Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo XIV

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Capitolo XIV

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CAPITOLO XIV.


Non trascorsero molti giorni da che fu eretto in Benevento l’albero della libertà, che vi giunse il commissario francese Carlo Pop, per fondare la repubblica. E subito ordinò al capitolo, alle collegiate, ai monasteri di uomini e donne, e alle confraternite di consegnare tutti gli argenti superflui al culto cotidiano pel bisogno della cassa dell’armata, e giudicò superflui tutti gli argenti che non fossero stati indispensabili all’esercizio del culto, eccettuando dall’obbligo di tale consegna le chiese della Vergine delle Grazie, e dei PP. Osservanti di S. Francesco, per prevenire il pericolo di un sollevamento generale di popolo. Nè a questo si limitarono i danni della città; poiché nel 16 febbraio dell’anno 1799 giunsero in Benevento altri quattro mila francesi, che nel giorno 20 mossero per la Puglia a dare ivi una forma conveniente alla repubblica. Ma il generale Duem, che ne avea il comando, pretese dal Comune ducati tremila e cinquecento per distogliere i soldati dal pensiero di saccheggiare la città. Poco dopo lo stesso corpo d’armata, in numero di soli ottocento, tornò dalla Puglia nel giorno 19 marzo, e dopo di aver protratta in Benevento la sua dimora sino al giorno 20 aprile, ne partì per congiungersi al capo maggiore della truppa, che nel 2 maggio varcò la frontiera del regno, lasciando un piccolo presidio nei forti di Napoli, e di altri luoghi del reame, e il governo della città fu affidato ai municipalisti e alla truppa civica.

Nel giorno poi 7 aprile 600 soldati francesi presero alloggio in Benevento insieme al Commissario Andrea Valiante della terra di Ielsi, contenuta nella diocesi beneventana. Questi in nome della repubblica francese abolì le [p. 235 modifica]distinte giurisdizioni introdotte dal governo pontificio, ed elessero a reggere la città 16 cittadini che tolsero il nome di municipalisti, e furono il marchese Giuseppe Pacca, che prese il titolo di presidente, e i signori Ignazio Zambelli, Nicola Colle, il marchese Giacomo Mosti, Giovanni Tomaselli, Giovanni Torre, Vincenzo Battaglia, Carlo Pellegrini, Vincenzo de Longis, Domenico Simone, Mattia del Grosso, cittadini beneventani, e Donato Reale della terra della Riccia. Tutti costoro esercitavano un potere assoluto nelle materie politiche ed amministrative, e furono in appresso ridotti a sette.

Per trattare poi le cause civili e criminali furono istituiti tre Tribunali secondo l’usanza dei tempi. Il primo detto della Pace, si compose di due giudici, che furono Nicola Luigi d’Aversa per Benevento, e Filippo Rossi per il contado, i quali con breve e facile procedimento decidevano le cause civili. Da questo tribunale di primo grado di giurisdizione si produceva appello al secondo detto della conciliazione, composto da Giuseppe Marzullo presidente, e dai giudici Pasquale la Valle e Vincenzo Battaglia, che dopo aver udite le parti senza avvocati o procuratori, emettevano le loro sentenze. Da questi infine si faceva appello al terzo tribunale denominato superiore, e che ora si direbbe di terza istanza, del quale era presidente Antonio Buonopane, e giudici Tommaso Marano e Francesco Zoppoli, e ad esso incombeva di proporre le cause alla decisione ultima e irrevocabile del Tribunale supremo, che in tutte le sue decisioni dovea far uso del vocabolo invito, invece di vogliamo, comandiamo, ordiniamo, locuzioni adoperate per lo innanzi nelle sentenze emanate dal potere giudiziario. Questo terzo tribunale prese a decidere precariamente anche le cause criminali, e dico precariamente, perchè si facea pensiero d’istituire per queste cause un altro tribunale con 60 giurati eletti da tutti gli ordini della cittadinanza, i quali, nei mesi statuiti, dovessero alternativamente, in numero di quattro per volta, giudicare le cause criminali, ma un tale tribunale non fu poi fondato, stante la corta durata del dominio francese.

