo studio filosofico è prevalentemente uno studio di tipo metodologico, uno studio che abilita ed abitua alla problematicità, all’individuazione dei problemi: cioè un tipo di studio che in qualche misura rende più facile la conversione. Ora, sappiamo da altri dati di fatto, oramai anche questi consolidati, che alcuni decenni fa il bagaglio di nozioni acquisite dalla formazione superiore, dalla formazione universitaria era sufficiente per l’intera vita lavorativa di un uomo, stimata mediamente in una trentina d’anni; al contrario, oggi in trent’anni un lavoratore deve avere la capacità di convertire due o addirittura tre volte il proprio lavoro, le proprie capacità di lavoro. Ecco, allora, che uno studio di carattere più metodologico, più problematico dà una maggiore facilità a questa capacità di conversione.

Per quanto mi concerne personalmente non credo di poter dire che il fatto di essere uno studioso di filosofia mi abbia consentito di fare bene o male, o meglio o peggio il lavoro di Rettore, perché l’affermazione potrebbe essere male interpretata, ma non lo dico per la preoccupazione di una cattiva interpretazione: Rettori dell’università ve ne sono stati di tutte le discipline e come in tutte le cose del mondo vi sono stati ottimi Rettori e cattivi Rettori prescindendo dall’ambito disciplinare di provenienza. Piuttosto mi preme dire che il Rettore di un’università è certamente un uomo che, date le dimensioni, in modo particolare, di un’università come la nostra (la seconda in Italia ed una delle più grosse del mondo), vista la mostruosità delle dimensioni di alcune università italiane, il Rettore di un’università deve avere certamente una responsabilità e quindi anche una competenza o farsi una competenza di tipo gestionale. Ma di una gestione un poco particolare: guai se il Rettore di un’università fosse soltanto un manager, non l’ho mai creduto anche quando questo veniva presentato come l’elemento vincente di certe scelte, perché questa sarebbe una esclusione a rovescio di quello che dicevo prima. Se prima avessi risposto sì alla domanda così come formulata avrei escluso tutti quelli di un’area non umanistica, se adesso accettassi questa impostazione comporterei l’esclusione degli altri: debbo però dire che il Rettore di un’università non può essere soltanto un manager perché l’università è prevalentemente un istituto di ricerca e di formazione, di formazione culturale ma anche di formazione civile, di formazione morale. Quindi, il Rettore di un’università non deve mai dimenticare di essere un professore, uno studioso e possibilmente, se ne ha le capacità, un ricercatore. Approfitto per dire che non mi considero un eroe per il fatto che continuo a fare regolarmente lezione, caso mai la faccio ad un numero inferiore di studenti, perché sono costretto a farla alle otto del mattino, ma ne ho trovati di disponibili anche ad alzarsi un poco prima per sentire la mia lezione. Ritengo che sia necessario che, come dicevo, un Rettore non dimentichi mai di essere prevalentemente uno studioso ed un docente. E’, dunque, giusto e necessario che io faccia lezione. Inoltre, sono riuscito fino ad ora a continuare la mia attività di ricerca, anche nei moltissimi anni che sono stato Preside della Facoltà. Ora, certamente, l’ho dovuta in parte ridurre: non ho la presunzione di avviare ricerche del tutto nuove, ho compiuto la scelta di proseguire gli studi nelle linee di ricerca in qualche misura consolidate della mia produzione scientifica. Questo non solo perché faccio il Rettore, ma anche perché quando si è in prossimità dei sessant’anni bisogna consolidare alcune linee di ricerca, poi se uno ha tempo e volontà ne apre qualcuna nuova.

Ritengo tutto ciò essenziale quale che sia la provenienza culturale per chiunque voglia presumere di fare il Rettore di un’università, appunto perché il Rettore è il responsabile di un’istituzione di ricerca e di formazione. Ma direi che questo è anche importante per l’istituzione: un Rettore che è un ricercatore, che è uno studioso, che ha il riconoscimento di essere tale gode di un prestigio e di un’autorevolezza anche all’esterno dell’istituzione universitaria, il che si risolve in un vantaggio dell’istituzione: se il Rettore di un’università ha il prestigio di essere uno studioso riconosciuto quando va a parlare, come deve fare, con altri responsabili istituzionali è certamente favorito da quel tanto di rispetto e di considerazione che giustamente circonda la figura di uno studioso e di un ricercatore stimato.


Quale crescita interiore Le può aver procurato l’operare in un campo dove l’efficienza è la dea suprema, e la puntualità nel rispettare gli impegni è la sua regola?

