Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo X
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CAPITOLO X.
Dopo tante immensurabili calamità parve che la Provvidenza mandasse un angelo tutelare a conforto dei cittadini superstiti dal terribile contagio del 1656, allorchè nel 22 gennaio del 1680 fu da Innocenzo XI creato Arcivescovo di Benevento il cardinale Fra Vincenzo Orsini d’Aragona dell’Ordine dei predicatori, disceso dai duchi di Gravina e principi di Solofra, nato in Gravina nel 2 febbraio 1649, e non in Roma come opinano taluni suoi biografi. L’Orsini fu uno di quei rari benefattori dell’umanità che unicamente acquistarono il dritto ai giusti encomi degli storici e all’affetto della riconoscente posterità, e avendo trascorso in Benevento i migliori suoi anni, furon tali i beneficii di cui si mostrò liberale coi beneventani in poco volgere di tempo, da poter francamente asserire che di ogni utile istituzione che si vide fiorire in Benevento nell’ultimo periodo della dominazione pontificia fu autore l’Orsini. Ed in quel tempo il potere degli arcivescovi prevalse in Benevento per guisa su quello dei governatori e del comune, che, in qualsiasi cosa di rilievo che riguardasse la città, i papi e la sacra Consulta prendean consiglio solo dall’arcivescovo, e quindi l’indipendenza e l’autorità del Comune cominciarono notevolmente a scemare. Ma siffatta prevalenza ridondò forse a bene del paese, il quale sortì per il corso di circa due secoli una serie di egregi arcivescovi, che posero ogni loro pensiero a beneficare i beneventani. E poichè essi oltre il buon volere erano anche forniti di copiose entrate, potettero agevolmente migliorare in molti modi le condizioni della città di Benevento, e ristorare in qualche parte i danni dell’isolamento in cui per le sue condizioni politiche era caduta.
Ma appena dopo sì acerbi lutti comincio a balenare per Benevento la speranza d’un meno infausto avvenire, fu la misera città contristata da quel memorabile tremuoto narrato dal Muratori, e da altri prestantissimi storici, il quale fu assai più fiero e spaventoso di tutti gli altri che ho sin qui accennato.
Volgeva il giorno 5 giugno 1688, vigilia di Pentecoste. L’aria appariva serena, e rare nubi qua e la sparse velavano in pochi punti il cielo. Tutto intorno era cheto, e non alitava alcun venticello che temperasse il soverchio calore estivo. Da niun segno esterno si sarebbe potuto presagire il prossimo scotimento della terra, e perciò i beneventani traevan l’ore scevre di qualsiasi sospetto. Ma se l’uomo non poteva col solo lume del naturale discorso antivedere l’imminente flagello, gli animali lo presentivano per istinto, e davan segno chiarissimo di spavento, annunziando in più modi la ruina che alla città sovrastava. In quella cominciò a udirsi sotterra un cupo rombo che in pochi istanti crebbe, e si tramutò in orrendo fragore, a cui tenne subito dietro uno scrollamento generale. Tremò d’ogni intorno la terra, e terribilmente si scosse d’ogni maniera di moto, dal basso in alto, dall’alto in basso, di vertigine, di sbalzo, e di ondulazione, in pochi istanti precipitarono tempii, traboccarono palagi e case, si sfasciarono muraglie, e tutta Benevento fu sconvolta e atterrata. Il Duomo, compiuto pochi anni innanzi dall’esimio arcivescovo, rovinò in massima parte, e dell’episcopio non potè preservarsi che unicamente la gran sala, ma rimase guasta in molti punti. La riedificata Basilica di S. Bartolomeo fu interamente distrutta, e in un cu molo di materie trasformata. Delle altre chiese non rimase quasi vestigio. I monasteri delle monache furon tutti diroccati. Della parte della città posta verso il fiume Sabato non avanzarono che pietre; case e monumenti. furono trasformati in ammassi di rottami. Della parte poi della città che siede sulla sponda del fiume Calore rimasero talune case, ma screpolate, rotte e rese inabitabili. Benevento non era più, e salvo pochissimi edifizii, neanche le strade discernevansi, perchè rimaste ingombre dalle rovine. Anche l’aria parve tetra, essendosi sollevata dai caduti edifici una densa nube di polvere, che dava immagine di una fitta caligine condensata in ogni parte dell’atmosfera. Scena più orrenda non si sarebbe potuto immaginare..
