Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte I/Capitolo VIII

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Capitolo VIII
Continuazione delle guerre sannite
Morte di Ponzio Telesino

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Capitolo VIII
Continuazione delle guerre sannite
Morte di Ponzio Telesino
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CAPITOLO VIII.


I due consoli che alle forche caudine soggiacquero a tanta ignominia, e si resero mallevadori della pace, non osarono per qualche tempo mostrarsi al popolo Romano, e non tardò molto che in lor luogo furono nominati consoli Quinto Pubblilio Filone e Papirio Cursore. Costoro non appena ebbero il potere si proposero di deliberare intorno alla pace caudina. E, senza lungo contendere, i senatori opinarono che si annullasse il trattato, sotto colore che non vi prese parte il popolo Romano, e che si annuisse al parere di Postumio, il quale, non ricusando di sacrificare se stesso all’utile, o, a meglio dire, alla boria di Roma, consigliava che, a non mantenere i patti, si consegnassero ai nemici i consoli che li aveano giurato. Allora Lucio Livio e Quinto Melio, tribuni della plebe, il cui nome merita per questo fatto di essere tramandato ai più lontani avvenire, insorsero contro una tale risoluzione, affermando che non poteano i Romani sciogliersi dalla religione del giuramento, senza rimettere le cose nei termini in che erano alle forche caudine. Essi sostennero con calore la causa del dovere e del giusto; ma prevalse l’avviso contrario, e non mancarono ai violatori della pubblica fede speciosi pretesti per escusarsi di non seguire il consiglio più generoso.

II Mommsen prese a dimostrare che essendo stati indotti i consoli Veturio e Postumio dalla necessità ad accettare la convenzione proposta dai Sanniti, essa per la mancanza di libero consenso nei contraenti, i quali furono vittima d’una frode, era nulla, e non poteva obbligare i consoli a mallevarne l’adempimento. Ma io rispondo al Mommsen: era sì giusta e necessaria la guerra, che per avidità di conquista i Romani mossero ai Sanniti, da romper fede a un trattato, pel quale eransi sottratti all’eccidio due eserciti Romani, e che era stato ultimato secondo l’usanza di Roma con un solenne giuramento? o non era forse lecito ai [p. 56 modifica]Sanniti di non omettere qualsiasi stratagemma di guerra per difendere dalla prepotenza straniera la terra dei padri loro? E però io ritengo che il violare con un sofisma sì indegnamente il trattato delle forche caudine fu un’onta incancellabile pei Romani, i quali ostentavano tanta religione per l’osservanza delle convenzioni, e che aveano eretto un solenne tempio alla fede.

Statuito adunque di non osservare i patti, i padri coscritti consegnarono ai Feciali i due consoli, che, legati, furono tradotti a Caudio. E quindi uno dei Feciali presentatosi al tribunale di Caio Ponzio gli disse che il popolo Romano, a sciogliersi dall’indegna convenzione firmata dai consoli senza l’assentimento del popolo Romano, li metteano interamente in loro balìa.

Ponzio indignato per una tale commedia, rifiutò generosamente di ricevere i consoli, e la guerra continuò più fieramente d’ambo le parti, dacchè i Romani miravano a cancellare la macchia delle forche caudine, e i Sanniti a trarre vendetta della violata fede, troppo tardi pentiti di non aver seguito il parere del vecchio Erennio. Essi in prima fortificarono Caudio, e, dopo respinto il console Pubblilio accampato poco lungi da Caudio, recaronsi in Apulia, ove, ingrossati, recarono in loro potere Luceria, la quale, dopo lunga lotta, fu astretta nuovamente ad arrendersi ai Romani per totale mancanza di vettovaglie. Tito Livio ci narra che settanta Sanniti con il lor duce Ponzio Telesino furono fatti passare sotto il giogo. Ma un tale racconto ha faccia di menzogna, e sembra foggiato dalla boria Romana (Niebhur), e però non è a farne conto, specialmente che, secondo Diodoro, Lucera non fu ripresa che cinque anni dopo. I Romani dopo varii prosperi successi astrinsero i Sanniti a chiedere due anni di tregua.

Intanto questi, per conservare la propria indipendenza, si studiarono di collegarsi con altri popoli d’Italia, e riuscirono in parte nel loro intento, giacchè insursero gli abitanti di Sora, spegnendo spietatamente tutti i coloni Romani, e sollevaronsi pure le città di Nuceria, Alfaterna e Saticula. Questa città fu tosto assediata dal console romano Lucio [p. 57 modifica]Emilio, e da Lucio Fulvio, maestro dei cavalieri; ma i Sanniti non furono lenti ad accorrere in difesa dei loro amici. I Saticulani allora, usciti dalla città, proruppero audacemente contro i Romani, i quali erano combattuti contemporaneamente al lato opposto dai Sanniti. Ma tuttavia riuscì ai Romani con savii accorgimenti di guerra di respingere dentro la città gli assediati, e i Sanniti nei loro accampamenti: e Saticola cadde nuovamente in loro potere.

