Italiani illustri/Aonio Paleario

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Aonio Paleario

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Tommaso Campanella Frà Bernardino Ochino

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Maestro Antonio della Paglia, nato verso il 1500, da Matteo e da Chiara Gianarilla, a Veroli, città vescovile all’estremità della campagna di Roma, secondo il costume d’allora latinizzò il suo nome in Aonio Paleario, studiò a Perugia, poi a Siena (1530), «città bellissima e ben situata, ma guasta da spirito di partito e da incessanti fazioni, onde i signori vivono in campagna, e così le nove Muse ne sono bandite: ma le persone son d’ingegno acuto e vigoroso; i giovani hanno un’accademia, dove espongono spesso componimenti nella lingua materna», del che esso li disapprova, quasi distragga dal latino e greco1. Coi sussidj di Cincio Frigipani romano fu a Padova, ove da Benedetto Lampridio udì leggere le orazioni di Demostene. Tornato a Siena, difese insignemente Antonio Bellanti, accusato di [p. 234 modifica]malversazioni e di congiura; ma gli avversari ritorsero l’accusa contro lui stesso, che n’ebbe nuova occasione a sfoggiare eloquenza. Da quel senato fu assunto pubblico precettore di lettere greche e latine, poi di filosofia. Colà attinse le idee ereticali dell’Ochino, e le diffuse a Colle in Val d’Elsa, dove avea tenimenti, e a San Geminiano. Fece un poema in tre canti sull’immortalità dell’anima, in cui il sacro è misto col profano, e invocato Aristotele a guida nella pericolosa ricerca. Lo dedicò a Ferdinando re de’ Romani, e i critici lo paragonavano al Vida e al Sannazaro; il Vossio lo qualifica di divino e immortale. Ne mandò un’edizione scorretta al cardinale Sadoleto suo patrono, pregandolo inducesse lo stampatore Grifio a farne una migliore. Quegli in fatto raccomandò caldissimamente un tal libro, di sapore lucreziano; nulla esservi che non fosse detto latinamente, e non mostrasse giudizio e diligenza: multaque præterea ubique nitentia ingenii et vetustatis luminibus, et, quod ego pluris quam reliqua omnia facio, Christiana mens, integra castaque religio, erga Deum ipsum honos, pietas, studium, in eo libro vel maxime non solum docere mentes errantium, sed etiam animos incendere ad amorem puree religionis possunt.

All’autore poi scrivea non aver letto opera a’ suoi tempi che gli piacesse più del poema di lui, e, — Come il volto pacato e costante nell’uomo è indizio di mente ben affetta e di probo animo, così cotesta tua egregia pietà verso Dio, che s’appalesa ne’ tuoi scritti, ci obbliga a fare insigne stima di te, d’ogni senso dell’animo tuo, e della eccellente dottrina»2.

A Roma Aonio ebbe grandi amici il Mauro d’Arcano e il Berni, e i suoi versi leggevansi con delizia nell’Accademia de’ Vignajuoli e in privati banchetti, siccome quello che, nel 1531, diede il Musettola traduttor di Lucrezio, dove non si bevve altro che vino raccolto a Napoli dalla vigna del Pontano.

Tornato a Siena, il Paleario sperò esservi fatto professore, ma si trovò contrariato. Esercitò acerbe contese con uno ch’egli intitola Maco Blaterone, contro del quale pur si avventò Pietro Aretino. Aonio risedeva a Geciniano e a Colle, ove di trentaquattro anni sposò Maria Guidotti con seicento fiorini di dote: e n’ebbe due figli e due figliuole. Amava disputare sull’anima, e n’ebbe parole con alcuni filo[p. 235 modifica]sofi, venuti apposta a trovarlo a Colle; ma di ciò l’imputarono gli zelanti, cercando avversargli il popolo e il duca, con quelle arti d’invidia che non rifuggono da infamia veruna. Le loro macchinazioni, i furenti discorsi, le calunniose imputazioni, l’indignazione, l’amor proprio, la mortificazione resero il Paleario invelenito contro i nemici, e le sue corrispondenze, massime con Lelio Bellanti e Pterigi Gallo, svelano cogl’intrighi degli altri anche l’irrequietudine di lui. Singolarmente levò rumore coll’attaccare un tale ecclesiastico, il quale, assiduo a prostrarsi davanti a reliquie, non pagava poi i suoi debiti.

Tutto ciò può aver esacerbato gli animi e predisposto alle persecuzioni che gli costarono sì caro. Sentivasi egli chiamato a qualcosa meglio che insegnar latino e greco3: ricorreva per protezione o difesa al suo arcivescovo Bandini e al Sadoleto; e viepiù gravato dai mali pubblici, giacchè i Turchi sbarcarono minacciando Orbetello e Siena, lagnasi d’aver dovuto lasciare la patria e ogni cosa diletta.

Il Sadoleto s’accorse del trascender d’opinioni del Paleario, e l’ammonì, ma egli non vi fece mente, e seguitò manifestandole. «Colta dice che, se mi si lascia in vita, più non resterà vestigio di religione in Siena. E perchè? perchè, domandato qual fosse la prima cosa in cui gli uomini dovessero cercar la loro salvezza, io risposi, Cristo; domandato qual fosse la seconda, risposi, Cristo; quale la terza, ed io ancora, Cristo».

Di qui trapela l’idea che è svolta nel Trattato del beneficio della morte di Cristo, che cominciò di quel tempo a correre per Italia, senza nome «acciocchè più la cosa vi muova che l’autorità dell’autore ». Quell’opuscolo a moltissimi fu attribuito; ed è uno de’ libri di più bizzarra fortuna, talchè potrebbe prendersi a simbolo delle vicende della Riforma in Italia. Dato fuori nel 1542; stampato poco dopo e diffuso, dicono, a quarantamila esemplari, pure si riusci a sopprimerlo a segno, da più non trovarsene esemplare; lo Schölhorn e il Gerdes, tanto solleciti raccoglitori in questo genere, nol seppero [p. 236 modifica]rinvenire: Mac Crie, Mac Aulay, Ranke lo dichiararono irreparabilmente perduto. Ma nel 1774 un tal dottore Antonio Ferrario di Napoli ne avea deposto un esemplare nel collegio di San Giovanni in Cambridge, con uno della traduzione francese del 1552. Ivi testè fu ritrovato; indi un altro nel 1857 nel collegio medesimo, ch’era appartenuto a Laura Ubaldina, poi al vescovo Moore, poi a re Giorgio I, il quale lo donò ad essa biblioteca. Una traduzione in croato, edita il 1563, era stata dal celebre filologo Kopitar deposta nella biblioteca di Lubiana, dove giace pure un esemplare dell’italiano. Se l’essersi distrutte tutte le copie dell’italiano può darci argomento della potenza dell’Inquisizione, è inesplicabile che non si facessero più ristampe nemmanco delle traduzioni, talchè di esse pure v’avea tanta rarità, finchè il reverendo Ayre riprodusse nel 1847 la versione inglese, sulla quale si fece una versione italiana, stampata a Pisa nel 1849, ed una migliore colla data di Firenze; poi scopertosi l’originale, fu diffuso dalla società biblica e si venne così a conoscerlo ed a parlarsene4.

È un opuscolo in buon italiano, dove è asserito che, avendo Cristo versato il sangue per la salvezza nostra, noi non dobbiamo dubitare di questa, anzi conservare la massima tranquillità. S’appoggia ad autorità antiche per affermare che coloro, i quali rivolgono le anime a Gesù crocifisso, e si affidano per mezzo di esso a Colui che non può ingannare, sono liberati d’ogni male, e godono il perdono di tutte le colpe.