Dalle crollate case furono schiacciati e sepolti 1367 cittadini. Dei superstiti alcuni si vedeano vagare smarriti e confusi tra le macerie, e, incespicando ad ogni passo, cadeano fra i rottami come cosa morta, altri di polvere cospersi si vedean sbucare feriti di sotto le rovine, ed inerpicarsi pei monti di frantumi, altri presi da pia sollecitudine aggirarsi in traccia dei parenti e degli amici che non più vedeano, e trovatili semivivi, travagliarsi per trarii dalle macerie, ed altri vedeansi errare come insensati, senza poter raffigurare neanche il sito delle case fra quell’informe ruina.
A tanta desolazione si aggiunse pure che i cittadini nulla sapendo di ciò che era accaduto al lor pio pastore supponevano il peggio, non vedendolo accorrere qual padre comune a rincorare tutti coloro che erano rimasti privi di un qualche loro congiunto. L’arcivescovo, quando successe il primo scotimento delle mura, era inteso a discorrere con un gentiluomo della diocesi. Al tremendo e repentino squassamento essendo andato in socquadro l’episcopio; egli e il gentiluomo precipitarono all’ultimo piano, ossia nel granaio, ed ivi giacquero coperti ed interrati dai rottami del caduto palagio. Il gentiluomo non potè salvarsi, ma non così l’arcivescovo, sul di cui capo talune canne ebbero a formare una specie di tetto da sostenere, non si sa come, l’impeto dei ruinanti massi, ed impedire che l’Orsini rimanesse soffocato dal calcinaccio. Poi, quando tutto fu cheto, sui ruderi dell’episcopio prese ad aggirarsi un tale P. Buonaccorsi dell’Ordine dei predicatori, chiamando l’arcivescovo più volte, e in pensiero che fosse rimasto o morto, o mutilato. La sua voce non tardò a giungere all’orecchio dell’Orsini, che, con quanta maggior lena potette, rispose, e fu udito dal frate, il quale accorse ove gli era sembrato di ascoltare come una voce lontana che uscisse di sotterra, e, coll’aiuto di un tal canonico Paolo Farella, smovendo le macerie e scavando, potè infine con assai facilità trarre fuori illeso il seppellito pastore; il quale passò ad abitare per pochi giorni nel prossimo palagio, che appartiene ora ai Signori Isernia, l’unico edifizio rimasto illeso in quella parte della città. Nè dopo un sì funesto tremuoto fu per lungo volgere di tempo esente Benevento da un tale flagello; poichè ai 15 marzo 1702 soccombette di nuovo al medesimo disastro, benchè lo scotimento del suolo non fosse stato così violento come quello del 1688. Cento cinquanta persone furono per questo novello terremoto morte e sepolte nel tempo stesso tra le rovine.
