Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte I/Capitolo IX

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Capitolo IX

Pirro in Italia e sua alleanza coi Sanniti
Fondazione delle Colonie del Sannio

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Capitolo IX

Pirro in Italia e sua alleanza coi Sanniti
Fondazione delle Colonie del Sannio
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CAPITOLO IX.


Un’armata Romana stanziò lungo tempo ancora in alcuni luoghi del Sannio per assuefare i Sanniti a tenersi sudditi di Roma, e, malgrado l’incessante guerra di dieci lustri e la distruzione di tante borgate e città, fu scoperta sì grande copia d’oro e di argento in quasi tutte le contrade del Sannio da far fede delle floridissime condizioni di quelle gloriose repubbliche innanzi la funesta guerra coi romani. E forse le dovizie sannite furono il mal seme primiero che corruppe l’antica semplicità de’ costumi Romani, per cui volsero in basso le gloriose virtù repubblicane, e l’amore smodato del lusso ingenerò ne’ romani quelle turpi passioni che produssero in prima il dispotismo militare, e quindi la caduta della repubblica.

La nuova pace de’ Romani con i Sanniti neanche durò assai tempo, perchè questi, ogni volta che se ne porgeva l’occasione, alleavansi coi nemici di Roma, e sebbene fossero stati rotti due volte in battaglia da Dolabella e dal proconsole Emilio Barbula, non rimettevano ancora della loro tenace e magnanima risoluzione di contendere il possesso del patrio suolo al nemico, per cui fu mestieri al Senato di spedire contro di essi con numeroso esercito Fabio Massimo, dal quale, dopo mirabili prove di valore, furono vinti in modo da deporre ogni idea di resistere più a lungo alla temuta potenza di Roma.

In quella avendo i Tarentini arrecato un gravissimo oltraggio ai Romani, questi commisero al console Emilio Barbula che dal Sannio si trasferisse coll’esercito a Taranto, e vi facesse gagliardamente la guerra. Ai Tarentini si congiunsero molte città greche, nonché i Messapii, i Lucani, i Bruzii e i Sanniti, e con tali aiuti potettero allestire un esercito di 350 mila fanti e 20 mila cavalli, ma perchè privi di [p. 66 modifica]un condottiere atto a governare una sì poderosa armata, invitarono a capitanarla il bellicoso Pirro re d’Epiro, il quale non istette in forse dall’accettare l’invito, e, avido di conquiste, salpò da Taranto con 20 mila pedoni, tremila cavalli, e venti elefanti. Egli, prima di azzuffarsi coi romani, propose a Valerio Levino, loro condottiere, di voler risolvere come arbitro la contesa fra Taranto e i Romani; ma il console superbamente gli rispose che Roma nol desiderava per arbitro, nè il paventava come nemico. La battaglia fu combattuta sulle rive del Siri nell’anno di Roma 474 sull’ampio piano che si distende tra Pandosia ed Eraclea. Le speranze d’una compiuta vittoria alternaronsi ben sette volte tra i Romani e gli Epiroti, finchè Pirro, volendo pur tentare l’ultima prova, trovò in suo aiuto

«Nuovi modi di guerra e insolite armi»;


poichè a un suo cenno avanzaronsi contro i Romani i suoi elefanti carichi di torri assai bene munite di combattenti armati di lance e di strali. Le immane belve, adusate alla guerra, sgominarono le schiere Romane, e Levino totalmente sconfitto si ricoverò nell’Apulia.

Pirro dopo una tale vittoria trasse a svernare nella città di Taranto. Ivi gli capitò la famosa ambasciata di cui era capo quel celebre Fabrizio, di cui scrisse l’Alighieri che volle piuttosto viver povero ma virtuoso,

«Che gran ricchezza posseder con vizio».

Pirro tentò adescarlo coi doni, ma l’austero repubblicano gli rispose con mal piglio che offrisse i suoi doni agli schiavi che non hanno amore di patria. E dopo ciò i Romani, risoluti di proseguire a tutto potere la guerra contro Pirro, senza dare ascolto alle sue proposte, finchè non lasciasse l’Italia, vennero a giornata con lo stesso presso Ascoli in Apulia. E Decio, seguendo l’esempio dei suoi antenati, fattosi consacrare agli Dei infernali, si fece uccidere [p. 67 modifica]in guerra, non ostante che il re Pirro avesse emanato severi ordini, perchè fosse serbato in vita. Tuttavia Pirro, il quale non dava fede alle potenze occulte che incutevano tanta tema nel volgo, seguì francamente a combattere, e, comechè soggiacesse a gravissime perdite, gli fu dato infine di ributtare i Romani.