Il peccato originale (insegna) fu causa de’ nostri mali, ma non li [p. 237 modifica]conoscevamo sin quando non fu data la legge. Il primo ufficio di questa fu appunto far conoscere il peccato; il secondo, ingrandire il peccato, vietando la concupiscenza; il terzo, dimostrare lo sdegno di Dio a coloro che non osservano la legge; il quarto, incutere timore all’uomo; il quinto, costringerlo a rivolgersi a Gesù Cristo, dal quale unicamente dipendono la remissione de’ peccati, la giustificazione e tutta la salute nostra. Se il solo peccato d’Adamo bastò, senza colpa nostra, a rendere peccatori noi tutti, a più forte ragione la giustizia di Cristo avrà forza di renderci tutti giusti e figli della Grazia, senza cooperazione nostra: la quale non può essere buona se prima noi stessi non siamo divenuti buoni. Iddio avendo già punito ogni peccato nel Figliuolo suo dilettissimo, ha conceduto al genere umano generale perdono, e ne gode chiunque creda al Vangelo. Da Cristo solo deve dunque ciascuno riconoscere la propria salvezza, in lui solo confidare, non nelle opere proprie. Questa santa confidenza entra nei cuori nostri per opera dello Spirito santo, il quale ci si comunica mediante la fede: e la fede non viene mai senza l’amore di Dio. Laonde ci sentiamo mossi da lieto e operoso ardore a fare azioni buone, sentiamo forza di eseguirle, e di soffrire tutto per amore e gloria del nostro Padre misericordioso.

«Per le cose dette (prosegue) si può intendere chiaramente che il pio cristiano non ha da dubitare della remissione de’ suoi peccati, nè della grazia di Dio: nondimeno per maggior soddisfazione del lettore voglio scrivere alcune autorità de’ dottori santi, i quali confermano questa verità». E qui adduce numerosissime autorità; indi ripiglia: — Nessuno però creda coi falsi cristiani, i quali degradano di costumi, che la vera fede consista nel credere la storia di Gesù Cristo come si crede quella di Cesare e Alessandro, o come i Turchi credono al Corano. Fede siffatta non rinnuova il cuore, nè lo riscalda dell’amor di Dio, nè produce le buone opere e i cambiamenti di vita, che provengono solo dalla fede vera, la quale è un’operazione di Dio entro di noi. La fede giustificante è simile a fiamma che non può non tramandare luce; così essa non può bruciare il peccato senza il concorso delle opere. E come, vedendo una fiamma che non mandi luce, riconosciamo essere falsa e dipinta, così quando in alcuno non vediamo la luce delle buone opere, diciamo che non ha quella vera fede ispirata da Dio.

«Che se ci prende diffidenza, ricorriamo al sangue di Cristo, [p. 238 modifica]sparso per noi sulla croce, e distribuito nell’ultima cena sotto l’ombra d’un sacramento augustissimo. Chi s’accosta a questo senza fede nè carità, non credendo che quel corpo del Signore è vita e purgazione di tutti i peccati, fa Gesù Cristo mentitore, calpesta il Figliuolo di Dio, e stima non essere nulla meglio che una cosa comune e terrena il sangue del Testamento, pel quale fu giustificato. E però il Cristiano, quando comincia a dubitare se abbia o no ricevuto il perdono, quando lo rimorde la dubbiosa coscienza, ricorra a questo divino sacramento, che gli assicura il perdono di tutti i misfatti.

«Sant’Agostino costuma chiamare questo divinissimo sacramento vincolo di carità e mistero d’unità, e dice che, chi riceve il mistero dell’unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero per sè, bensì una testimonianza contro di sè. Adunque abbiamo a sapere intendere che il Signore ordinò questo sacramento, non solo per renderci sicuri della remissione dei peccati, ma ancora per infiammarci alla pace, all’unione e carità fraterna. Perocchè in questo sacramento il Signore ci fa partecipare del suo corpo in modo, ch’e’ diviene una cosa medesima con noi, e noi con lui. E com’egli ha un solo corpo del quale ci fa partecipi, così noi, per tale partecipazione, diveniamo un sol corpo fra noi. Questa unione è raffigurata dal pane nel sacramento, formato di molti grani, misti e impastati insieme in guisa, che l’uno non può dall’altro discernersi. Parimenti noi tutti dobbiamo essere congiunti in tale accordo di spirito, che niuna divisione possa insinuarsi tra noi. Adunque, ricevendo la santissima comunione, dobbiamo ritenere nell’animo che tutti siamo incorporati in Cristo, e tutti membri d’un medesimo corpo; membri, dico, di Cristo, in maniera che non possiamo più offendere, nè infamare, nè vilipendere alcuno de’ nostri fratelli, senza offendere, infamare, vilipendere il nostro capo Gesù Cristo; nè tenere discordia con qualunque de’ nostri fratelli, senza essere in opposizione con lui. Così non possiamo amare lui se non amiamo i nostri fratelli. Dobbiamo prepararci al divin sacramento eccitando gli animi nostri ad un amor fervente riguardo al nostro prossimo. Qual maggiore stimolo ad amarci che il vedere Gesù Cristo, non solo col dare sè stesso a noi, allettarci a dare noi stessi per gli altri, ma comunicandosi esso a tutti noi, fare sì che noi diventiamo con lui tutt’una cosa?»

Conchiude raccomandando la comunione frequente, e così la pre[p. 239 modifica]ghiera, la fiducia nella predestinazione, per quanto il demonio ci tenti per levarcela e per farci credere che, se per fragilità cadiamo in peccato, noi diveniamo vasi d’ira e dimenticati dallo Spirito santo. Sant’Agostino dice che niun de’ santi è senza peccato; nè perciò cessa d’essere santo se con affetto ritiene la santità. È gran cecità l’accusare i Cristiani di presuntuosi se si vantano di possedere lo Spirito santo; anzi senza questo vanto non sarebbero veri cristiani. Il timore servile sgomenta i reprobi; ma l’amore filiale conforta gli eletti colla fiducia che Dio, per sua misericordia, li manterrà nello stato felice ove gli ha posti, e che i suoi peccati gli furono gratuitamente rimessi.

«Noi siam giunti al fine di questi nostri ragionamenti, ne’ quali, il nostro principale intento è stato di celebrare e magnificare, secondo le nostre piccole forze, il beneficio stupendo che ha ricevuto il Cristiano da Gesù Cristo crocifisso: e dimostrare che la fede per sè stessa giustifica, cioè che Dio riceve per giusti tutti quelli che veramente credono Gesù Cristo avere soddisfatto ai loro peccati: benchè, siccome la luce non è separabile dalla fiamma che per sè sola abbrucia, così le buone opere non si possino separare dalla fede che per sè sola giustifica. Questa santissima dottrina, la quale esalta Gesù Cristo ed abbassa la superbia umana, fu e sarà sempre oppugnata dalli Cristiani, che hanno li animi ebri. Ma beato colui il quale, imitando san Paolo che si spoglia di tutte le sue proprie giustificazioni, nè vuole altra giustizia che quella di Cristo, della quale vestito, potrà comparire sicurissimamente nel cospetto di Dio, e riceverà da lui la benedizione e l’eredità del cielo e della terra, insieme col suo unigenito figliuolo Gesù Cristo, nostro signore, al quale sia gloria in sempiterno, amen».