I Sanniti non potendo riavere Saticola, espugnarono Plistia, città molto amica ai Romani, e tenendo dietro al dittatore Quinto Fabio, che tentava di riprendere Sora, la quale città, dopo trucidati gli abitatori Romani, erasi data ai Sanniti, vennero alle prese coi Romani presso Lentule che è un angusto passo tra Fondi e Terracina sulla via più corta del Lazio in Campania. I Romani furono interamente disfatti, e da questa vittoria dei Sanniti presero ardire tutte le città insofferenti del giogo Romano, per sottrarsi all’abborrita signoria di Roma.

Ma i Romani rifecero le loro forze, e, guidati da Caio Fabio, con un inganno assai bene ordito, insignoritisi di Sora vi commisero molta strage, e dopo posto l’assedio a Lucera, che si era nuovamente data ai Sanniti, la espugnarono al primo assalto, per essere la città posta in piano.

Di ciò adirati, i Sanniti scesero nelle pianure della Campania, ove era attendato l’esercito Romano, ed ivi ebbe luogo tra i due eserciti una campale giornata; ma la vittoria toccò ai Romani, e dei Sanniti, oltre il gran numero de’ prigionieri, perirono intorno a 20 mila, e gli altri potettero rifugiarsi a mala pena in Malevento (Benevento) città rimasta sino a quel tempo inaccessibile ai nemici.

I Romani dopo una sì bella vittoria si fecero a campeggiare la città di Nola che, sebbene difesa da grosse bande di Sanniti, tornò nella dipendenza di Roma; e dopo tali successi dell’armi romane è probabile che la guerra sannita non si sarebbe più a lungo protratta, se non si fosse levata in armi l’intera Etruria, affine di riprendere i suoi antichi confini del Tevere. E mentre l’eroe romano di quell’epoca [p. 58 modifica]Quinto Fabio, coadiuvato dal console Emilio, si segnalava in gesta di valore contro gli Etruschi, i Sanniti posero l’assedio a Cluvia, ove era un presidio romano, il quale, per difetto di viveri, s’indusse ad arrendersi a discrezione; ma i Sanniti fatti prima battere con verghe tutti i Romani, li passarono a fil di spada. A questa nuova il console romano, cui erasi commesso di continuare la guerra del Sannio, mosse subito alla volta di Cluvia, e, avendo ripresa la città, ordinò, come rappresaglia, la uccisione di tutti i Sanniti, e poi condusse l’armata a cingere di assedio Boviano capitale dei Sanniti Pentri, la più opulenta e popolosa delle città del Sannio. Boviano in breve volgere di tempo si arrese, e i Romani che l’aveano occupata non per odio, ma per avidità di preda si dimostrarono clementi con gli abitanti. In quel mentre i Sanniti, che non valsero a difendere la città, nella lusinga di ritogliere la preda ai vincitori, li attesero insidiosamente in siti assai angusti e malagevoli, in cui fu dato ai Romani di riportare una nuova vittoria con la uccisione di 20 mila soldati. Poco dopo i Sanniti, traendo profitto dell’occasione che i Romani erano assai travagliati dagli Etruschi, mossero con molto ardire a combattere il console Marcio, il quale aveva espugnata Alife, e la fortuna non fu ad essi contraria in quell’impresa, poichè riportarono una segnalata vittoria in una importante battaglia campale, in cui giacque ferito lo stesso console, uccisi il legato e parecchi tribuni, e l’esercito tagliato fuori e impedito di comunicare con Roma.

Per un tal disastro fu assunto al grado di dittatore Papirio. Questi a Longola aggiunse alle sue nuove legioni l’avanzo dell’armata del console Marcio, e sfidò a battaglia i nemici (445 di Roma). Costoro resi più audaci dalla recente vittoria non esitarono ad accettarla, ma per essere il giorno in sull’imbrunire attesero la nuova alba. Nell’armata sannita era secondo l’uso patrio un’eletta schiera di prodi che aveano giurato di vincere o di morire, e che insegnavano a tutti i combattenti come fosse bello e glorioso il morire per la patria. Al dì novello i Sanniti fecero bella mostra di sè con [p. 59 modifica]tuniche a varii colori e scudi adorni d’oro e di argento. Papirio, impassibile a quella vista, si volse ai suoi soldati e disse, additando i nemici, che il ferro è l’unico ornamento del guerriero, e che i fulgidi arnesi dei nemici non doveano essere considerati come armi, ma sibbene come preda dei vincitori. La battaglia fu strenuamente combattuta d’ambe le parti, ma riuscì favorevole ai Romani, e i Sanniti volti in fuga non trovarono scampo neanche nelle loro trincee che furono arse dal nemico. Le splendide armi dei vinti contribuirono a rendere più fastoso il trionfo di Papirio e a ornare il foro di Roma.

