Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte I/Capitolo XI

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Capitolo XI
Nuove colonie in Benevento
Vita di Orbilio Pupillo

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CAPITOLO XI.


Giulio Cesare, addivenuto signore di Roma, dopo le sue segnalate vittorie in ogni parte dell’universo, mandò 20 mila [p. 83 modifica]uomini a Capova (Capua), e le restituì la dignità di colonia, di cui era stata priva nella seconda guerra punica. In quel mentre alla colonia beneventana non era dato di migliorare le proprie condizioni mediante il commercio, atteso il suo troppo esiguo territorio, e però aspirava ad ampliarne i confini, senza di che sarebbe stato follia impromettersi tempi migliori. Ma caduta Roma in potere dei triumviri Lepido, M. Antonio, ed Ottavio verso il 471 di Roma, costoro mandarono nel Sannio nuove colonie, e concessero ai soldati, come premio delle riportate vittorie, le terre di 18 delle più belle e ricche città italiane, tra le quali primeggiavano Capova, Reggio, Venosa, Vibona, Nuceria, Arimino e Benevento. Una prima colonia fu istituita, in Boiano, la seconda si mandò a Venosa, e la terza in Benevento. Nè trascorse assai tempo che Cesare Ottaviano, allorchè dopo la vittoria di Azio divenne arbitro delle sorti di Roma, intendendo largheggiare di benefizii con i soldati veterani che lo aveano seguito, e strenuamente combattuto nelle battaglie vinte sui suoi emuli Lepido e Antonio, per le quali era asceso al supremo imperio di Roma, assegnò ad essi per abitazioni le più fertili terre d’Italia. E spedì quindi anche in Benevento molti veterani, e, poichè il numero dei coloni era esuberante, aggiunse alla colonia beneventana l’ampio e ferace territorio di Caudio, e fu appunto allora che la nostra colonia venne al colmo della sua floridezza e prosperità.

In quanto poi ai confini del territorio occupato dalla colonia latina ai tempi di Augusto, non sono punto concordi gli scrittori, e però, volendo appigliarmi all’idea più comunemente accolta, credo conveniente di riportare l’opinione del Garrucci, espressa in una delle sue dissertazioni archeologiche pubblicate non ha ancora molti anni.

«Il tenimento assegnato e diviso alla colonia latina di Malventum nell’anno di Roma 486 aveva a Ponente Caudium, a settentrione Telesia e l’agro pubblico del popolo romano tolto ai Taurasini, e ad Oriente Equus Tuticus, a mezzogiorno Aeclanum».

È opinione di molti che allorquando i Triumviri [p. 84 modifica]dedussero in Benevento la seconda colonia, ne mandassero in bando i nativi abitatori; ma una tale asserzione è contraddetta dall’amore che i beneventani portarono sempre ad Augusto, e dall’avere eretto in suo onore un magnifico tempio che fu detto il Cesario, di cui ignorasi anche il sito, per attestargli la riconoscenza che la città gli serbava pei conseguiti beneficii. Carlo Sigonio ci fa fede che Augusto non si limitò a mandare una nuova colonia in Benevento, ma le concesse eziandio molti magistrati. E anzi il mio concittadino Alfonso de Blasio sostenne che a un tal Lucio Munatio Planco fu concesso di ripartire equamente tra i coloni il terreno del contado beneventano. E che in Benevento fosse stata destinata una colonia ai tempi di Augusto si desume da una iscrizione che si legge sul pavimento della porta maggiore di S. Domenico, e che, sebbene sia ora quasi cancellata, fu tuttavia riportata nella sua interezza dal de Blasio e da Giordano Nicastro nelle loro inedite scritture.