L’uomo fu creato libero di sua volontà, in modo che la colpa de’ suoi peccati tutta su lui ricade. Il peccato originale fu riconosciuto non con decreto dottrinale, ma condannando chi lo negasse: aggiungendo che, col dirne affetti tutti gli uomini, non vi si comprendea la Beata Vergine, per riverenza alla bolla di Sisto IV sull’immacolata concezione di lei, controversa fra Scotisti e Tomisti. Per quel peccato l’uomo perdette la giustizia e santità primitiva; si attirò lo sdegno e la vendetta di Dio; fu degradato d’anima e di corpo, e soggetto alla morte. Si il peccato, sì le sue conseguenze trasmettonsi alla figliolanza, per modo che nessun uomo può compiere verun atto [p. 240 modifica]accetto a Dio, nè diventar giusto se non per la mediazione di Gesù Cristo5. La libertà è infiacchita, non perduta; laonde le azioni umane non sono perfette, ma non tutte sono peccaminose. Insomma i Cattolici riteneano la libertà morale, troppo provata dalla facoltà che ha l’uomo di ingannarsi e di fare il male: l’arbitrio, per cui è libero all’uomo di entrare ne’ disegni della redenzione, com’era libero di non uscire dal disegno primitivo della creazione.

Al contrario i Protestanti insegnavano che l’uomo è predestinato alla salute o alla perdizione; le parole di libertà, di libero arbitrio non trovarsi nella santa scrittura, ed esser invenzione degli Scolastici; è Dio che opera tutto, il bene come il male; gli uomini nascono col peccato, colla concupiscenza, cioè con avversione positiva alla legge e coll’odio di Dio, senza timore nè fiducia in lui; non possedono più nè intelligenza, nè desiderio del regno di Dio; i peccati attuali non sono che manifestazioni del peccato ereditario.

Secondo i Cattolici, il peccatore vien richiamato alla grazia per pura misericordia divina, in vista dei meriti del Redentore, e per mezzo della rivelazione evangelica: lo Spirito santo ne risveglia le facoltà assopite, traendolo ad arrendersi all’impulso celeste. Se il peccatore vi ascolta, primo effetto n’è la fede nella parola di Dio [p. 241 modifica]e nell’asserzione che Dio amò il mondo fino a dargli il proprio Unigenito. In quale abisso di corruzione giaceva il mondo, se non potè esserne tolto che per intervento del Figliuol di Dio! E alla misericordia di questo si volge l’uomo, sperando ne’ meriti di esso; e vedendone l’infinita carità, suscita qualche scintilla d’amore, donde abominio al peccato e pentimento; al quale venuto con libero consenso, rimane giustificato; cioè lo Spirito santo diffonde nell’anima la grazia santificante e l’amor di Dio; sicchè rinnovellato, il Cristiano produce opere buone e meritorie, e diventa partecipe del regno celeste. Ma della sua giustificazione non acquista certezza, salvo che sia per ispeciale rivelazione.

Cooperano dunque l’uomo e Dio; Iddio sveglia il peccatore, prima che questi possa meritarlo, nè tampoco desiderarlo: ma il peccatore deve corrispondervi liberamente, e allora solo vien rialzato. Lo Spirito santo non opera in maniera necessitante, ma alla propria onnipotenza mette per limite la libertà dell’uomo, la quale dal peccato originale non rimase distrutta.

Qui consisteva la differenza fondamentale dei Protestanti: professando essi che il peccatore, spaventato di non poter adempiere la legge che ode predicarsi, vi vede però che Gesù Cristo toglie i peccati del mondo, e che la fede giustifica per sè stessa. Abbracciasi dunque ai meriti del Salvatore, in virtù dei quali Iddio dichiara giusto e santo il fedele, sebben noi sia, e sebbene continui a portare la macchia originale, di giunta agli altri peccati. La fede giustificante non rimane sola, ma vi si congiunge la santificazione, manifestandosi colle opere buone. La giustificazione e la santificazione non devono però confondersi, altrimenti non si otterrebbe la certezza della remissione de’ peccati e dell’eterna salute. L’opera della rigenerazione appartiene tutta allo Spirito santo, di modo che ogni gloria ricade su Dio, nulla sull’uomo.

I Protestanti ripudiano la distinzione tra fede viva e morta. E credendo che, anche dopo la giustificazione, perdura nell’uomo quell’essenza peccaminosa, non possono ammettere opere grate al Signore. Ben vennero talvolta a dirle necessarie, ma in qual senso io non intenderei.

Dopo discussioni che attestarono quanta varietà d’opinioni corresse su proposito si capitale, il Concilio di Trento riconobbe che i nostri peccati ci sono rimessi gratuitamente per la misericordia divina; non [p. 242 modifica]sono soltanto coperti, ma cancellati dal sangue di Gesù Cristo; la cui giustizia è non solo imputata, ma attualmente comunicata ai fedeli per opera dello Spirito santo. Ma poichè pur troppo la carne si ribella allo spirito, perciò la giustizia nostra non è perfetta, e quindi divien necessario il gemito continuo dell’anima pentita.

Quanto al merito delle opere, la vita eterna è una grazia misericordiosamente promessa, e una ricompensa data alle buone azioni, il cui valore proviene dalla Grazia santificante. Il libero arbitrio non può dirigerci alla felicità eterna se non mosso dallo Spirito santo, ma i precetti, le esortazioni, le promesse e le minacce del Vangelo mostrano abbastanza che noi operiamo la salute nostra pel movimento delle nostre volontà, ajutate dalla Grazia. Sebbene (dice il Concilio) le sacre carte stimino tanto le buone opere, e Gesù Cristo prometta che fino un bicchier d’acqua dato a un povero non resterà senza ricompensa; e l’apostolo attesti che un momento di sofferenza in questo mondo produrrà un compenso eterno di gloria: pure il cristiano si guardi dal fidare e glorificarsi in sè stesso, anzichè nel Nostro Signore, la cui bontà è sì grande, che vuol che i doni che ad essi fa sien meriti loro6.

Insomma i peccati ci sono rimessi per pura misericordia e pei meriti di Gesù Cristo: la giustizia, che è in noi per lo Spirito santo, la dobbiamo a una liberalità gratuita: le buone opere nostre sono altrettanti doni della Grazia. Dopo di che Éossuet trova strano che i Protestanti siansi separati da noi per questo punto, tenuto per essenziale su que’ primordj, mentre in appresso le persone sensate cessarono di considerarlo per tale.

La Chiesa per opere buone intende gli atti morali dell’uomo giustificato in Gesù Cristo, ossia i frutti della volontà corretta e dell’amore ispirato della fede. Meritorie chiamansi quelle che dalla nostra libertà sono prodotte nella virtù di Gesù Cristo. E quando si dice che il Cristiano dee meritare la vita eterna, s’intende che dee rendersene degno mediante il Salvatore. Vi sono opere buone al di là dei precetti; opere suprarogatorie, che possono ommettersi senza ledere la legge suprema della carità. Ma quando i Protestanti asserivano l’inutilità delle opere in ge[p. 243 modifica]nerale, intendeano in particolare i sacramenti; i quali invece dai nostri sono tenuti per necessarj, e furono prefiniti a sette, giusta l’insegnamento di Pietro Lombardo, appoggiato alla tradizione.

Secondo i Cattolici, pei sacramenti comincia la vera giustizia, o perduta si recupera, essendo segni sensibili, istituiti da Dio, con virtù non solo di significare ma di produrre la santità e la giustizia. I simboli dell’antica alleanza non conferivano la virtù giustificante, per cui si congiungesse l’uomo a Dio: bensì lo fanno i sacramenti; opera operata da Dio, quantunque non escluda l’attività umana, richiedendosi la disposizione a riceverla.

Al fatto morale della giustificazione bisogna concorrano il tribunale di Dio e quello dell’uomo. È Dio che rimette col mezzo de’ suoi ministri, sol esso potendo cancellare la colpa, e restituire all’anima i diritti alla celeste eredità: ma il perdono non si dà se prima l’uomo non abbia pronunziato contro sè stesso il verdetto di colpabilità, riconoscendosi degno di castigo. L’umano dev’essere tribunale di giustizia e di pena: il divino, di misericordia e di grazia, dopo che col pentimento fu mitigato. Se non che la coscienza non condanna propriamente sè stessa, ma è semplice testimonio dell’atto giuridico di Dio che si esercita sopra il colpevole: il quale per altro può aderirvi o repugnarvi; restaurare l’ordine coll’espiazione, o perturbarlo col resistere al suo autore.