Nell’anno seguente il console Fabio passò dall’Etruria nel Sannio, e, vinti i Sanniti in Alife, vendette come schiavi i prigionieri, e siccome facean parte di questi settemila tra alleati e amici, così, indignato per un tal fatto, insorsero contro Roma molte città; nonchè gli Ernici, popolo che godeva antica fama di valore. Ciò nonostante i Romani, facendo uno sforzo, mediante una leva generale in tutti i loro stati, impedirono il disegnato congiungimento dei Sanniti con gli Ernici, e il console Marcio disfece compiutamente questi ultimi, i quali, col non essersi segnalati in verun fatto d’armi, diedero a divedere che da tempo erasi spenta in essi l’antica virtù militare. Nè andò molto che i Sanniti vennero alle mani coll’esercito di Marcio, ma essendo sopravvenuto, mentre più ferveva la mischia, l’altro console Pubblio Cornelio con nuova armata, i Sanniti, posti in mezzo a due eserciti Romani e vedendo arsi dai nemici i loro alloggiamenti, presero qua e là la fuga, e si ritrassero sui monti vicini, ove furono anche inseguiti dai romani, che li fugarono dai gioghi occupati, e li astrinsero a implorarne la pace.

Roma non fu restìa a concederla, ed appose per condizione che i vinti rinunziassero alla loro indipendenza, ma i Sanniti, venuti in furore per una tale pretensione, diedero nuovamente di piglio alle armi, però furono due volte sconfitti nelle vicinanze di Bola, e, avendo i Romani preso Sora, Cerennia, Arpino ed Isernia, si videro costretti i Sanniti a chiedere ad essi una stabile pace, o almeno una lunga [p. 60 modifica]sospensione delle ostilità. E Roma, non credendo i Sanniti disposti a riprendere le offese, non esitò a rinnovare l’antico accordo con questo che dovesse il Sannio riconoscere l’alto dominio del vincitore.

Intanto i Sanniti che aveano accettati, stretti dalla necessità, le dure condizioni della pace, per avere agio a mettere su una nuova armata, non desistevano dal procacciare nuovi nemici a Roma, istigando sopra modo gli Etruschi, che prontamente risposero all’appello dei Sanniti, i quali non esitarono a violare i patti dell’accordo. Ma in quella che i consoli deliberavano in qual modo dovessero dividersi le forze per guerreggiare nel Sannio e nell’Etruria, sopravvennero i legati Etruschi a dimandare la pace; sicchè tutta la grande oste romana, senza essere distratta in altre imprese, piombò sulle terre sannite, vogliosa di por fine in breve tempo alla guerra.

Fabio Massimo avviossi alla volta di Sera, e Decio a quella di Teano, e amendue congiunsero le loro forze ai confini del Sannio. Ed essendosi avveduto il console Fabio che i nemici occupavano una segreta valle, per la quale avean disegnato di piombare sulle legioni romane, si avanzò con la fanteria innanzi ai Sanniti, i quali, deposta la speranza di vincere con inganno il nemico, dovettero avventurarsi a una battaglia, che in prima parve assai dubbiosa, per cui Fabio, riponendo ogni speranza di vittoria nella cavalleria, fece sì che i suoi cavalli prontamente dessero dentro alle schiere nemiche. Ma il doppio assalto non atterrì punto i Sanniti che seguivano francamente a combattere, finchè Fabio, divisando di vincere con astuzia i nemici, propagò fra i combattenti che l’esercito di Decio era giunto a rendere più sicura la vittoria. Una tal voce infuse novello ardimento ai Romani e scemò di tanto la fiducia dei Sanniti, che, a non essere tolti in mezzo dalle due armate, presero la fuga, lasciando sul campo assai bandiere in potere del nemico. Nello stesso tempo i Pugliesi, che tentarono innanzi la battaglia di congiungersi ai Sanniti, vennero alle mani con l’altro console presso Malevento, e anche essi furon rotti, e impediti di soccorrere efficacemente i Sanniti.