Poco dopo una tale vittoria ottenne da Roma una tregua, durante la quale accettò l’invito di recarsi a francare la Sicilia dal giogo dei Cartaginesi; ma i collegati, e specialmente i Sanniti, messi alle strette dai Romani, chiesero a Pirro che non indugiasse a correre in loro soccorso. Egli allora approdò a Taranto con una armata di barbari mercenarii, e si avanzò col grosso dell’esercito contro Curio Dentato, e lungo le rive del Calore, nella pianura che giace tra Taurasi e Benevento, tentò di coglierlo alla sprovveduta nelle proprie trincee, ma andato a male siffatto tentativo, esso fu causa della sua disfatta. E in questa battaglia gli stessi elefanti agevolarono ai Romani la vittoria, poichè, punti col ferro e col fuoco e messi in fuga, scompigliarono in un attimo tutte le ordinanze di Pirro. Curio Dentato celebrò con un solenne trionfo una sì grande vittoria conducendo dietro al suo carro Molossi, Tessali, Macedoni, Appuli, Bruzi, Lucani, Sanniti e i famosi elefanti di Pirro che incussero un tempo tanto terrore ai Romani, e che, a rendere più fastoso il trionfo, seguivano i vittoriosi destrieri.

Pirro dopo essersi per poco tempo ricoverato in Taranto, si partì dall’Italia, e i Sanniti, senza buttarsi al disperato, ripresero la guerra contro i Romani, e si azzuffarono nell’anno 480 col console C. Claudio Canina, ma furon vinti, e nell’anno seguente, combattendo contro il console Papirio Cursore e il suo collega Carvilio, subirono una maggiore sconfitta, poichè rimasero morti sul campo da forse 25000 Sanniti, e altri 5000 si arresero prigioni. La federazione Sannita dopo un sì infausto combattimento fu costretta a dare per ostaggi i suoi più illustri guerrieri, e narrasi che un tal Lollio, che era del numero, riuscito a fuggire, si diede a percorrere il Sannio in tutti i punti, e fece appello alle ultime sparse reliquie delle [p. 68 modifica]schiere Sannite, sicchè per poco non divampò per tutto il Sannio un nuovo incendio di guerra, non ostante che le sue forze fossero del tutto esauste, e che sarebbe stato follia lo sperare di scuotere il detestato giogo Romano.

E così Roma acquistò man mano quasi tutto il dominio d’Italia, superando popoli che l’avanzavano per estensione di territorio, e per antica fama di valore. E ciò fu l’effetto della sua potente unità di Consiglio, imperocchè gli altri antichi popoli d’Italia non compresero che la vera forza dei popoli risiede nell’unione, e che senza di essa niente giova indomito valore, perseveranza di propositi, ed eroico amore di libertà. E, a impedire che i popoli debellati tentassero di riacquistare la loro indipendenza, i romani fondarono molte colonie e diedero opera a fortificare le migliori città. E qui, a intendere le condizioni politiche di Benevento, mi è forza accennare l’origine e lo scopo di tali colonie.

Chiamavansi Colonie, secondo il Sigonio, le terre abitate dai cittadini Romani. La origine di esse è antichissima, e si perde quasi nei primi tempi favolosi dell’istoria romana. Le cause che indussero i romani a fondare le colonie furono le seguenti: reprimere le insurrezioni dei vinti, impedire le incursioni dei nemici, accrescere il numero dei proprii sudditi, alleviare Roma dalla plebe addivenuta troppo numerosa; e infine concedere un premio ai soldati veterani che aveano ben meritato dalla patria. (Cic. de leg. agr. II, 27 – Philip. v. 10. Appiano). Il modo tenuto dai Romani nell’istituire le colonie era sottosopra il seguente. Eleggeansi tre persone tra i più savii ed autorevoli cittadini, i quali prendeano il nome di Triumviri Agrarii, e costoro ordinavano i luoghi più acconci, le sedi e i campi, e se doveasi edificare una nuova città. Indi davano alla colonia, quasi la forma d’una nuova repubblica, costituendo il Foro, il Campidoglio, i Tempii, la Curia, e ogni altra cosa a somiglianza di Roma. E al governo di essa destinavano due cittadini chiamati Duumviri, e per le colonie di maggior momento nominavano i consoli, e i decemviri che componevano il Senato. L’ordine posto alle colonie era mirabile per ogni verso, cosicchè ai nuovi abitatori non parea [p. 69 modifica]versare in peggiori condizioni dei cittadini Romani, essendovi tra essi medesimezza di religione, di lingua, di leggi e di costumi, e la stessa forma di governo. Inoltre i coloni fruivano di tutti i dritti civili del cittadino romano, e solo erano privi dei dritti politici dell’eleggibilità e dell’elezione; per modo che, rispetto alla politica, le colonie erano considerate da meno dei municipii. Talora concedeasi ai prischi abitatori del luogo di mescolarsi ai fondatori delle colonie, ed essi, mercè una tale fusione, partecipavano ai privilegi del nuovo stabilimento.