Ci allargammo in queste dimostrazioni, perchè ce ne dovremo valere in altre biografie, e perchè appaja la discordanza dal libro di cui ora parlammo. Esso dapprima fu tenuto opera di pietà, e ristampato con altre devote, siccome nell’edizione posta all’Indice da Sisto V col titolo: Trattato utilissimo del Benefizio di Cristo, con li misteri del rosario, con l’indulgenza in fine di papa Adriano VI alle corone dei grani benedetti. L’autore ne rimase ignoto, perciò fu attribuito a diversi; al Valdes, dal quale in fatto son copiate moltissime parti: al cardinal Contarmi, al Flaminio, ad altri. Il cardinal Morone confessa averlo ammirato e diffuso, e nel processo di lui, un Domenicano dice averlo veduto manuscritto a Verona, mandatovi a un canonico Pellegrini, che lo diede al vescovo, il quale, giudicandolo cosa buona. lo passò a lui: ma egli vi scoperse il marcio, e si dolse di vederlo, poco dopo, stampato e diffuso.

Pietro Paolo Vergerio, nel commentar l’Indice de’ libri proibiti fatto da monsignor Della Casa, dice che molti pensano non esservi [p. 244 modifica]stato all’età nostra, almen in italiano, alcuno scritto così soave, così pio, così semplice, e così adatto a istruir anche i più rozzi e deboli, massime sull’articolo della giustificazione. E soggiunge: — Ma ci è ancora da dire di questo Benefizio di Cristo. È un certo frate, che non lo vuole a patto alcuno: e con speranza di aver un benefizio dal papa, ha fatto una invettiva contro quel (benefizio) di Cristo crocifisso. È stato poi un altro buon ingegno e spirito che lo ha tolto a difendere, ed ha composto un dolce libro, e l’ha dato nelle mani di un cardinale, il quale ha fama di aver lume di conoscere gli errori della Chiesa e gustar la dolcezza dell’Evangelo. Certo egli ha di molte virtù eccellenti: ma mi risolvo che (se questo cardinale non lascia adesso venir fuori la difensione che egli ha in mano di quel buon libro e non si scopre a dire ch’egli sia buono) la fama sia falsa, e che non sia in lui quello spirito che molti hanno creduto. Egli suol dire che bisogna esser prudente ed aspettar l’occasione e il tempo opportuno. È ben detto, ma non sarà occasione e tempo opportuno adesso, che in tanti modi tanta gente cerca di estinguer e sepellire il benefizio e la gloria di Cristo? Quando si vorrà egli dichiarare e farsi conoscere per suo soldato, se noi fa adesso che il suo Cristo è tanto combattuto, travagliato, afflitto? Orsù, starem a vedere cosa farà questo cardinale. Dio gli doni ardire, e sarebbe ben tempo ch’egli si avesse a dichiarare con tutta la sua scola.

«Aggiungo di questo libretto che sono due persone, le quali vi hanno posto mano; una l’ha cominciato, l’altra finito ed espolito, e tutte due sono in Italia, e molto conosciute e carezzate dai primi membri e ministri di Roma, e il libro loro è condannato per eretico. Staremo anche a vedere se essi potranno sofferire, e divorar questa ingiuria che è fatta sulla faccia del Padre loro celeste, o se pur la vorranno dissimular e godersi le comodità e delizie delle chieriche loro».

Da retore e sofista, il Vergerio vuol confondere il titolo del libro col benefizio di Cristo, quasi sia questo dai censori condannato. Poi stringe: — Or di questo libro, ascoltate; o è buono, o è tristo. Se è buono, perchè averlo condannato? Se è tristo, perchè ne hanno prima lasciati vender quarantamila, che tanti io so che, da sei anni in qua, ne sono stampati e venduti in Venezia sola? perchè hanno lasciato andar attorno tanta quantità di tossico di anime, secondo loro?

«Questa è gran cosa; dove costoro, essendone tanto pregati e [p. 245 modifica]sgridati dovrebbero ogni anno diventare più umili, più riconoscere gli errori, le superstizioni, le tenebre nelle quali hanno voluto tener soffocata la povera gente, e mitigarla, e farsela benevola, e compiacerla dove va la gloria di Dio, vedendo che ella desidera tanto di stare con la dottrina dell’Evangelo, si hanno deliberato di voler insuperbire ogni giorno più, e di voler tenere bassi e tirannizzar i poveri popoli, e ascondere ogni cosetta che potesse dar loro luce alcuna della salute. Chi non sa che i popoli si faranno beffe delle indulgenze, de’ giubilei, e di tutte l’altre invenzioni e pensate d’uomini, con le quali un tempo di lungo si è dato ad intender che si potesse avere la remissione de’ peccati, quando avranno avuto la grazia di poter con viva fede conoscere il gran benefìzio che ha fatto loro il celeste Padre, dando il Figliuolo diletto a spander il sangue e morir sulla croce?»

I due che, secondo l’asserzione del Vergerio, posero mano all’opera, si supposero il Flaminio e il Paleario: e’ soggiunge che il cardinale Polo ne procurò la diffusione d’accordo col Flaminio, col Priuli ed altri di quella scuola, e lo mandarono a un librajo eretico o sospetto, che ne vendesse più copie che poteva o il donasse, ch’essi rimborserebbero7.

Il frate oppositore, a cui accenna il Vergerio, è Ambrogio Caterino, che, fra innumerevoli scritti polemici, stampò un compendio di errori ed inganni luterani, contenuti in un libretto senza nome dell’autore, intitolato Trattato utilissimo del beneficio di Cristo crocifisso (Roma, 1544). È unito alla Resoluzione sommaria contro il sommario della Scrittura, traduzione di Melandone.

Da Antonio Caracciolo, nella vita manuscritta di Paolo IV, raccogliamo che a Treviso fu trovato «un pedante chiamato messer Angelo» che era stato a Venezia; da Zurigo mandava i pestiferi libri del Benefizio di Cristo, ch’egli dice composti da un Benedettino di San Severino, siciliano discepolo del Valdes; e che fosse riveduto dal Flaminio, «anch’egli gravemente infetto».

All’autorità del Caracciolo si adagia il Ranke, il quale non sa indursi ad attribuir quell’opuscolo al Paleario, come neppur noi possiamo persuadercene. Nel processo del Morone, varj interrogati su questo libro rispondono ignorarne l’autore. Un librajo veneto che [p. 246 modifica]ne spacciò molte copie, dice: — Mi non ve so dir chi l’abbi composto, nè da che banda sia venuto... So che si vendeva per tutta Italia, e che si leggeva passim da tutti i cattolici». Esso Morone assevera, che allora se ne conosceva benissimo Fautore. Un testimonio risponde: — Intesi dire, non so da chi, che l’autore era stato un monaco benedettino nero, amico del Valdesio, il qual monaco non conosco nè per nome nè altro; che di poi il Flaminio l’avea riveduto e rassettato a suo modo, e dato alla stampa».

Nel processo del Carnesecchi leggesi:

— Il primo autor di questo libro fu un monaco negro di San Benedetto, chiamato don Benedetto da Mantova, il qual disse averlo composto mentre stette nel suo monastero in Sicilia presso il monte Etna. Il qual fra Benedetto, essendo amico di M. A. Flaminio, gli comunicò il detto libro, pregandolo che lo volesse polire ed illustrare col suo bello stile, acciò fosse tanto più leggibile e dilettevole: e così il Flaminio, servando integro il soggetto, lo riformò secondo che parse a lui. Dal quale io prima che nessuno altro l’ebbi, e come io l’approvai e tenni per buono, così ne detti anche copia a qualche amico».