Di tanti mali a cui soggiacquero i beneventani fu unico confortatore il loro venerabile pastore, che, possedendo ricchissime entrate di famiglia, potette imprendere opere memorande per alleviare i danni derivati alla città di Benevento dal descritto terremoto. Egli in primo luogo si accinse con indicibile alacrità a far ricostruire la chiesa metropolitana, l’episcopio, la Basilica di S. Bartolomeo, il seminario, e il casino detto della Pace Vecchia, e nel giro di due soli anni questi edifici! furono rinnovati ed abbelliti. A proprie spese cominciò il nuovo cappellone della chiesa di S. Maria di Costantinopoli nel collegio di S. Spirito, e rifece tutta la sacra suppellettile del Duomo, dando assai più vaga e pregiata forma ai sacri e preziosi arredi, e facendo lavorare le tre statue di marmo, che rappresentano S. Bartolomeo, S. Gennaro e S. Benedetto, per uso del Duomo. Con molta pompa collocò le reliquie di diversi santi in un’arca marmorea sotto l’altare maggiore da lui nuovamente fatto ricostruire di eletti marmi, e restaurò le porte di bronzo nel Duomo, fondò il monastero delle religiose domenicane in Montefusco, accrebbe le entrate delle parrocchie che prima erano dirette da canonici nominati per un certo tempo. Fornì di acqua potabile la città di Benevento, che, dopo i guasti e le rotture dell’acquedotto romano, si giaceva del tutto priva di una tanta comodità; e a ciò fu anche indotto il pio pastore dalla necessità d’impedire che le donzelle popolane, le quali soleano aggirarsi nei dintorni della città in traccia d’acqua pura, non cadessero nelle insidie che al loro pudore eran tese di continuo da uomini malvagi. Fondò anche l’ospedale di S. Diodato, e non v’ha chiesa della diocesi beneventana che non risentisse i benefici effetti della sua magnanimità e larghezza; come è attestato da monumenti, iscrizioni e stemmi, che tuttora ricordano ai posteri le sue beneficenze. Ma la più utile e grandiosa delle sue istituzioni consiste nel monte frumentario, il quale benchè fosse stato fondato in origine dall’Arcivescovo Card. Giuseppe Bologna napoletano, pur tuttavia fu aumentato in modo dall’Arcivescovo Orsini da poterne essere reputato il fondatore. Questo nobilissimo e filantropico istituto era destinato a dispensare la semenza a tutti i coloni poveri, che nel corso dell’anno avessero apparecchiate le maggesi e coltivati i campi, e di questa provvida istituzione l’ottimo pastore compose e pubblicò le regole in un libricino edito nel 1720, del quale si conserva un esemplare nel grande archivio di Napoli. E fece di più: ordinò a tutti i curati della sua vasta archidiocesi di predicare e far comprendere a tutti i fedeli l’utilità della istituzione. La venerata parola dell’Arcivescovo e dei curati produsse frutti mirabili, poichè al tempo del decimo sinodo di Benevento, in tutti i paesi della diocesi, cioè nelle tre provincie di Principato Ulteriore, Capitanata e Molise, già prosperavano cento sessantasette Monti frumentarii con la dote di 20 mila tomoli di frumento. E in breve giro di tempo le prediche dei pastori, avvalorate dalle parole e dalle circolari dell’Orsini, allorchè fu assunto al ponteficato, sortirono sì buon successo, che nel 1791 nell’ex Reame di Napoli si noveravano meglio di 500 monti frumentarii.
Ma in processo di tempo, dato giù quel primo fervore, i monti frumentarii cominciarono a scemare, e le attribuzioni concedute al Tribunale Misto, e poi al Real Demanio contribuirono sempre più a far declinare una sì rilevante istituzione, la quale poi trovò favore durante il regno di Ferdinando II Borbone, che stabili i Monti Frumentarii in quasi tutte le città del regno.
