Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo IX

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Capitolo IX

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CAPITOLO IX.


Dopo la morte del principe Grimoaldo IV, che non lasciò prole, successero grandi discordie nel beneventano per Delezione del nuovo principe, e fu per poco che la contesa non fosse stata decisa colle ormi. Sulle prime parve vincitore il partito di Radelghiso, che in appresso scemò man mano di numero per le arti di Rofrit, figlio di Dauferio. E per lo contrario i fautori del partito di Sicone crebbero in modo che Radelghiso, vedendo dileguarsi ogni sua speranza, per non incorrere nell’odio e nella vendetta del suo rivale, consigliò i suoi aderenti di eleggere Sicone, benché straniero, alfine d’impedire che la patria fosse afflitta dalla guerra civile. Tutti i partiti si conformarono alla proposta di Radelghiso, e Sicone fu coronato principe di Benevento con le formole consacrate dall’uso, e il primo atto del suo governo consistette nella nomina di un tal Landolfo a Gastaldo di Capua.

Sicone nei primi tempi del suo governo pose ogni studio a guadagnarsi i cuori di tutti, e colla benignità dei modi, col largire grazie e doni ai suoi sudditi, e lusingare in varii modi i baroni della sua corte, non gli fu difficile di conseguire l’intento. E siccome Radelghiso sovrastava in potenza a tutti gli altri suoi baroni, così egli udiva assai volentieri il suo parere in ogni impresa di momento, e per qualche tempo fece mostra di tenerne gran conto; ma poscia, non si sa per quali ragioni, mutando proposito, cominciò nelle cose di governo a far capo da altri e trascurarlo, di che adirato Radelghiso, è fama che gli fuggi di bocca: «ebbi a vincere il falcone, or sarà mia cura di spegnere la volpe».

Sicone, accortosi che Radelghiso tramava congiure, scaltrito com’era nelle arti del governare, seppe con sottile accorgimento dissimulare il suo mal animo e il sospetto, e [p. 33 modifica]intanto che spiava tutte le occasioni per liberarsi di un suddito inquieto e bramoso di novità, per meglio assodare la sua potenza, maritò le varie sue figlie ad uomini assai potenti, del cui favore molto imprometteasi in una nuova Signoria, circondato com’era da palesi ed occulti nemici. Per le quali cose Radelghiso, vedendosi in odio al principe, al quale dava ombra la sua ambizione, e avvedendosi che non avrebbe potuto giammai bilanciarne la potenza, col consenso di Sicone, a cui non parve vero di levarselo dinanzi, si ridusse nella Badia Cassinense, ove, seguendo l’esempio della propria moglie, che non molto innanzi avea preso il velo nel monastero di S. Lorenzo, posto nel distretto di Consa, dopo lunga ed aspra penitenza vestì l’abito dei frati benedettini, e menò vita esemplare sino al termine dei suoi giorni.

In quel tempo i napoletani avevan deposto il duca Teodoro, intimo amico di Sicone, ed eletto in suo luogo Stefano, nepote al vescovo dello stesso nome.

Sicone, dopo di essersi associato il suo primo figlio Sicardo al principato, sotto colore di vendicare i torti di un principe amico, si accampò con poderoso esercito sotto le mura di Napoli. Ma dopo quattro mesi di vigorosa resistenza, per essere sopravvenuta la rigida stagione, tornò Sicone in Benevento, fiducioso di occuparla nella prossima primavera.

Infatti, entrato appena l’aprile, fu nuovamente su Napoli con un esercito maggiore della prima volta, e con mangani e altre macchine da guerra vi si affaticò intorno lungamente, senza che gli venisse fatto di espugnarla, benchè ne predasse i dintorni. Infine disperando di poterla acquistare per forza d’armi, finse di piegarsi ad un accordo e spedì con tale pretesto in Napoli con preziosi doni i suoi ambasciadori, commettendo loro di sedurre i maggiorenti della città, ed istigarli a uccidere il duca. Nè punto gli fallì il successo, poichè avendo i messi corrotti con doni molti fra i principali cittadini, mentre Stefano, ignaro della congiura, era inteso a soscrivere il falso trattato di pace, fu spento perfidamente dinanzi alla chiesa Stefania, detta poi [p. 34 modifica]di S. Restituta, nella fresca età di anni 34, da coloro in cui riponeva maggiore fiducia; e in suo luogo nell’anno 822, secondo la maggioranza degli storici, fu eletto duca di Napoli uno dei primi congiurati, che fu Buono, il quale riuscì sì tristo e crudele nel governo di Napoli, da disgradarne i piu immani tiranni

«Che dier nel sangue e nell’acer di piglio».