Malgrado una così esplicita accusa, io propendo a crederlo traduzione, parendo da una parte dissimile dai lavori congeneri d’Italiani, dall’altra sentendovi tanto sapor toscano. Certo è più semplice che il Paleario non costumi nelle scritture sue, le quali del resto son tutte in latino; eppure al Paleario lo farebbero attribuire il professare egli aperta la dottrina del Cristo satisfatore, quale sta nel libretto, e la difesa che fece di sè stesso8.

Perocchè gli scritti e le sue opinioni aveangli suscitato molti nemici, a capo dei quali Ottone Melio Colta sunnominato, che forse è anagramma di Orlando Marescotti: da trecento accusatori presentaronsi; dodici si offersero a testimoniare contro di lui, che davanti al senato di Siena si difese con una pomposa arringa latina, tutta retorica9. Ma in questa, non che scagionarsi, confermerebbe le accuse: dice che, per aver denunziati due mostri di religione, procacciossi [p. 247 modifica]la nimicizia di tutti i cuculiati, i quali come porci s’avventano su chi uno toccò. «Io aveva discorso della repubblica designata avanti i principj del mondo e stabilita da Dio, della quale duce, autore, moderatore unico è Cristo; della legge abrogata, del gravissimo giogo della servitù discorremmo quel solo che ci permetteano questi miseri tempi, quando non è senza pericolo il palesare ciò che si desidera. V’ha uomini acerbi, duri, colpevoli, appo i quali neppur il Padre e Cristo autore della salute può lodarsi appieno; e mi fu dato accusa d’avere scritto in quest’anno un trattato in lingua toscana, mostrando quanti benefizj ci derivassero dalla sua morte. E dicevo che Esso, in cui risiede la divinità (in quo divinitas inest), avendo profusa la vita tanto amorosamente per salute nostra, non dovevamo dubitare della volontà celeste, ma riprometterci ogni tranquillità e quiete, affermavo con autorità antichissime e certissime che erano terminati i mali, cancellata ogni macchia a quelli che, rivolti coll’animo a Cristo crocifisso, si affidassero alle sue promesse, e ogni speranza appoggiassero in quell’unico che non inganna. Eppure a quei dodici, non dico uomini, ma bruti feroci parver così esecrande tali proposizioni, che l’autore reputavano degno del fuoco. La qual pena se mi toccasse subire per tale testimonianza, beato mi reputerei. Perocchè siamo a’ tempi dove un vero cristiano non può più morire a suo letto. Ci accusino pure, ci imprigionino, ci torturino, ci strozzino, ci diano alle belve, tutto sopporteremo, purchè ne derivi il trionfo della verità. Che se non avessimo speranza nell’intimato Concilio, ove dai pontefici, da Cesare, dai re son convocati moltissimi da tutte le genti, dispereremmo che venga una fine di tante perturbazioni; che questo coltello levato contro chiunque scrive, si strappi di mano a quelli, che anche per lievissime cagioni voglion ferire crudelmente; dai quali fu arrestato il santo e integerrimo mio Sadoleto; da’ quali ignoranti accusato Bernardino Ochino, di sì austera e ammirabil vita, non vedendo che voi foste pronti a difenderlo, stimò bene fuggire, soletto, errante in luoghi lontanissimi dall’Etruria nostra».

Qui profonde lodi al fuggiasco10; poi viene a confutar le accuse. — Dici ch’io la sento coi teologi germanici. Ma in Germania ve n’ha di eccellenti. Tu però intendi Ecolampadio, Erasmo, Melantone; Lu[p. 248 modifica]tero, Pomerano, Bucero e gli altri sospetti? Nessun teologo nostro fia così stupido da non capire che molte cose in essi son lodevolissime, e desunte dai primi Padri, e dai commenti di Greci e di nostrali non disprezzabili, talchè chi gli accusa, accusa Origene, il Crisostomo, Cirillo, Ireneo, Ilario, Agostino, Girolamo. Dei fatti de’ Tedeschi non tutto approvo: lodo d’aver suscitato le buone lettere latine, ridesti gli studj divini che giacevano oscuri; trovato e stampato libri latini, greci, caldaici; assegnato onorevoli stipendj ai professori. Seguirono poi discordie intestine, sommosse di popoli, guerre, che per la carità fraterna a me pure recarono immenso dolore. Chi non loda quelli, e non disapprova questi effetti?»

Insomma egli professa di non assentire agli eretici di Germania, ma reclama il diritto di trar le proprie credenze da antichi documenti, dalla Scrittura, dai Padri: e senza confessarsene autore, sostiene le medesime dottrine del libretto. Eppure non troviamo gliene derivasse altro inconveniente, che d’essere mandato via da Siena. Allora passò a Lucca, con commendatizie del Sadoleto e del Bembo, che gli insinuavano d’usare prudenza. Ivi nel 1546 ottenne cattedra d’eloquenza e missioni pubbliche, e dovea recitare ogni anno due discorsi in solenni occasioni. Li possediamo, e son mera retorica, donde non trapelano dissensi religiosi. Ammirato prima, dappoi a concorso gli fu preferito il Bandinelli: del che irato egli partì, dopo dieci anni di dimora.

Come attaccato alla parte imperiale, sperò trovare miglior partito a Milano, e alla morte del Majoragio ebbe invito da quel senato a succedergli professore d’eloquenza. V’arrivava il 17 ottobre 1555, ed a’ suoi figli descrisse la festosa accoglienza, e come ai 29 recitasse la prima orazione nella chiesa di Santa Maria della Scala, presenti il senato, il governatore, i pretori, il collegio de’ giurisperiti e filosofi e molto popolo. Al domani fu accompagnato al ginnasio dai principali senatori; ma esorta i figliuoli a studiare, perchè egli non trovasi altri mezzi, nè il suo soldo è pur sufficiente per lui solo. In fatti troviamo un ricorso ch’egli volse ai decurioni milanesi, mostrando come vivesse modestissimo con una fante, mentre avea lasciato il paese natale e un buono stipendio per amore di questa città. La quale, atteso la sua gran dottrina, il vantaggio che ne veniva a’ giovani e l’onore alla città stessa, nell’aprile 1558 gli concedeva un assegno bastante per sei persone. Ebbe incarico di recitare un’altra [p. 249 modifica]orazione quando si credea che l’imperatore Ferdinando, Filippo di Spagna ed Enrico di Francia radunerebbonsi a Milano per conciliare la pace; dove loda questa, e spera nel Concilio e nel convegno coi papa. Anche lettere dirigeva ai regnanti, con grandi encomj agli imperatori austriaci, e speranza ch’essi conserverebbero la pace e osteggerebbero i Turchi.

A Milano rimase sette anni, e, fra altri, diede per tema a due suoi allievi di combattere e difendere la legge agraria. Abbiamo a stampa la tesi colla traccia data da lui, e le due declamazioni di Lodovico da Rho e di Carlo Sauli, uno che fa da Tiberio Gracco, l’altro da Marco Ottavio (Milano, 1567). Compose pure un’orazione contro Lucio Murena, che l’Olivet dice non discernersi dal latino di Cicerone.

Gli scritti del Paleario son sempre latini, diretti ad introdurre il gusto classico, e perciò intinti del paganesimo dominante nelle scuole: e fin nell’epitafio di sua moglie mescola Cristo coi Campi Elisi11. Ma in tutte quelle scritture noi cercammo invano lo svolgersi del suo spirito nelle nuove idee, nè cosa che accenni a’ suoi legami co’ Protestanti. Ben è narrato che scrisse l’Actio in pontifices romanos et eorum asseclas nel 1542, quando trattavasi di raccorre il Concilio di Trento, non pubblicata che ventisei anni dopo la sua morte e cinquanta dopo scritta.