L’Orsini fondò pure in Benevento un monte di pegni, e qualsiasi colta persona non ignora che agli antichi Monti di Pietà, che per lo più, del nome in fuori, non aveano altro di pietoso, ed erano veri banchi di prestito, venne sostituita nel XV secolo la benefica istituzione del Monte dei Pegni con regole ed indirizzo diverso. I Monti dei Pegni si proposero di soccorrere, mediante pegno, coloro che in altro modo sarebbero rimasti smunti e dissanguati dall’usura. Istituzione è questa molto giovevole — quando è ben regolata — tanto alla persona agiata che al povero, per ricevere con mite interesse il denaro di cui si potrebbe avere bisogno. E mentre quasi tutti i Monti dei Pegni esigevano il 5 0[0, quello di Benevento limitavasi a riscuotere il 3 0[0, e il pingue patrimonio di quell’istituto, in mani laiche abilmente amministrato, ricevette col volgere del tempo un notevole accrescimento. E sebbene i cardinali pro tempora, come il Rossi e il Carafa, presso dei quali era l’amministrazione, attenuassero il capitale del Monte col detrarne non lievi somme, che destinarono a cose estranee allo scopo di beneficenza pel quale fu istituito, ciò nondimeno il nostro Monte dei Pegni si compone ora di un milione e ottocento mila lire, e oltre ai crescenti bisogni della pignorazione sovviene pure in ogni occasione altre istituzioni di beneficenza e lo stesso municipio.
L’Orsini, che amava i dotti studii, pose ogni cura a migliorare le condizioni della nostra Biblioteca capitolare. Questa esisteva nel secolo XI, trovandosi il nome di Matelpotone Diacono e Bibliotecario in una carta dell’Arcivescovo Alfano III dell’anno 1012 e nell’Italia Sacra di Ferdinando Ughelli. Le memorie dell’antico stato di questa Biblioteca non sono anteriori all’anno 1186. In quell’anno Filippo di Balbano conte di Apice donò il patronato della chiesa di S. Lucia colle sue rendite alla Biblioteca Beneventana, e per essa all’abate Rachisio che n’era il bibliotecario, come è scritto nell’originario diploma che si conserva nel tom. 40 della Biblioteca. Lo stato della Biblioteca capitolare beneventana nell’anno 1447 è descritto in un documento dell’Arcivescovo Astorgio Agnesi, che ci è stato conservato.
Nel 1450 Nicolò V fece dono al capitolo di Benevento del monastero di S. Lupo dei monaci benedettini posto in questa città, e per tale donazione la Biblioteca capitolare si accrebbe di molti codici che appartenevano a quel monastero. E in seguito l’arcivescovo Corrado Capece, morto nel 1482, e il cardinale arcivescovo Lorenzo Cesbo, defunto nel 1502, arricchirono la biblioteca Capitolare di molti manoscritti e libri delle prime e migliori edizioni di quel tempo.
Però dopo il 1636 per diversi fatti principiarono a scemare gli antichi documenti della Biblioteca capitolare, per guisa che si smarrirono le opere di S. Cipriano, e andarono perdute altre vetuste memorie di cui fa menzione la Vipera, e che si leggono in altri libri dati a stampa dagli arcivescovi Capece e Cybo. E nulla probabilmente ci sarebbe avanzato degli antichi tempi, senza la somma diligenza del cardinale Orsini, il quale fece rilegare gli antichi Codici, riordinarli e in parte trascriverli e registrarli in esattissimo indice. E per cura anche dell’Orsini i preziosi diplomi di duchi e principi longobardi furono diligentemente trascritti da uomini dottissimi nella lingua longobarda a quei tempi, che, residenti in varie parti d’Italia, furono invitati a recarsi a tal fine in Benevento. Tali copie vennero riposte in volumi membranacei, e si fecero rinchiudere le originali pergamene in distinti tubi di latta per difenderle dalle tignuole. E nello stesso modo i diplomi di altri principi ed imperadori, le bolle di papi ed arcivescovi, ed altre insigni memorie furono accuratamente custodite e difese dalle ingiurie degli uomini e del tempo; sicchè tali pergamene son da ritenere come un tesoro inestimabile di storiche ricerche.
L’Orsini fondò pure il Monte de’ tetti — istituzione assai benefica che non più esiste — con cui si propose di soccorrere quelle chiese povere danneggiate dal tempo, che dai loro titolari non potevano essere restaurate o riedificate per difetto di mezzi adeguati al bisogno.
