Istoria delle guerre gottiche/Libro terzo/Capo III

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CAPO III.

I romani duci ripresi da Giustiniano raccolgonsi a parlamento. Constanziano ed Alessandro presso Verona. La città presa da prima a tradimento vien quindi abbandonata, colpa e vergogna dei duci.

I. Giustiniano Augusto da poi ch’ebbe notizia dell’avvenuto ad Erario, e dell’elezione di Totila a re dei Gotti non cessò dall’aggravare di codardia e dal [p. 284 modifica]riprendere i duci dell’esercito a dimora in quelle parti. Il perchè Giovanni figlio di una sorella di Vitaliano, e Bessa, e Vitalio e gli altri tutti, abbandonati i presidj delle città commesse alla loro custodia, ragunaronsi in Ravenna, dove Constanziano ed Alessandro, come ho già detto, erano di stanza. Venuti quivi a parlamento sembrò miglior consiglio quello di marciare da principio con ostile esercito a Verona città dell’agro Veneto, ed occupatala procedere unitamente al gottico presidio di lei ad assalire Totila ed i Ticinesi. Questo esercito componevasi di dodici mila combattenti sotto undici duci, tra cui tenevano il primato Constanziano ed Alessandro, tutti in effetto mossero a diritto contro quelle mura. Accostativisi piantarono gli steccati nel piano ed a stadj sessanta dalle porte; imperciocchè quivi intorno hannovi campi vastissimi, che estendonsi fino alla città di Mantova, lontana il viaggio d’un giorno. Era tra’ Veneti certo Marciano illustre personaggio, abitatore di un castello in vicinanza di Verona, il quale essendo affezionatissimo all’imperatore si studiava con ogni diligenza di tradirgli la città, e siccome insin da’ più verdi anni conosciuto avea tal de’ custodi, gli mandò parecchi de’ suoi fidissimi per indurlo con promessa di molto danaro ad aprire le porte alle truppe imperiali. Avutane la parola inviò gli stessi cooperatori del tradimento ai duci del romano esercito per avvisarli degli accordi fatti, mercè de’ quali durante la notte eglino co’ messi entrerebbero nella città. I duci, uditone, estimarono opportuno di far procedere altro [p. 285 modifica]d’essi con piccol drappello, acciocchè all’aprirsi la porta dal custode e’ l’occupasse per quindi accogliere là entro senza tema d’insidie l’esercito. Ma nessuno volle sapere del pericolo, d’Artabaze in fuori di schiatta chiarissimo, e pronto ad ogni più ardita impresa. Era egli duce di que’ Persi che Belisario, conquistato il castello Sisauranese, avea mandato di fresco con Bliscane a Bizanzio. Costui scelti da tutte le truppe cento prodi a notte ferma incamminossi alle mura. Apertasi dal custode, giusta le convenzioni, la porta gli uni retrocedono a chiamare l’esercito, ed il resto asceso i merli assale ed uccide le incaute guardie ivi poste, nè più vollevi perchè tutti i Gotti, in mirando tanta sciagura, per altra parte abbandonassersi alla fuga. Sorge quivi presso un monte con elevatissima vetta da dove si può osservare quanto accade nella città, numerare coloro che vi sono entro, ed in ogni lato godere la prospettiva d’immensa campagna. I Gotti essendosi quivi dalla fuga riparati, rimasonvi tutta quella notte. Il romano esercito fe’ alto a quaranta stadj dalle mura in causa d’una lite surta tra duci sul come dividerne il bottino, ed intanto che si contende intorno alla preda apparisce l’aurora. Fattosi quindi giorno chiaro i Gotti dalla sommità del colle dove ripararono conosciuto pienamente il numero de’ nemici là entro, e considerata la distanza in cui erano le altre truppe, di corsa introduconsi nella città per la stessa porta donde prima eran usciti, non avendo potuto occuparla i pochi giuntivi nella notte. Gl’imperiali allora animati senza eccezione da un egual [p. 286 modifica]coraggio ascendono ai merli, e da quivi appiccata battaglia colla gran moltitudine de’ barbari, tutti, e più che tutti Artabaze distinguendosi, con valorosissime azioni duravano intrepidi all’impeto de’ nemici. Intanto i romani duci, acconciatisi amichevolmente sulla divisione della preda veronese, procedevano col nerbo delle truppe alla città; se non che avendone trovate le porte chiuse e con prodezza difese dai Gotti voltarono tosto le spalle, nulla curantisi de’ compagni alle prese col nemico, nè delle supplichevoli voci ch’e’ mandavano pregandoli di non venire abbandonati, e di sostare un momento per fornir loro il tempo di raggiugnerli. Quanti adunque erano là rinchiusi con Artabaze, oppressi dal numero de’ barbari e disperando aita dalle sue genti, d’un salto gittaronsi precipitosi giù dal muro al di fuori, e chi ebbe il destro di cadere nel piano aggiunse sano e salvo il romano esercito, e di questo numero fu Artabaze; ma quanti batterono sopra luoghi aspri, tutti ebbero quivi morte. Artabaze pervenuto al campo de’ suoi proseguì insieme con essi il cammino, scagliando qua e la mille improperj senza riguardo a persona. Valicato l’Eridano1 trassero tutti a Faenza città della provincia Emilia, e lontana da Ravenna stadj cento.

Note

  1. Il Pò.