«Replicate mie lettere degli anni passati agli Svizzeri e ai Tedeschi (dic’egli in questa press’a poco) palesarono le mie speranze e i sentimenti e disegni miei. Dio, padre di Nostro Signor Gesù €risto, m’è testimonio ch’io desiderai da molto tempo che i principi cristiani presedessero a radunanza di persone di gran pietà e dottrina, innanzi alle quali potessi rendere la mia santa testimonianza, pronto anche a spargere il sangue per Gesù Cristo. Ma vedevo essi principi occupati in altro: e sentendo avvicinarsi la fine mia, scrissi la mia testimonianza e l’atto d’accusa contro i papi, affinchè, se la morte mi sopraggiunge, potesse giovare a’ miei fratelli. Depongo questo scritto nelle mani d’uomini santi e fedeli, che lo conservino, finchè [p. 250 modifica]si raduni un Concilio veramente generale, libero, sacro, solenne, pel quale io supplico il padre del nostro signor Gesù Cristo. Ma finchè ciò non s’avveri, non venga pubblicato.

«Se quel giorno sospirato risplenderà, che per la pubblica pace e per la concordia della Chiesa, i popoli obbedienti al vangelo possano unirsi, potranno ottener dall’imperatore, dai re e principi cristiani di obbligar seriamente il papa ad un Concilio, ove possano tenersi pubblici e liberi convegni di persone d’ogni nazione cristiana, e tutte possano parlare liberamente per mezzo dei loro oratori, in presenza dei grandi e dei legati delle città. Se in quelle adunanze sarà stabilita equità di giudizj, e colla sola parola di Dio si toglieranno gli abusi, rimarranno levate le controversie religiose, sanate le chiese in modo che tutte formino un solo corpo: allora, ma solo allora, o miei depositarj, consegnerete questo scritto tal quale ai rappresentanti delle chiese di Svizzera e di Germania, che sono i difensori del santo Vangelo; lo presenterete al Concilio generale libero, sacro, solenne, qual testimonianza d’un uom pio, il quale morendo non avea ragione di mentire a Cristo. Questa testimonianza e l’atto d’accusa saranno da voi lanciati colà come un fulmine, che abbatterà l’anticristo. Fratelli, ve ne supplico, non gli lasciate lungo tempo a rispondere: quell’iniquo dev’essere confuso di botto, in mezzo al Concilio, in presenza de’ grandi principi. Allora leggete e rileggete la mia testimonianza coll’atto d’accusa; fate sia diligentemente discussa ed esaminata, e così la Chiesa di Dio sarà purgata».

Segue esponendo venti testimonianze, ognuna delle quali è la professione d’un dogma protestante, e l’ultima un’invettiva contro i traviamenti dei prelati.

Comincia la requisitoria dal descrivere i patimenti, a cui va incontro chi si stacca dalla patria, dalla famiglia, dalle care consuetudini per voler prefessare il Vangelo. Poi svolge i punti d’accusa suddetti. Quel che maggiore impaccio gli reca è l’antichità della tradizione di molte verità cattoliche. Ma egli pretende che, già al tempo degli apostoli, coi veri credenti ne vivessero de’ falsi, che oscuravano la luce portata da’ Cristo, e da quelli vennero i dogmi repugnanti al Vangelo, e le cerimonie, che poco a poco ci allontanano da Cristo, e gli innumerevoli precetti contro cui aveano tonato Pietro e Paolo, il purgatorio, l’invocazione dei santi. Il lavoro è ben lontano dallo stile artificiosamente colto, che il Paleario adopera al[p. 251 modifica]trove, ed egli stesso ne fa professione12. Potrebbe dubitarsi che del suo nome avesse alcuno abusato, dopo che era morto?

Altre lettere scrisse agli eresiarchi d’allora; e nel 1566 erano portate e riportate da Bartolomeo Orello. In una «a Lutero, Melancton, Calvino, Butzer, e a tutti gli Svizzeri e Germani, che invocano Gesù Cristo», dissuade dall’accettare la convocazione del Concilio qual era fatta, ma che la riformassero; e li mette in sospetto della gran premura che n’ha il papa. Pontifex qui, id cetatis, non satis firma est valetudine, ne nocturnum quidem tempus sibi ad quietem relinquit, magnani copiam consultorum habet, quibuscum ad multam noctem sermonem producit; interdum autem jurisperitos, aut usu rerum probatos, aut astutos homines, addite autem si vultis improbos, consulti... advocat, orat atque obsecrat ut in communem curam incumbant13. Udito l’arresto del Carnesecchi, pensò garantire dall’Inquisizione la sua Accusa contro i papi, e col mezzo dell’Orello ne informò Teodoro Zuinger medico di Basilea; questi lo ringrazia della confidenza, loda la sua volontà di giovar alla causa di Dio, ma dice sarebbe meglio affidata l’opera a qualche maestro in divinità, come Sulcer o Coccejo, nelle cui mani starebbe sicurissima.

L’Aonio scrisse poi al senato di Milano come fosse accusato dal padre inquisitore a titolo d’un’orazione latina, scritta trentacinque anni addietro; laonde vedeasi molestato, e costretto separarsi dai giovani, ad istruir i quali era stato chiamato di Toscana. Ora dall’inquisitore con nuove lettere pressato di presentarsi a Roma, risponde trovarsi sotto gli ordini del senato, nè poter di sè disporre senza consenso di quello. Benché vecchio e di debole salute, non ricusa [p. 252 modifica]il lungo viaggio, ma non ha denari da farlo e da spegnere prima i debiti contratti, nè da viver a Roma tanto che abbia dissipata la ingiusta accusa.

Non sappiamo se il senato milanese gli consentisse la domanda; fatto è che egli dimorò a Faenza, la qual pure era città papale. Ma nel 1566, pontificando Pio V, frate Angelo di Cremona inquisitore andò ad arrestar il Paleario, e lo trasse a Roma e nel carcere di Tordinona. Le accuse riduceansi a quattro: che negasse il purgatorio; che disapprovasse il sepellir nelle chiese, preferendo si facesse fuor delle mura; che ponesse in baja il vivere e le foggie monastiche; che attribuisse la giustificazione alla sola fede, nella misericordia di Dio, il quale perdona pei meriti di Cristo.

Il padre Laderchi, continuatore grossolano della Storia ecclesiastica del Baronio, dà come sua principale incolpazione l’aver pubblicato un libro, dove avea finamente stillato il veleno ereticale: veleno in lui talmente connaturato, che l’avea ripetuto in un’arringa scritta ai padri della senese repubblica; e soggiunge dicesse ai cardinali del Santo Uffizio. — Poichè le vostre eminenze han contro di me tante buone ragioni, non fa mestieri che prendano, o che diano a me più lungo fastidio. Io son fermo di operare secondo vuole san Paolo: Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un esempio da seguire: non avea fatto male, non si trovò frode nelle sue labbra; ingiuriato non rispose, soffrendo non minacciò, ma affidò sè stesso a Colui che giudica giustamente. Procedete dunque nel giudizio, proferite la sentenza contro di Aonio, e date così soddisfazione a’ suoi avversarj e adempimento al vostro incarico».

Dopo lungo carcere fu condannato ad essere strozzato ed arso.