[p. 61 modifica]Dopo tali fatti amendue i consoli corsero molta parte del Sannio predando e saccheggiando, e sparsero ovunque lo sterminio e lo spavento.

In quel tempo numerose bande di Sanniti capitanate da un tal Gellio Egnazio Sannite, dato un addio alla terra natale, recaronsi nell’Etruria, ove l’audace condottiero con eloquenti parole propose agli Etruschi di congiungersi ad essi, e tentare le ultime prove per sottrarre amendue i popoli all’indegna servitù di Roma. Gli Etruschi assentirono alla proposta, e non pure tirarono alla loro alleanza i popoli Umbri, ma assoldarono a proprio conto una numerosa orda di Galli.

All’annunzio di tali fatti Roma, a provvedere alla necessità della patria, spedì nell’Etruria un poderoso esercito, e i Sanniti giovandosi di una sì fausta occasione, invasero le terre della Campania e dei Falerni, e posero a ruba gli stessi confini di Roma; per il che un esercito romano condotto dal console Volunnio si tolse dall’Etruria, avviandosi alla volta del Sannio. E avendo raccolto per via che i nemici, ricchissimi di preda, si erano attendati sulle rive del Volturno, e già stavan sulle mosse per riprendere la via del Sannio, li seguì da vicino, ed ebbe sì favorevole la fortuna che potè d’improvviso piombare sul nemico, e dopo breve pugna disfarlo compiutamente, e insignorirsi dell’ampia preda da essi fatta sui Campani, di cui parte fu restituita e parte divisa tra i soldati.

In questo la guerra prese maggiormente a infierire nell’Etruria, ove i consoli Q. Fabio e P. Decio, traendo con due agguerriti eserciti, combattettero a Sentino un’eroica battaglia che fermò la dominazione dei Romani nel Sannio. I confederati aveano già rotte le ordinanze romane, allorchè Decio, perduta ogni speranza di vittoria, si fece consacrare agli Dei infernali per lo scampo dell’esercito, e dopo si lanciò ove erano più fitte le schiere nemiche, e con la sua morte mutar fece la fortuna dei Romani, e i Sanniti sbaragliati si refugiarono nelle loro trincee, che furono prese d’assalto con molta uccisione: e in questo supremo cimento giacque estinto [p. 62 modifica]lo stesso Gellio Egnazio che ebbe a vile di sorvivere alla sua disfatta. Fabio per una tale vittoria menò sui collegati un famoso trionfo, in cui i soldati celebrarono con canti le sue prodezze e l’eroica fine di Decio.

Dopo la vittoria di Sentino che costò molta perdita ai Romani, cinquemila Sanniti, campati a quell’eccidio, seppero con una felicissima marcia tornare nel Sannio, dopo superate infinite difficoltà, e, non ancora perduti d’animo, adunarono tre nuovi eserciti, affine di difendere il Sannio. E senza punto indugiare inondarono la Campania, portarono la devastazione e la strage nella valle del Volturno, e nei campi Vescini e Formiani, e con incredibile audacia aggredirono i Romani nelle loro medesime trincee, e ne menarono strage: indi invasero il paese dei Marsi, ove pugnarono gagliardemente contro i Romani, occuparono per via di sorpresa e saccheggiarono Interamna del Liri, colonia romana nella via latina; eseguirono una diversione in Apulia, e combattettero una gran battaglia intorno a Luceria. E in ultimo bandirono nella città di Aquilonia una generale rassegna di tutte le loro genti, per tentare gli estremi sforzi a difendere la patria indipendenza, e vi convennero tutti i Sanniti atti a trattare le armi.