L’assedio di Napoli durò ancora assai tempo con danno inestimabile dei napoletani, sinchè il principe Sicone, dissuaso da uomini pii di spargere per futili motivi il sangue cristiano, diede volentieri orecchio alle proposte di pace, e, ricevendo dai napoletani non pochi ostaggi, astrinse il duca di Napoli a rendergli un assai grave tributo annuale, che si disse collatum. Dopo un tale trattato tornò in Benevento, menando seco, quasi come un trofeo di vittoria, il corpo di S. Gennaro, che da più secoli era stato riposto in una chiesa edificata fuori delle mura di Napoli. Nè è possibile immaginare il tripudio con cui i beneventani accolsero le venerate reliquie del loro patrono e concittadino, e con quanta pompa le collocarono in uno splendido avello eretto nella cattedrale, la quale era stata con magnificenza che ha pochi esempi rifatta dal medesimo Sicone. E insieme alle ceneri di S. Gennaro riposero nell’arca istessa i mortali avanzi di S. Festo e di S. Desiderio, suoi compagni di martirio; nè punto errarono i cronisti locali nell’affermare che con uguale allegrezza non avrebbero i beneventani accolto l’annunzio della conquista della città di Napoli.

Le ceneri di S. Gennaro rimasero ivi sino al secolo XIII, dopo il qual tempo furono trasferite nel monastero dei P. P. Benedettini in Montevergine1 e depositate sotto l’altare [p. 35 modifica]maggiore. Ma in seguito, e precisamente nel 1497, essendo commendatario di quella Badia il Cardinale Oliviero Carafa, il fratello di costui, a nome Alessandro, mediante un breve del pontefice Alessandro VI Borgia, ebbe facoltà di nuovamente riporle nella chiesa metropolitana.

Si ritiene dal Capaccio (lib. 1. cap. 13) e da taluni cronisti che — non tenendo il duca Buono i patti del trattato di pace — Sicone assediasse nuovamente la città di Napoli, e desse il guasto alle città di Aversa, Sarno ed Atella, e che poco dopo avesse anche combattuto con prospera vicenda i francesi, per esimersi dall’obbligo dell’annuo tributo; ma di ciò mi passo volentieri, poichè siffatta opinione non è divisa dalla massima parte degli storici delle cose di Napoli. Pare invece che, dopo la guerra coi napoletani, l’unico pensiero di Sicone fosse stato quello di accrescere la prosperità de’ suoi stati, e meritare con opere utili e di gran momento l'universale benevolenza dei suoi sudditi. E per questo fece edificare sul monte Tifata una città che dal suo nome disse Sicopoli. E poichè in Capua, di tempo in tempo, per essergli avversi i più distinti cittadini, accadeano delle sedizioni, egli piuttosto che combattere i suoi nemici a viso aperto, tentò amicarsigli, vuoi col comporre amichevolmente le civili dissenzioni, e vuoi per via di matrimoni tra le principali famiglie di Capua e di Benevento, come leggesi nelle cronache di Erchemperto e dell’Ammirato.

Sicone negli ultimi anni che resse il principato diede maggiori prove d’animo pio: dacchè oltre di avere, come si è accennato, ampliata e nobilmente decorata la nostra cattedrale, donò a Montecassino la sua corona d’oro, e avendo rinvenuto tra i ruderi del teatro beneventano molte monete d’argento, le fece fondere e coniare coll’impronta dell’Arcangelo S. Michele. Egli uscì di vita nell’anno 832 dopo sedici anni di governo, e lasciò desiderio di sè in tutti i suoi dominii. E, in verità, non può revocarsi in dubbio che — malgrado la sua politica non sempre informata ai principii della morale cristiana — fu un principe dotato di raro [p. 36 modifica]acume politico, prode nelle armi, profuso nel donare, e geloso della indipendenza del suo principato, come rilevasi dal suo rifiuto di più concedere l’annuo tributo ai francesi.


Note

  1. Questo monastero giace sulla costa di uno dei più elevati monti degli Appennini, e fu denominato Montevergine dai longobardi di Benevento, mentre dai romani era detto Mons Partenius. Questo santuario fu visitato da moltissimi sovrani e pontefici, e lo sventurato quanto generoso Manfredi vi eresse una cappella che destinava a sua sepoltura.