È vero che in morte si pentì? Dai Ricordi spettanti alla Compagnia della Misericordia di san Giovanni decollato de’ Fiorentini di Roma si trasse un’annotazione di quelli che assistettero a’ suoi estremi momenti, e che ne narrano il pentimento, e come «confesso e pentito chiedesse perdono al Signore, alla sua gloriosa madre, e a tutta la corte del cielo, volendo morire da buon cristiano, e credendo tutto quel che crede la santa Romana Chiesa, e così fu morto e bruciato l’8 luglio 1570»14. [p. 253 modifica]

Eppure negli ultimi giorni scriveva a’ suoi: — Consorte mia carissima; Non vorrei che tu pigliassi dispiacere del mio piacere, nè a male il mio bene. È venuta l’ora ch’io passi di questa vita al mio signore e padre Dio. Io vi vo tanto allegramente quanto alle nozze del figlio del gran re, del che ho sempre pregato il mio Signore che per sua bontà e liberalità infinita mi conceda. Sicchè, la mia consorte dilettissima, confortatevi della volontà di Dio e del mio contento, ed attendete alla famigliuola sbigottita che resterà, di allevarla e custodirla nel timor di Dio, ed esserle madre e padre. Io era già di settant’anni, vecchio e disutile: bisogna che i figli colla virtù e col sudore si sforzino a vivere onoratamente. Il Padre e il nostro signor Gesù Cristo sia collo spirito nostro.

«Di Roma il dì 3 luglio 1570.

«Tuo marito Aonio Paleario».

«Lampridio e Fedro figliuoli dilettissimi; Questi miei signori, cortesissimi insino all’ultimo, non mancano adesso della loro cortesia, e mi permettono ch’io vi scriva. Piace a Dio di chiamarmi a sè per questo mezzo che voi intenderete, che vi parerà aspro ed amaro; ma se il considerate bene, essendo di mia somma contentezza e piacere per conformarmi alla volontà di Dio, vi avrete anche voi a contentare. La virtù e diligenza vi lascio in patrimonio, e quelle poche facoltà che avete. Non vi lascio debito; molti chiedono alle volte e devono dare. Voi foste emancipati più di diciottenni fa, non siete tenuti a’ miei debiti. Quando vi fossero chiesti, ricorrete a S. E. il duca, che non vi lascierà far torto. Diedi a Lampridio il conto di dare e avere. Ci sono la dote di vostra madre, e di collocar, come Dio vi darà la grazia sua, la vostra sorellina; salutate Aspasia e suor Aonilla mie care figliuole dilettissime nel Signore. L’ora mia si avvicina. Lo spirito di Dio vi consoli e vi conservi nella sua grazia.

«Vostro padre Aonio Paleario»15.

[p. 254 modifica]

Da queste lettere non appare ombra di pentimento; e l’inesorabile continuatore del Baronio, scrive: — Quando si vide che questo figlio di Belial rimaneva ostinato, nè si poteva per alcun mezzo ricondur dalle tenebre dell’errore alla luce della verità, fa meritamente consegnato alle fiamme, affinchè, dopo aver qui sofferto momentanei tormenti, si trovasse nel fuoco eterno».

Le sue opere furono raccolte dai molti amici che ebbe16, e [p. 255 modifica]vennero più volte ristampate fuori, come esempio agli uni di bella latinità, agli altri di molta cognizione delle scritture e di integra fede e zelo pacato.

Quando le opinioni protestanti cercarono ravvivarsi in Toscana verso il 1840, essendone principali apostoli Pietro e Luigi conti Guicciardini, che perciò ebbero a soffrire qualche persecuzione, mansueta come vi soleva in que’ tempi, a Colle in Val d’Elsa trovarono essi e misero in onore una lapide che diceva Aonia Aganippe, e la immaginarono posta da lui stesso a una fonte, della quale favella in lettera a Pterigi Gallo; intendendo onorar così «l’illustre ed infelice poeta, filosofo, letterato e martire della fede».

Come tale fu ammirato e riverito ai dì nostri, massime da Tedeschi e Inglesi: se non che i Protestanti dicono differisse da loro, in quanto considerava il matrimonio come sacramento, e credeva illecito di prestar giuramento in giudizio per qual si fosse caso17.

Era stato amico del Paleario Latino Latini di Viterbo (1513-93) dotto giureconsulto, uno dei trentacinque incaricati di correggere il digesto del diritto canonico. Quando Antonio cambiò il nome in Aonio, parve a costui lo facesse per eliminare il t che ha forma di croce; [p. 256 modifica]e su questo, che al più poteva esser oggetto d’una celia, fece un epigramma feroce allorchè fu bruciato:


Musis amicus factus olim Antonius,
     Crucem putavit nomine
Si ferrei ingens se patraturum seelus
     Nullo abluendum flumine;
Velut profana tinctus unda, vatibus
     Probrum futurum se ratus,
Aonius ergo fit repente, atque ambulat
     Novo superbus nomine.
Nescitque cano, lustra post decem, miser
     Ætate confeetum, gravem
Crucemque, laqueumque simul, et rogum horridum
     Tandem repositum regia
In urbe, tanti sceleris ut pœnas luat
     Reputatus ut sacer cinis.

Medichiamolo con un altro epigramma a sua lode, dettato da Giovan Matteo Toscano, scolaro di lui, il quale molte poesie ne inserì nel Peplus Italiæ, sive Carmina illustrium poetarum italorum (Parigi, 1577).


Aonio Aonides grajos prompsere lepores
     Et quascumque vetus protulit Hellas opes.
Aonio Latiæ tinxerunt melle Camænæ
     Verba ligata modis, verba soluta modis.
Quæ nec longa dies, nec (quæ scelerata cremasti
     Aonii corpus) perdere fiamma potest.