Le colonie si distinsero in colonie Romane e Latine. Si appellarono Romane quelle che erano rette con le stesse leggi dei Romani, e ai loro abitatori non era negato il dritto di dare i voti in Roma; il qual dritto principalissimo tra tutti abbracciava soltanto una parte della libertà romana, quella cioè che concerneva i dritti privati. E per lo contrario denominavansi latine le colonie composte di cittadini del Lazio, ai quali era dato di conservare i dritti proprii alla lor gente, ma però ai cittadini Romani che conviveano con essi era vietato l’esercizio dei romani dritti.

A fondare per qualsiasi causa una nuova colonia si procedeva per decreto del Senato rifermato dal plebiscito, e, mediante un’apposita legge chiamata Agraria, si disegnava il paese che facea d’uopo dividere tra i veterani, e il modo da seguire nella divisione. (Sigonio, de Antiq. Iure ital.)

L’Istituzione delle colonie fu pei cittadini Romani il principale impulso ad ascriversi volenterosi nella milizia, da cui imprometteansi larghi guiderdoni, imperocchè le più delle volte si concedeano ai coloni abitazioni, campi, governo, onori e denaro eziandio, come usò Augusto, affinchè si fornissero di tutto ciò di cui avesser bisogno per vivere agiatamente, e in ciò è riposto pure una delle cause principali delle tante vittorie romane. Ma invece oltremodo miserevole era la condizione dei popoli soggiogati in danno dei quali fondavansi le colonie, quasi fortezze poste come giogo sui vinti; imperocchè vedeansi in un baleno tolti ai padri i figli, ai mariti le mogli, e i servi ai padroni ridotti a vivere in [p. 70 modifica]povertà (Virgilio, egloga II) E in quanto poi alla inaudita crudeltà dei coloni verso i nativi abitatori essa è descritta egregiamente da varii scrittori latini. (Lipsio, de Magnitudine Rom. lib. 1. cap. 6). Ma oltre le colonie i Romani fondavano i municipii, le prefetture, e le città federate di cui discorrerò brevemente.

Si diceano Municipii quei luoghi o città, i cui abitatori, quantunque forestieri, erano ammessi alla cittadinanza romana: però senza la facoltà di dare i voti, e di ascendere ai magistrati. Laonde i cittadini dei municipii aveano due patrie: quella in cui sortirono il nascimento, e l’altra che conferiva ad essi la cittadinanza. (Cicerone de leg. II,Ausonio).

Lo stato delle Prefetture era anche peggiore di quello dei municipii, dacchè ai loro abitatori si spedivano con pieno arbitrio dalla stessa Roma i prefetti. E con tale forma di governo intesero i Romani di punire le città che si dimostrarono le più ritrose a trarre in loro aiuto con uomini e vettovaglie, e proclivi alla ribellione. Grande fu il numero delle Prefetture in Italia, e anche nelle colonie il Distretto spesso avea nome di Prefettura; sebbene anche allora il Prefetto fosse nominato non da Roma ma dalla Colonia. E talvolta soleano chiamarsi Prefetture anche i luoghi che aveano un loro municipale governo, e in questi casi è probabile che la città fosse municipio, e che un Prefetto governasse il paese all’intorno.

Festo ed altri autori affermano che vi furono due diverse specie di Prefettura: all’una si mandavano i Prefetti dal popolo Romano, e all’altra erano spediti dal Pretore di Roma. Inoltre non è da omettere che allorquando le colonie, e massime le città municipali, non serbavano la data fede erano talvolta mutate in Prefetture, e fatte segno a durissimo governo per punirle della loro fellonia, e per tal modo esse perdevano tutti i loro magistrati, salvo quelli che sopraintendevano ai sacrifizii e alle feste.

Si notavano infine nella grande varietà delle condizioni politiche dei popoli del mezzodì d’Italia alcune città che assunsero il titolo di libere e confederate, le quali godevano [p. 71 modifica]di molti privilegi in virtù di un loro patto di alleanza con Roma. Esse governavansi da sè stesse con proporre leggi e magistrati, ma non poteano trattare di pace e di guerra senza impetrare la licenza di Roma.