Ogni esperienza arricchisce quando è fatta con consapevolezza e con il senso della vocazione, ma dire che la mia esperienza di Rettore mi abbia arricchito nell’efficienza sarebbe una bugia per una ragione molto semplice: io non dimentico mai che una delle prime cose che mi disse il mio maestro (che è stato un grande maestro), è che quando si è perduto il primo minuto di un’ora con maggiore facilità si perdono gli altri cinquantanove. Non ho mai dimenticato questa affermazione e se c’è una cosa di cui mi vanto è la capacità di organizzazione del mio tempo: è la ragione per la quale in quarant’anni di attività universitaria e in trent’anni e più di ordinariato - lungo i quali ho fatto per vent’anni il Preside di Facoltà e ormai da quasi tre il Rettore - io non ho mai smesso, come dicevo prima, la mia attività di ricerca proprio grazie alla capacità di organizzazione del mio tempo. Da questo punto di vista, se posso farmi un piccolo complimento, credo di essere io ad aver dato un poco di efficienza alla funzione di Rettore in questa università, persino nelle piccole cose. Infatti, per girare il discorso verso lo scherzoso, sto abituando gli organizzatori dei convegni che mi vogliono presenti ad aprire i convegni con puntualità, perché tranne casi sconvolgenti io arrivo un minuto prima o tutt’al più un minuto dopo dell’orario indicato e in linea di principio le persone che vengono da me sanno che entrano nella mia stanza nel momento preciso che è stato indicato, salvo naturalmente una riunione che si protrae, ma io cerco appunto di organizzare il mio tempo in modo che questo in genere non si verifichi. Ecco, da questo punto di vista ho la presunzione di dire che l’efficienza l’ho data io alla mia carica attuale, così come la puntualità nel rispettare gli impegni, anche la puntualità dal punto di vista temporale: ad un’intervista che mi è stata fatta per un libro che è stato dedicato a trentatre napoletani di fine secolo - e non so perché sono trentatre e non trentaquattro o trentadue (ho avuto non so se debbo dire l’onore o meno di essere inserito in questi trentatre) - alla domanda che mi si rivolgeva: <<che cosa detesta di più?, che cosa Le dà maggiormente fastidio?>>, ho risposto: <<la perdita di tempo>>.


Le qualità che un manager deve possedere sono numerosissime, quasi ognuno ne possiede una lista infinita da proporre, ma tra le più comunemente accettate vi sono senz’altro la Lealtà, l’Iniziativa, la capacità di trattare gli altri come persone: la preparazione alle cosiddette Relazioni Pubbliche è un punto fondamentale della formazione del buon manager. Una buona preparazione in questo campo, infatti, aiuta a capire la persona che si ha di fronte e ad ottenere la sua fiducia e la sua cooperazione. E non è questo il nocciolo del management? Quale delle suddette qualità Lei predilige?

Credo di aver già risposto nelle precedenti domande.


Per Lei dirigere è solo essere a capo o implica anche attitudine ed abilità?

In parte anche a questa domanda ho già risposto e chi leggerà potrà verificarlo. Non ho nessuna resistenza a dire che presumo che ci voglia anche una certa abilità e voglio concludere con una piccola confessione. Una delle ragioni per cui ancora faccio un lavoro di questo genere, che per quanto mi concerne, ambizione a parte, è un lavoro aggiuntivo rispetto ai miei compiti istituzionali, che tuttavia sono quelli che io avverto ancora oggi dopo tanti anni con maggiore incidenza - cioè l’attività di ricerca - è la seguente: non posso nascondere che certe volte dentro di me mi diverto anche un poco. Non nello gestire le persone, per carità (perché presumo di avere molto rispetto delle persone), ma mi diverto anche un poco a vedere come in realtà sia possibile ottenere certi risultati e certe risposte con un poco di abilità e caso mai con un poco di diplomazia, che però tengo a dirlo - perché in caso contrario direi veramente il falso anche verso me stesso - poggia su due cose che, una volta riconosciuta la possibilità di sbagliare che ho sempre avuto presente, mi hanno ispirato nel mio lavoro: un forte senso della vocazione, che io amo esprimere nel senso del luterano Beruf e un forte senso del rispetto degli altri. Naturalmente, queste due affermazioni comportano due pretese da parte degli altri: io ho poco rispetto per chi non ha egualmente il senso della vocazione, e poiché sono onestamente rispettoso di tutti pretendo rispetto anche per me stesso, non soltanto come persona ma anche per la funzione che espleto, perché questa per altro è una dimensione di quella che prima ho chiamato la vocazione: il rispetto delle istituzioni. Non si tratta di rispettare il professor Tessitore, che forse per altre ragioni può pure aspirare ad essere rispettato, ma si tratta di rispettare il Rettore dell’Università di Napoli e su questo sono inflessibile. Anche all’esterno dell’università oramai credo che lo abbiano imparato quasi tutti: il Rettore dell’Università di Napoli ha diritto ad esser rispettato in quanto Rettore di una grande università.


Napoli 18 gennaio 1996