[p. 236 modifica]In seguito un commissario francese, Carlo Pop, introdusse in Benevento tutte le usanze della repubblica francese. Egli ingiunse ai preti, ai frati e ai secolari, tranne alle donne, di fregiarsi della coccarda tricolore, e tutti gli abitanti della città e del contado furono chiamati senza distinzione col semplice titolo di cittadino. Ordinò che Tanno fosse cominciato dai 27 settembre, e mutati i nomi dei mesi nel seguente modo. Il settembre si chiamò vendemmiale, l’ottobre brumale dalla parola bruma che significa nebbione, il novembre frimale dalla parola frimas che significa brina, il decembre nevoso, il gennaio piovoso, il febbraio ventoso, il marzo germile, a denotare il tempo in cui si sviluppa il seme, l’aprile fiorile, cioè tempo in cui germinano i fiori, il maggio pratile, per esser quello il tempo in cui si falciano i prati, il giugno mellifero, a indicare il tempo del ricolto del frumento il luglio termifero, cioè tempo del ricolto delle frutta.

Si adottò una tale mutazione per discostarsi dai profani vocaboli di Luna, Marte e di altri pianeti, e si usò il nome naturale di primo dì, di secondo dì, di terzo dì, e così sino a dieci. Si divisero i giorni di ogni mese in tre decade, le quali compivano il numero di trenta giorni per ciascun mese, e per questo chiamavano il calendario decedano. In fronte ad ogni scrittura tanto pubblica che privata, e anche nelle lettere familiari, si scriveva Repubblica francese: da un lato Libertà e dall’altro Uguaglianza; e qualsiasi scritto dovea chiudersi con le parole Salute e Fratellanza, ed essere sottosegnato col solo titolo di cittadino. Di più il commissario istituì la truppa civica beneventana di fanteria e cavalleria, a cui tutti furono astretti ad iscriversi, e a niuno era dato di conseguire qualsivoglia uffizio civile senza essere soldato della Guardia Civica. A tutti 1 cittadini incombea di far la ronda sia di notte che di giorno, non esclusi gli ecclesiastici, ai quali, per esserne esenti, facea mestieri di pagare, secondo la diversa dignità ecclesiastica, una tassa determinata da darsi a quelli che sottentravano in lor luogo.

Nel giorno 7 aprile il commissario della Francia prese [p. 237 modifica]solennemente il possesso della città di Benevento. Nel mattino si chiusero le porte, e si aprirono indi a poco allo sparo del cannone, che ebbe luogo ne’ due punti estremi del paese, cioè dinanzi le porte del Castello e di S. Lorenzo. Tutta la truppa francese insieme alla civica, la quale era preceduta dalla banda musicale, si adunò nella cattedrale. Verso le ore 13 una parte di essa truppa con tamburi e musicali istromenti trasse al palagio municipale, e ne uscì poi con i municipalisti, che, adorni di una fascia a tre colori, messa di traverso, secondo l’usanza francese, e, preceduti dal commissario, si avviarono con gran pompa al Duomo, ove fu cantata la messa pontificale con l’assistenza dell’arcivescovo Spinucci, e in appresso il Te Deum. Appena si diede fine alle cerimonie ecclesiastiche, tutti in bell’ordine recaronsi nella così detta Gran Guardia, posta nel largo del palazzo arcivescovile, e li precorrea il Commissario a cavallo; il quale tenne ivi una breve concione, con la quale dichiarò che la città di Benevento col suo contado sarebbe da quel giorno dipesa dalla repubblica di Parigi, e che egli in ogni occasione ne avrebbe tolta la difesa contro qualunque nemico, e la festa ebbe termine con lo sparo del cannone. Dopo questo il Commissario, seguito dai municipalisti, entrò nel palazzo del Castello ove accolse con molto onore i più distinti cittadini, e la sera fu illuminata l’intera città.

Per una tale solennità fu fatta grazia della vita a quattro beneventani che nel giorno 20 gennaio sollevarono il popolo contro i francesi per il furto del tesoro, ma nel tempo stesso, a dare un esempio, fu fucilato Antonio Villanacci, come autore del saccheggio accaduto in tale giorno in danno dei beneventani.