E non solo col profondere le sue dovizie in Benevento, e fondare utili istituti contribuì l’ottimo arcivescovo ad alleviare le tante calamità cui soggiacquero per lungo ordine di tempo i cittadini, ma anche in altri modi che non riuscirono ad essi di minore utilità. Egli imprese felicemente, e mandò a fine col proprio esempio la riforma del Clero, sviato dietro ai mali esempi, e questo in poco tempo seppe segnalarsi per morigeratezza di costumi e svariata dottrina; sicchè per forse un secolo si mantenne in fiore la sua fama, e fu reputato per uno de’ più splendidi ornamenti della sua città nativa.
E a migliorare la coltura del nostro clero cooperò efficacemente l’Orsini anche col favore conceduto ai buoni studii, pei quali ebbe a sostenere gravi spese, ardue indagini, e fastidii di qualsiasi genere. Inoltre coi suoi frequenti sermoni, e coll’aprire ai poveri e agli infelici i tesori della sua inesausta carità cristiana, infuse in gran parte la mitezza e bontà dei suoi costumi nel popolo, il quale più che agli odii e alle vendette, come un tempo, parve propenso alla mansuetudine e all’obblio delle passate offese. Di piu recò con un nuovo metodo quasi a perfezione i sinodi diocesani, che sono anche oggi tolti ad esempio dalla maggior parte degli arcivescovi del napoletano; e con ottimi regolamenti e discrete entrate serbò il decoro delle chiese e sovvenne ai bisogni delle più povere parrocchie, di cui svernò anche, il numero. Nè le sue cure furono limitate alla sola città di Benevento, ma si estesero a tutta la diocesi, di cui non ignorava i più minuti bisogni, come risulta chiaramente dalle Stupende statistiche diocesane, che col titolo di stato della città e Diocesi di Benevento egli fece compilare sotto i suoi occhi da abili sacerdoti. L’Orsini prese adunque cura di tutto, e soccorrendo ad ogni bisogno o pericolo, ed ovviando con mezzi opportuni ad ogni disordine, fu il vero padre e benefattore di tutti, ed ebbe bel ricambio di amore e di gratitudine dall’intera cittadinanza.
La fama delle eccelse virtù del cardinale Vincenzo Maria Orsini, Arcivescovo di Benevento, rese più care dalla sua modestia, dalla semplicità dei costumi, e dalla santità della vita, non tardò ad estendersi in tutti gli altri stati cattolici, e a tanta meritata reputazione aggiungendosi lo splendore dei natali, a cui in quel tempo annettevasi la massima importanza, fu nel 1724 esaltato al soglio pontificio col nome di Benedetto XIII. Un tal fatto dolse ai beneventani per la perdita del loro amatissimo pastore, e quando l’Orsini si recò in Roma per assumere l’altissimo ufficio, fu seguito per un pezzo lungo la strada dall’intiera popolazione, e narrasi che allorquando si accomiatò dal suo gregge, impartendo a tutti la sua benedizione, uomini e donne, che lo reputavano un santo, prostrati al suolo, con fede invincibile gli chiesero una grazia. E l’Orsini, stato un po’ sopra pensiero, tra il silenzio universale si ritiene che pronunziasse con voce alta e distinta queste parole: «Benevento soccomberà in avvenire ad altri terremoti, ma niun cittadino ne sarà più vittima.»
E una tale predizione parve avverarsi nell’orrendo tremuoto accaduto nell’anno 1805, che si disse di S. Anna, perchè ricorreva in quel giorno una tale solennità, e nell’ultimo terremoto detto per la medesima ragione di S. Caterina.