A impedire che per tali apparecchi l’incendio della guerra si propagasse ai popoli confinanti, mossero subito contro i Sanniti i consoli Spurio Corvilio e Lucio Papirio. Costoro, dopo avere percorso il Sannio in tutti i punti, espugnando Amiterno e Duronia, si divisero, attendendo Corvilio al memorando assedio di Cominio, e Papirio a fronteggiare l’armata sannita attelata presso Aquilonia. Papirio, fatto intendere a Corvilio che avesse simultaneamente combattuto a Cominio per dividere le forze nemiche, investì audacemente l’armata sannita. Ma la legione Lintenta disposta a vincere o morire resse lungamente immota all’impeto delle schiere romane, quando il console ordinò a un tal Nautio che, ridotti in un luogo assai erto tutti i giumenti, nel tempo in cui più ferveva la mischia, facesse levare in alto la polvere, affinchè i Sanniti avesser creduto che nuove legioni romane fossero [p. 63 modifica]giunte a Cominio per rinfrescare la battaglia. E con tale ingegnoso stratagemma Papirio riuscì nel suo fine; poichè le schiere sannite, illuse dalla polvere che Nautio sollevava dal suolo con frondosi rami d’alberi, per non essere tolte in mezzo da due eserciti, presero a rinculare, e a perdersi d’animo, per guisa che fu dato infine alla cavalleria Romana di sgominarle compiutamente, e di conseguire una compiuta vittoria. Una parte dei Sanniti ritiraronsi nel campo, e gli altri a Boviano. Durissima resistenza incontrarono i Romani nell’assalto delle tende, e della città di Aquilonia, ma tutto dovè cedere alla fortuna romana. Aquilonia fu saccheggiata ed arsa; e si ritiene che non meno di 30 mila sanniti soccombettero nei combattimenti di Aquilonia. E quasi nello stesso giorno Cominio, benchè difesa da 15 mila sanniti, fu espugnata dal console Emilio ed egualmente bruciata. Il numero dei prigionieri fu sì enorme da ritrarne dalla vendita 1330 libbre di argento e due milioni e cinquecento mila di assi.

E pure, malgrado tali perdite e le tante sciagure cui soggiacquero le infelici contrade del Sannio, nell’anno seguente i Sanniti irruppero nuovamente contro i Romani, e, a tentare un’ultima volta la fortuna delle armi, chiamarono a condurre il loro esercito il vecchio Ponzio Telesino, l’illustre vincitore delle forche Caudine. Costui, benchè già grave di anni, aderì all’invito, e poscia ch’ebbe devastata la Campania mosse audacemente contro il console Fabio Gurge, figlio al celebre Fabio, il vincitore di Sentino; e battutolo agevolmente, lo volse a ignominiosa fuga (Eutropio lib. 2º). Ma non appena una tale novella si diffuse in Roma, il vecchio padre del console si offrì di cancellare la macchia impressa alle armi romane dalla disfatta del figlio. E, acconsentendo il Senato, mosse subitamente contro Ponzio. I due più grandi capitani di quei popoli nell’anno di Roma 462 combattettero l’ultimo glorioso fatto d’armi della titanica guerra durata mezzo secolo tra le genti sabelliche e Roma.

La battaglia fu per qualche tempo favorevole ai Sanniti, per essere state rotte le prime linee dei Romani, ma [p. 64 modifica]sopravvenuto Fabio, con la sua stupenda virtù militare mutò in meglio le sorti della giornata, e sebbene i Sanniti pugnassero da eroi, pur tuttavolta prevalse la disciplina dei Romani, e al vecchio Fabio arrise di nuovo la vittoria. Non meno di 20 mila Sanniti perirono in quella gran battaglia, e altri 4 mila si resero prigioni, tra i quali il prode e magnanimo Ponzio. Fu questo tradotto in Roma, a rendere più glorioso il trionfo di Fabio, e poscia inumanamente gli fu mozzo il capo dai Romani, che in tal guisa rimeritarono la generosità dell’eroe sannita, il quale, non dubitando della fede romana, rimandò illesi due eserciti caduti interamente in suo potere alle memorabili forche caudine.

Con la morte di Ponzio ebbe fine la guerra del Sannio, ma le legioni romane ebbero ancora lunga pezza a guerreggiare per domare gli ultimi avanzi dei bellicosi Sanniti, e il console Curio Dentato percorse quasi tutti i luoghi del Sannio, portando ovunque la desolazione e lo spavento. E qui non posso trasandare di riferire un fatto assai lodevole di Curio, che ci è narrato da Valerio Massimo, Cicerone e Plutarco.

I Sanniti agognando di farselo amico, gli mandarono ad offrire una gran copia d’oro. I messi lo trovarono in una povera casa presso al fuoco che mangiava in una scodella di legno, e stupirono della sua povertà: ed ei disse loro che si riportassero quell’oro, perchè non ambiva ricchezze, ma bensì di comandare a chi le possedesse.

Il senato non fu alieno di rinnovare l’antica alleanza, e benchè i Sanniti tentassero in seguito di scuotere più volte il giogo romano, e prendessero parte ad ogni guerra mossa a Roma dai popoli confinanti, pur tuttavolta pare indubitato che il Sannio rimanesse nella dipendenza di Roma. E Benevento, città principalissima, e, come ora dicono, capitale dei Sanniti caudini, si tenne sempre fida a Roma, senza seguire l’esempio della maggior parte delle città sannite, che, per sottrarsi al giogo di Roma, si allearono a Pirro e ad Annibale, e presero parte alla famosa guerra sociale.