Infine nella mattina del due maggio furono soppressi i seguenti Pii luoghi: due canoniche, uDa dei padri Lateranensi, e P altra di S. Angelo a Cupolo, e gli ordini religiosi di S. Domenico, di S. Agostino, dei Servi di Maria, di S. Teresa, di S. Giovanni di Dio, dei Celestini ed altri.

Le truppe francesi sgombrarono dalla città nel dì 24 maggio, e subito furono sostituite da due mila soldati della [p. 238 modifica]Repubblica partenopea, ma i beneventani presero le armi, e contesero ad essi di entrare in Benevento, e solo acconsentirono che si accampassero vicino il convento di S. Maria degli Angeli. Ivi le milizie napoletane s’intertennero tre giorni, ricevendo le vettovaglie dalla città, ma un bel giorno, indignate dall’inattesa resistenza, lanciarono una granata, la quale cadde sul tetto della Chiesa l’Annunziata, e fu poi dai cittadini appiccata a un muro della sacrestia a ricordanza di quel fatto. I Napoletani non potendo venire a capo di entrare nella città nè con la forza, nè con le lusinghe, fecero ritorno in Napoli nel giorno 26 maggio, ma pretesero però in ostaggio il presidente Pacca, e il municipalista Sebastiano Schinosi.

I beneventani, sottratti al pericolo di un saccheggio, invece di collegarsi in un solo partito per la difesa della patria, vissero discordi e divisi, per modo che si vivea pessimamente. In quella si sparse in Napoli la nuova che il re Ferdinando si apprestava con poderosa armata a entrare nel regno. Fu allora spedito in Benevento il comandante Ruggieri con venti uomini a chiedere dei pronti soccorsi, affine di sostenere la repubblica partenopea. Ma l’Arcivescovo, udito il parere dei municipalisti, gli fece intimare che si fosse senza indugio partito da Benevento, poichè il popolo vedea di mal occhio la sua venuta, nè avrebbe giammai impugnato le armi contro il re delle due Sicilie se avesse tentato di recuperare il suo regno. Ruggieri allora si fece a domandare un ordine in iscritto di questo congedo, che gli fu volentieri concesso dai municipalisti, e il di seguente tornò in Napoli, ove narrò fil per filo l’accaduto al capo di battaglione Landini; e poco stante giunse ivi un corriere con una lettera scritta da Mathon ministro della guerra ed affari esteri al general Matera che poco prima erasi partito da Napoli. La lettera fu con modi violenti letta al popolo, e in essa si ordinava niente meno di dare un terribile esempio in Benevento. Doveansi chiudere innanzi tutto le porte della città per impedire ad ognuno l’uscita, e quindi si doveva procedere alla cattura dell’Arcivescovo, dei [p. 239 modifica]componenti la rappresentanza municipale, e in somma di tutti coloro che eransi dichiarato avversi alla repubblica. Dopo ciò doveasi dar luogo indicamente a un consiglio di guerra per giudicare i ribelli nello spazio di poche ore, e di farne eseguire l’immediata fucilazione sul Ponte Sabato; e si risolvette pure di chiedere nuovi ostaggi, scelti tra le principali famiglie e spedirle in Napoli. La sera del medesimo giorno l’arcivescovo Spinelli — avendo avuto sentore di tutto ciò — lasciò Benevento, congedandosi dai cittadini con un discorso assai commovente, ma gli ordini contenuti nella lettera diMathon, ed emessi dalla Commissione non ebbero effetto, per essersi i cittadini atteggiati per prudenza a fautori della repubblica partenopea.

Intanto il cardinale Ruffo, mandato da Ferdinando IV ad occupare le Calabrie, e ad insorgere contro la repubblica partenopea, levò un’esercito di cinquantamila uomini tra moscoviti, inglesi ed insorti, e si fornì sufficientemente di artiglieria. E non tardò molto a entrare in Napoli a capo di quell’armata, prendendone il governo con la qualità di Vicerè nel 13 giugno. I beneventani allora con un pubblico documento dichiararono che intendeano esser retti dal governo napoletano, il che, a dir vero, fu sempre la principale delle loro aspirazioni, e diedero esempio alle convicine popolazioni di sottoporsi alla podestà del re di Sicilia. La truppa napoletana, che in quel tempo si disse reale, perchè sostenitrice dei dritti di Ferdinando IV, in numero di cento, per la via di Nola giunse in Benevento nel giorno 3 giugno, e fu accolta con gran giubilo da tutti i cittadini, e con unanimi acclamazioni di viva il re.