Ma anche tra le gravi cure del pontificato non iscemarono le sue sollecitudini per i beneventani, e siccome gli erano noti tutti i cittadini pel lunghissimo uso, ogni volta che gli venia dato di scorgerne alcuno per le vie di Roma, fattolo chiamare a sè in privata udienza, ne lo rimandava con qualche dono. Nè mai gli cadde dall’animo la chiesa di Benevento, chè anzi egli stesso ne tenne il governo per mezzo di un coadiutore, che fu il cardinale Niccolò Coscia, e durante il suo breve pontificato di poco oltre un lustro, si recò due volte dalla città eterna a visitare la sua Benevento, a cui concedette molti privilegi, la prima volta nel 1726 e l’altra nel 1729, e non può mente umana immaginare il giubilo e la gratitudine con che fu accolto da tutti i cittadini. I beneventani gli eressero un monumento che sussiste tuttora nel largo principale della città, che da lui prende il nome,
Piazza Orsini col Monumento a Benedetto XIII
e diedero sempre intera fede alla sua profezia, e la ricordanza dei suoi benefizii tramandata di generazione in generazione si conserva ancora viva nei beneventani, e non verrà mai meno, per dirla col poeta,
«Se l’universo in pria non si dissolve»1 L’unico errore di cui fu incolpato l’Orsini consiste nella sconfinata fiducia riposta nel suo coadiutore Niccolò Coscia, che gli successe nell’arcivescovado di Benevento. Costui che
«al finger pronto, all’ingannare accorto»
volgea le chiavi del cuore di Benedetto XIII si circondò di alcuni assai turpi satelliti, i quali, non limitandosi ad essere i ministri delle sue voglie, tendevano pure ad avvantaggiare la propria condizione, e trascorsero a tali eccessi di audacia da eccitare in Roma la generale indignazione, e tutti costoro erano in Italia creduti beneventani. Finché visse BenedettoXIII il popolo romano non trascorse a verun eccesso, ma come si seppe della sua morte, non volle più contenersi e proruppe in una specie di sedizione. Molti cittadini corsero sulle tracce dei cardinali Coscia e Fini, e del prelato Santa Maria, maestro di Camera, per trarne memoranda vendetta, e percorrendo all’impazzata le strade di Roma, e facendo oltraggio non solo, ma lanciando anche colpi di pietra ai familiari del defunto pontefice, profferivano le peggiori ingiurie che si siano mai udite contro i beneventani. Il cardinal
Coscia erasi rifugiato nel palagio del marchese degli Abati, che fu tosto circondato dal popolo furibondo, ma allo scaltro cardinale venne fatto di eludere le ricerche dei suoi persecutori, e fuggirsi da Roma sotto mentite vesti; senza che il popolo ne avesse preso sospetto. I savii provvedimenti adottati dal sacro collegio impedirono maggiori turbolenze. Intanto essendosi negli altri stati propagata la nuova di quel tumulto con molta, al solito, alterazione dei fatti, se ne attribuiva a torto la colpa ai beneventani. Nè tale opinione cadde solo in mente a persone volgari, ma fu accolta e tramandata ai posteri da autori di alto merito. E tra gli altri il Montesquieu, quando udì la morte di Benedetto XIII, scrisse al padre Cerati della Compagnia dell’oratorio di S. Filippo questa lettera: «Finalmente Roma è libera dalla bassa tirannia di Benevento, e le redini del pontificato non sono più nelle loro vili mani. Tutti questi ribaldi con Santa Maria alla testa sono tornati alle capanne dove nacquero, a raccontare ai loro parenti i tratti della loro passata insolenza».