Augusto, finchè gli durò la vita, ebbe carissima la colonia beneventana, e non ignorasi che mentre si recava ad accompagnare fino a Benevento Tiberio, che traeva nell’Illiria per assicurarvi la pace, fu preso da quel morbo letale che indi a poco il trasse a morte nella prossima città di Nola. Gli uomini più famosi che fiorirono in Roma al tempo di Augusto ebbero più volte occasione di visitare Benevento, e Orazio vi traeva sovente a trascorrere delle ore liete in casa di un suo intimo amico che egli chiamava ospite sedulo, e che il Desjardins trasformava in un oste, hotelier, e in una di quelle frequenti sue gite gl’intervenne il sinistro accidente di che fa parola nei seguenti lepidi versi, che si leggono in uno de’ suoi sermoni:

. . . . a Benevento . . .

«Dirigiamo il cammin. Qui mentre l’oste
«Attentissimamente alquanti tordi
«Morti di mal sottil gira sul foco,
«Poco mancò che al foco anech’ ei con quelli
«Non fosse andato. Alzò la fiamma un vampo
«Che a la vecchia cucina intorno intorno,

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«Già lingueggiando, ne lambivo il tetto.
«I servi spaventati, i commensali
«Famelici veduto avresti accorrere
«Chi la cena a salvar, chi ‘l foco a spegnere.

(trad. di Gargallo)


Un’antichissima tradizione, che si mantenne sempre viva e tenace nei beneventani, ìndica fino il luogo ov’era ai tempi della colonia romana l’osteria frequentata da Orazio. Essa, secondo la leggenda tradizionale, si apriva a capo della strada che si domanda del Pontile, e quindi poco lungi dalla Via Appia, e fa specie che in quel luogo appunto vi sia sempre stata, fino al recente dilatamento di quella strada, una bettola con ispaccio di vino. Una tale tradizione merita anche ai nostri giorni qualche fede, se si considera che essa dopo il volgere di circa due millennii è tutt’ora seguita da assai colti cittadini, e non fu mai combattuta dagli storici municipali, nè sfatata dagli eruditi che raccolsero avidamente le popolari tradizioni, e che illustrarono con sapienti ricerche i nostri patrii monumenti.

Fra gli uomini più degni di fama imperitura che fiorirono in Italia, in quel torno di tempo, è da noverare uno dei nostri concittadini, il celebre Orbilio Pupillo beneventano, famoso grammatico e maestro di Orazio, il quale nei suoi scritti lo chiama Plagosus a denotare che era un uomo austero, e dotato di maschia virtù civile.

Poche e imprecise notizie avanzano della sua vita. Nacque nell’anno 113 a. C. e, a quanto pare, di famiglia povera ma industriosa ed attiva. Tirato su dai genitori con educazione liberale, ebbe fin da fanciullo l’agio di frequentare le scuole ed i ludi letterarii del suo paese. All’età, ancora freschissima, di quindici o sedici anni lo incolse una disgrazia gravissima, giacchè in un solo e medesimo giorno, e da nemici probabilmente di famiglia, gli furono, per tradimento, uccisi amendue i genitori (L. Gamberale, vita di Orbilio Pupillo).

[p. 86 modifica]Rimasto pertanto orfano, e con iscarsa fortuna per poter compiere i proprii studii, fu necessitato gittarsi all’ufficio di usciere; dove non potè durare se non qualche anno, essendo stato chiamato a militare, il che se non fu, come era legge, all’età di anni diciassette, pare probabile non fosse stato al di là dei venti.

In quel tempo Mitridate, re del Ponto, si era venuto atteggiando definitivamente a salvatore del mondo orientale, e Ararate, suo figliuolo, penetrava per la Tracia nella Macedonia, debolmente difesa, e veniva, a misura che si avanzava, riducendo a Satrapie tutte le regioni che occupava. La flotta, comandata da Archilao, il migliore dei generali di Mitridate, tentò inutilmente un attacco contro Demetriade in Magnesia, che fu valorosamente difesa dal prode Bruzio Sura, luogotenente del governadore di Macedonia che vi si era, riparando da quella tempesta, gittato con un pugno di soldati.