Poco dopo fece ritorno in Benevento il benemerito arcivescovo Spinucci, e in luogo dei municipalisti furon rimessi i consoli, e fu dal Vicerè di Napoli rifermato a governadore il marchese Giuseppe Pacca, per avere in tempi torbidi esercitata con lode l’ardua carica di Presidente della Municipalità. L’albero della libertà fu incendiato, ed in suo luogo si eresse una croce.

In Benevento non vi erano giacobini nel vero senso della [p. 240 modifica]parola, per cui non era il caso di procedere a inquisizioni. Pur non di meno, per le malevoli insinuazioni di alcuni beneventani, nel giorno 14 settembre fu spedito anche in Benevento un visitatore, e fu Mons. Fra Ludovico vescovo di Policastro dell’Ordine di S. Francesco, il quale elesse per sua dimora il palazzo della rocca Pontificia. I delatori, mossi da odio privato, e non già da smodato zelo per i dritti del re, esibirono al visitatore carte e processi compilati contro tutti coloro che avean tolto di mira. Il visitatore con rigido contegno ordinò che fossero esaminati i testimoni e riformati gli atti processuali.

Nel giorno 12 ottobre fu emanato l’ordine di carcerazione di 20 cittadini, che, secondo il desiderio dei loro nefandi delatori, avrebbero dovuto essere messi a brano. Eglino tuttavia furon difesi con forma di sommario procedimento. Quattro furon dichiarati innocenti, cinque uscirono dal carcere per difetto di prova, ma coll’obbligo della consegna, secondo l’uso di quei tempi, e ad undici fu inflitta la pena dell’esiglio ad tempus, oltre i confini del regno, e dopo siffatta decisione il visitatore si recò a Montefusco nel 29 ottobre a vessare altri infelici. È superfluo poi il dire che i cittadini dannati al bando non erano partigiani della repubblica, ma, avendo adempiuto ad alti uffici nel tempo che i francesi dimorarono in Benevento, eransi unicamente dimostrati propensi alla Francia, chi per avidità di guadagno, chi per timore, chi per simpatia alla nazione francese, e chi per esser cupido di dominare, e per questo divennero argomento di odio a molti dei loro concittadini. Essi non potettero partecipare al benefizio dell’indulto, perchè la loro condanna ne precedette la pubblicazione. La sentenza che li condannava all’esilio fu eseguita nel 19 maggio, ed essi furono trasferiti in Salerno, e poi a Napoli, donde salparono per Marsiglia, e vi giunsero ai 9 luglio 1800. L’indulto pubblicato ai 30 maggio di quell’anno, giorno onomastico di Ferdinando, era così concepito «ci siamo piegati ad accordare, siccome accordiamo, un general perdono, a tutti coloro, i quali avessero commesso prima o dopo l’entrata delle [p. 241 modifica]truppe francesi nel nostro regno di Napoli, il delitto di fellonia, ed avessero delinquito in materia di stato, tanto come principali, che come cooperatori e complici, o pigliando armi, o scrivendo, o parlando, od in ogni altro modo. Eccettuamo da questo nostro indulto tutti coloro, i quali siano stati già giudicati e condannati con sentenze.»

Eletto pontefice ai 14 marzo 1800 il Cardinal Gregorio Barnaba Chiaramonti di Cesena, vescovo d’Imola, dell’Ordine dei benedettini, che prese il nome di Pio VII, questi si recò in Roma il 3 luglio di quell’anno si memorabile nei fasti dell’istoria, e tenne l’antica giurisdizione sul territorio di Pontecorvo e di Benevento con dispaccio del re di Napoli, che dal Preside della provincia di Montefusco, nel dì 7 settembre, fu comunicato al marchese Giovanni Battista Pedicini, il quale per la precedente rinunzia del marchese Pacca, avea assunto precariamente l’ufficio di governadore di Benevento. Ma nel di 5 ottobre del 1800 tornò in Benevento il prelato Stefano Zampelli, che prima reggeva la città, e in nome del papa ne riprese il governo, e in tal modo si pose termine a tutte le controversie..