Sedato il tumulto e sottentrata in Roma la calma, il sacro collegio, dopo aver celebrate solenni esequie al defunto Benedetto XIII, tenne un conclave, e ai 12 luglio dell’anno 1730 elesse a sommo pontefice il Cardinal Lorenzo Corsini che tolse il nome di Clemente XII. Questi fece suggerire al Coscia di rinunziare all’arcivescovato di Benevento. Il Coscia vi si rifiutò, per cui si compilò un processo pei fatti di cui era incolpato nella congregazione dei cardinali. E poco dopo fu intimata al Coscia la restituzione di trecento mila scudi alla Camera Apostolica e alla Tesoreria, somma per abuso da lui riscossa, e non avendo voluto il Coscia aderire alla richiesta, fu detenuto nel Castel S. Angelo. Ma non essendo ben vigilato gli riuscì di fuggire nel marzo del 1731 e di condursi in Napoli, ove fu protetto dal vicerè conte di Harrack, a cui poscia fu ingiunto dalla Corte di Vienna di concedere al Cardinal Coscia intera balìa di dimorare in qualsiasi parte del regno che più gli fosse a grado. Adirato il pontefice per quella fuga gli notificò un monitorio, col quale si faceva noto al Coscia che non tornando in Roma nello spazio di un mese sarebbe rimasto privo di tutti i benesizii ecclesiastici di cui fruiva e della stessa dignità di cardinale. Intanto la congregazione, composta di cinque porporati, che furono i cardinali Corradini, Pico della Mirandola, Imperiali, Banchieri e Porzia continuava la processura contro il Coscia e i suoi complici per le tante prevaricazioni di che furono accusati e abusi di ogni maniera. Le decisioni di questa congregazione parvero giuste a tutti, e riscossero le lodi della nazione. Si dichiarò decaduto il Cardinal Coscia, primo autore d’ogni disordine, dall’arcivescovado di Benevento, e fu condannato a 10 anni di reclusione nel forte S. Angelo, e al pagamento di varie somme alla Camera Apostolica, e tutti i suoi complici soggiacquero a varie pene di minor momento. E si verificò allora che niuno di costoro era nativo di Benevento, e dell’esiguo territorio di dominio della Santa Sede, ma che tutti sortirono i natali in Napoli o in altre città d’Italia. Appena fu noto ai beneventani che il cardinale Coscia era stato deposto dalla dignità di arcivescovo di Benevento, essi che lo avevano in odio ne esultarono, e per tre sere susseguenti ebbero luogo nella città pubbliche luminarie e fuochi di artificio, e in ultimo il popolo trasse in processione al Santuario della Vergine delle Grazie per avere, secondo la sua credenza, ispirato al pontefice la punizione di quel malvagio. Il papa in tale occasione spedì a tutti i principi cattolici copia del processo compilato contro il Coscia, «ma a che pro scrive a questo proposito il Muratori, se dopo aver messo in chiaro tanti reati da lui commessi, si vide tuttavia la porpora ornare un uomo che l’avea tante volte deturpata!»
Note
- ↑ Il nostro concittadino conte Carlo Torre, Prefetto di Milano, pubblicò pochi anni or sono, e fu questo l’ultimo suo lavoro, alcune notizie sul pontefice Orsini, con la seguente iscrizione che tutte ne compendia le più rare virtù della mente e del cuore, e che io riporto come un corollario quasi delle cose dette sul più insigne e glorioso benefattore della città di Benevento.
Benedetto XIII.
Già benemerito Arcivescovo della beneventana Archidiocesi
Illustre per scienza civile ed amore del bene
Precorse i tempi
Creò Monti Frumentarii e Monti di Pegni
Perchè l’usura non depauperasse i cittadini
Munificentissimo
Restaurò Chiese e istituì un Monte di Tetti
Fu autore di celebrati Sinodi
Arricchì la Metropolitana di preziosi doni
E di sontuosi paramenti
La città ebbe caramente diletta
Fu maestro ed esempio d’ogni virtù
Lasciò di se desiderio e memoria
Grata perenne veneratissima
- Testi in cui è citato Papa Innocenzo XI
- Testi in cui è citato Ludovico Antonio Muratori
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Papa Benedetto XIII
- Testi in cui è citato Ferdinando Ughelli
- Testi in cui è citato Papa Niccolò V
- Testi in cui è citato Papa Clemente XII
- Testi in cui è citato Carlo Torre
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