Non vi ha dubbio che Orbilio fu dei valorosi difensori di Demetriade; giacchè appunto in questi tempi egli militò in Macedonia, e servì prima come corniculario, specie di ufficio tra foriere e segretario, e poi in cavalleria. Ma Bruzio non istette contento alle difese, e, con una marcia arditissima lungo le coste, volò nella Beozia a combattere Archelao ed Aristione, filosofi epicurei, diventati, ai servigi di Mitridate, despoti di Atene. Si battè con loro ad Orcomene per tre intere giornate; ma l’arrivo di un soccorso di Peloponnesi lo costrinse a ritirarsi senza risultato nessuno, e in fretta a ricongiungersi con le cinque legioni sbarcate con Silla nell’Epiro. Orbilio dovette essere anco a questi ultimi combattimenti, e, se fu dei soldati che si ricongiunsero a Silla, fu altresì all’assedio e presa di Atene ed alle battaglie di Orcomene e di Cheronea dove fu fiaccato l’orgoglio asiatico. Avea 28 anni. Pare certo che egli non compisse tutti gli anni della sua ferma legale, e che tornasse a vivere una vita quieta e letteraria nella sua Benevento, che, antica e fedele colonia romana, era la sola città del Sannio non stata proscritta e venduta all’incanto.

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Statovi professore lungamente, come dice Svetonio, lasciò, già vecchio di cinquanta anni, la provincia, e venne in Roma; forse sperando che i lunghi studii e la pratica dell’insegnamento gli potessero aprire nella capitale una via per giungere ad una maggiore agiatezza e comodità di vita. Noi abbiamo ancora un manuale di Rettorica, edito sotto la dittatura di Silla, e sebbene l’autore di questo manuale sia sconosciuto, pure non pochi retori ed eruditi l’attribuirono ad Orbilio Pupillo; tanto più che l’aspra guerra mossa da lui agli antisofisti, quos omni sermone laceravit, consuona con le dottrine bellamente esposte in detto manuale. Ma che che si ritenga intorno a ciò, egli è indubitato che, se Orbilio non è proprio lui l’autore dell’anonimo manuale, fu uno dei più validi sostenitori di quel principio, per cui volevasi far restare la civiltà latina nella sua individualità italica, e non mischiarla, confonderla e annegarla nell’essere universale della civiltà antica.

Visse Orbilio sino a quasi cent’anni, ed aveva vista bambina la generazione che lo circondava nell’estrema vecchiezza. Vigoroso di quella salute che si acquista colla vita faticosa del soldato sopravviveva alla sua stessa epoca. La lunga vita d’insegnante lo aveva, come suole, fatto irritabile ed acre. Qualche suo motto scagliato contro uomini potenti ci rimane ancora. Galba, padre di colui che fu poi imperadore dello stesso nome, avvocato mediocre ma attivo, tozzo della persona e informe per gobba, volle a lui famoso, come per dispregio, dimandare in pubblico e dinanzi a una numerosa udienza che mestiere facesse, ed Orbilio di rimando: In sole gibbos soleo fricare.

Orbilio raccolse i libri degli annali di M. Papilio che erano dispersi, come ne fa testimonianza Svetonio, e oltre di Orazio produsse altri discepoli di chiara fama, come Scribonio e Orbilio, suo figliuolo.

I beneventani, memori delie sue virtù, gli eressero nel loro Campidoglio una statua di marmo ornata d’un manto, e con due scrigni ai piedi, che indicavano di contenere quei libri che gli erano stati amorevoli compagni nella vita. [p. 88 modifica]sedeva come chi è stanco ed affaticato, e in atteggiamento di chi è avvezzo alla turbinosa ginnastica della riflessione.

I nostri padri avevano un Campidoglio, e innalzavano delle statue ai loro uomini benemeriti, e se ora volgono usanze ben diverse, non vi sia discaro, o novelli padri della patria, che la mia voce vi dimandi per il povero Orbilio un lembo delle vostre mura, in cui una modesta lapide ricordi al viatore il nome del nostro concittadino, e l’animo memore e gentile dei non degeneri nepoti.