Pei varii passaggi e dimore dei soldati francesi la città di Benevento non solo soggiacque allo spoglio del tesoro del Duomo e di altre chiese, ma fu astretta a pagare 14 mila ducati, e pei due presidi! mandati dal governo napoletano spese circa 33 mila ducati, e questi furono i vantaggi che ritrasse dalla rivoluzione francese. In quel tempo la città di Benevento era retta dall’arcivescovo nelle cose ecclesiastiche, e nelle materie civili da un prelato col titolo di governadore. Le leggi erano municipali, o di ragione civile e canonica, con le aggiunzioni di bandi, di bolle e di costituzioni pontificie. Si era istituito un corpo di magistrati ed un vicario temporale per le cause civili, ed un luogotenente pei giudizii penali di poco rilievo, poichè le più gravi cause criminali si trattavano dalla sacra consulta di Roma. In quanto alla forza pubblica stanziava in Benevento un piccolo drappello di birri, ed una milizia di fanti e soldati di cavalleria, più per ornamento che per la difesa della città.

[p. 242 modifica]L’entrata che riscotea il papa era di ducati 6500, dei quali ducati 500 consistevano in balzelli pagati dal Comune per la Dogana, e il rimanente si pagava da privati, quali possessori di beni della Reverenda Camera, a cui si aggiungeva un non tenue guadagno sul lotto. La spesa tra lo stipendio del governadore e degli altri ufficiali, non escluso quello dei birri e carcerieri, assommava a più di ducati 5000. Il Consiglio Comunale era composto di 24 cittadini scelti tra i patrizia i mercanti, gli agenti di affari, gli artigiani, e gli agricoltori. Il Consiglio assumea il nome e la potestà di magistratura, e non solo provvedeva ai viveri, alle scuole, alle strade, al commercio, e agli altri bisogni del Comune, ma gli era conceduto anche il dritto di punire col carcere, ed imporre nuove gravezze è balzelli per le spese comunali. Durava in carica due anni, e, ciò che è più singolare, eleggeva egli medesimo i componenti il nuovo Consiglio. I dazii cadevano sul sale, tabacco, carne suina, pesce, acquavita, neve, pane, corde, olio, carta, maccheroni, salumi, frutta, erba, sapone, panni e sugli oggetti venduti nel tempo delle fiere, e da tutti questi dazii il comune ritraeva in ogni anno ducati 6000, oltre il guadagno di ducati 6444 che desumeva sulla dogana, e di circa ducati mille sulla concessione di alcuni generi di privativa, e infine riscoteva ducati 140 di livelli sui sondi del comune. Il Consiglio spendeva per le scuole, pei poveri, per le strade ed altre opere pubbliche, per provvisioni e stipendi agli ufficiali e servi quasi ducati 7000, per cui avanzava in ogni anno la somma di ducati 5600, ma tuttavia per causa delle innovazioni politiche, che si avverarono dal 1799 al 1806 era stato costretto il Comune a contrarre un debito di ducati 25400 con l’interesse legale.

La Curia arcivescovile esercitava giurisdizione anche civile sulle persone e cose ecclesiastiche, e avea carceri, birri, ed esecutori di giustizia al suo comando. L’abate commendatario di S. Sofia, l’abate di S. Modesto, e l’affittuario della dogana godevano il privilegio di mettere in armi molte persone, donde nascevano frequenti scandali, risse ed uccisioni.

Prosperavano allora in Benevento varie utilissime [p. 243 modifica]istituzioni, cioè il Seminario diocesano, il collegio delle scuole Pie, uno stadio di ragion civile, le scuole delle monache Orsoline per le donzelle, una casa per le orfane, due spedali, il Monte frumentario e il Monte dei Pegni.