Note

  1. Ritrovi simili continuarono sempre in Siena, finchè non sottentrò alla benevola affabilità la moderna idrofobia: e i padri nostri ricordavano la spezieria di Giovanni Olmi alle Logge del papa, buon chimico e intagliatore, dove s’univano uomini che onoravano Siena, e dove s’ammansiva persino Vittorio Alfieri.
    Fra le lettere di congratulazione dirette a Girolamo Gigli pel suo Vocabolario Cateriniano, n’ha una di Antonio Pizzicagigli di Reggio, fondatore dell’Accademia degli Artificiosi, data da Roma il 30 giugno 1719, ove loda «la dottrina evangelica della santa Vergine, la quale fu certamente colonna di fuoco accesa da Dio nel cielo della santa Chiesa per illuminare gli errori di quel secolo perverso e scismatico, e fu similmente colonna di nuvole per distillare manna di saporitissima locuzione all’eloquenza vulgare mediante il dolcissimo sanese dialetto...» E soggiunge che puossi «dire che ogni privata casa di Siena sia un’accademia di ben parlare, ed un areopago del buon vivere cristiano, secondo che si vede nella numerosa serie de’ servi di Dio, la chiarezza dei quali (disse il gran cardinale Federigo Borromeo) fa distinguere il vostro benedetto paese fra altri, nel modo che la via lattea, tanto spessata di stelle, fa scomparire le altre parti del cielo».
  2. Sadoleti, Epist. 25, lib. V.
  3. «Moriar si me non angunt putidissima interpretationes mese, sive græcæ sive latinæ. Semper judicavi sordidum et obscurum iis, quorum ingenio aliquid fieri potest illustrius, si interpretandis scriptis aliorum humiles ac demissi quasi servitia ancillentur. Sed cum mihi res domi esset angusta, uxor lauta, liberi splendidi, et propterea magnos sumptus facerem, mancipavi prope me studiis iis, a quibus semper abhorrui». Epist. 4, lib. IV.
  4. The benefit of Christ’ s dealh, reprinted in facsimile front the italian edition of 1543, together with a french translation printed in 1551, to which is added an english version made in 1548 by E. Courtenay earl of Devonshire, with an introduction by Churchill Babinglon. Londra, 1800.
    Conosciamo cinque edizioni in italiano fatte a Lipsia dopo il 1855, in tedesco ad Amburgo e a Strasburgo nel 1856; a Vevey e Lausanne nel 1856, ed a Parigi. A Torino nel 1860 se ne formò una stereotipa. Per trovare l’originale bastava ricorrere alla biblioteca della Minerva in Roma, fondata dal cardinale Torrecremata, poi riccamente dotata dal cardinale Casanatta, che fu bibliotecario della Vaticana (1620-1700). I Domenicani di quel convento aveano la licenza di leggere qualunque libro, per veder quali proibire; locchè fa rinvenire in quella biblioteca una quantità di libri, divenuti rarissimi, e fino unici. Clemente XI, nel 1701, avea publicato regole per il modo di conservar essi libri separatamente, e comunicarli solo a chi n’avesse formale licenza.
  5. Merito chiamano i teologi la bontà naturale o soprannaturale delle azioni dell’uomo, e il diritto che egli acquista per esse ai premj divini, in grazia delle divine sue promesse. Si dà merito di condegnità, quando c’è una proporzione fra il valor dell’azione e la ricompensa annessavi: altrimenti non c’è che merito di convenienza (de congruo). Quello non può fondarsi che s’una promessa formale di Dio, questo sulla fiducia nella sua bontà, mera grazia e misericordia (San Paolo ad Rom. VIII, 18).
    Daniele dice a Nabucco: — Riscatta colle limosine i tuoi peccati». Qui s’avrebbe un altro merito; il perdono delle colpe qual guiderdone delle buone opere. Così è scritto che Dio fece del bene alle levatrici egiziane perchè lo temettero (Exod. I, 20). Secondo san Giacomo, la meretrice Raab fu giustificata per le sue buone opere (Ep. II, 25). In questi ed altri casi non v’era condegnità o proporzione fra le opere e il premio, e nemmeno promessa: è la bontà di Dio che non volle lasciarle senza premio: era merito di convenienza.
    L’uomo non può meritar la prima grazia attuale, altrimenti essa sarebbe premio d’azioni fatte senza di essa e meramente naturali. Nemmeno la prima grazia abituale può essere meritata de condigno; ma può l’uomo meritarla de congruo per via d’opere buone, fatte col sussidio della grazia attuale. Sant’Agostino insegna che il dono della perseveranza non può l’uomo meritarlo de condigno, perchè Dio non l’ha promesso ai giusti: ma i giusti posson meritarlo de congruo colle preghiere e la fiducia.
  6. Sess. XIV, c. 8. È la frase di sant’Agostino, che Dio corona i proprj doni coronando il merito de’ suoi servi.
  7. Si veda la nostra vita di Vittoria Colonna.
  8. Il Melzi, nel Dizionario di opere anonime e pseudonime (Milano, 1859) dice che «il solo scrittore che in due secoli abbia veduto questo rarissimo libro fu il Röderer. Non v’ha dubbio che ne sia autore il famoso ed infelice Aonio Paleario, ecc.»
  9. Oratio III pro se ipso ad patres conscriptos reip. senensis.
  10. Vedine la vita in questi ritratti.
  11. Ni mihi spem Christus faceret, quem vita secuta est,
         Non possem abrupto vivere conjugio.
    Ille mihi te olim redituram in luminis oras
         Pollicitus, dulci pascit amore animum.
    Interea Aonium venientem cursibus ad te
         Expecta campis, uxor, in Elisiis.

  12. «Quoniam mei testimonii simililudinem non in verborum volubilitate sed in re ipsa positam arbilror, missa nunc faciain dicendi ornamenta, quse in alla causa fortasse me delectassent; in ea quse Christi est, qui istis adjumentis non eget, minime delectant. Quod eo facio libentius, ne quis putet me gloriae umbram quserere, aut aliud quid prseter gloriam Christi, qui per apostolum monet ne quis nos fallat sublimitate orationis. Tenue itaque atque humile dicendi genus sequar, et libenter profecto lingua vulgari et patria de his agerem, quominus viderentur hsec elaborata et inquisita industria, nisi apud «eos sermo esset, quorum nonnulli italice nesciunt latine omnes sciunt, etc.».
    La tradusse in italiano L. Desanctis (Torino, 1861), ma volle «mitigare alquanto quello stile aspro e qualche volta ingiurioso, che non si affà più alla civiltà de’ nostri tempi», che ognun sa quanto siano parchi in fatto d’ingiurie.
  13. Apud Schoelhorn.
  14. Vedi la memoria pubblicata nello Schoelworn, come pure le lettere seguenti del 3 e 5 luglio 1570. Erra dunque il Laderchi facendolo morto il 1 ottobre 1569: era stato arrestato il 1568.
  15. Il Paleario ebbe sette figliuoli, di cui alla sua morte viveano due maschi e tre ragazze. Aspasia era stata, nel 1557, maritata a Fulvio della Rena con 1200 fiorini di dote; Aonilla stava nel convento di Santa Caterina a Colle; Sofonisba avea sposato Claudio Porzj, e forse erar morta: la sorellina di cui fa cenno pare si chiamasse Aganippe. Di Fedro Paleario leggiamo in un manoscritto della biblioteca di Siena, ch’ebbe una figlia Sofonisba, bella come il sole, e che venuta a Firenze, il granduca ne fu così incantato, che la fece educare e le procurò buon collocamento.
  16. Nella Biblioteca di Siena vedemmo gli autografi di tre sue lettere (Miscellanee, B, x, 8); due sono le stampate, dirette alla moglie e a Lampridio e Fedro, figliuoli: una da Lucca a «Niccolò Savolini scuoiare a Pisa», del 9 novembre 1552, ove si firma «come padre Aonio Paleario», e gli scrive d’aver parlato col vescovo per farlo ordinar prete. Non ci pare importi pubblicarla. Nel codice H, x, 13, di Miscela poetica, a c. 64, vi sono «Rime varie alle sacre e sante ombre del Bongino» con una prefazione di Aonio Paleario «alla molto magnifica et virtuosa madonna Aurelia Bellanti conmadre osservandissima». Fra le molte rime vi ha due canzoni e tre sonetti del Paleario.
    Ivi pure esistono (Miscell., c. VII, 12) «Memorie per servire alla vita di Aonio Paleario, raccolte da Carli Girolamo, e dirette ad Antonio Compagnoni». Fra queste è copia di una lettera di esso Paleario al cardinale Cervini, che poi fu papa: e benchè di poca entità, la trascriviamo:
    «Monsignor reverendissimo et osservandissimo signor mio; Ho havuta la cortesissima di vostra signoria reverendissima, nè altro aspettavo da lei che cortesia et gentilezza, quæ cum aitate et dignitate accrevit simul. In quanto a quello mi dice che bisogna espedire in evidentem ulilitatem, nè io le harei chiesto altrimente, anzi, se vale V fiorini il stajo della terra, darne VII; se VII dieci; sì perchè sono cose di chiesa, sì per l’onor di vostra signoria reverendissima, che lo prepongo al mio utile di gran lunga. Potrassi investire in tant’altra terra, che si vende contigua al podere di Corie, di un certo Cecchino collegiano, molto più vicina et commoda alle cose di detto podere, non mancherà il rinvestire con utile et commodo dell’abbadia.
    «Ringratio la signoria vostra reverendissima dell’espeditione che mi promette gratis, sarà tra li altri infiniti obblighi che le tengo. Che Dio et padre del signor nostro Gesù Cristo la mi preservi sopra la vita mia.
    «Di Menzano il dì XXIX di agosto MDXLIIIj.

    «Di V. S. R. Osservandissimo Aonio Paleario».

    Nella Biblioteca Ambrosiana di Milano vedemmo pure varie lettere, anche autografe, del Paleario: loda grandemente i Milanesi e i decurioni perchè anche nella carestia non lo lasciarono mancare di nulla: altrove al noto storico Michele Bruto si querela perchè avesse stampato una lettera di lui senza informamelo.
    Nel suo processo mss. alla Magliabecchiana, segnato 393, è inserita in islampa l’orazione sua detta a Siena. Il Lazari ne trovò venticinque lettere nella biblioteca de’ Gesuiti. A. Palearii Miscellaneorum ex mss. lib. bibliothecæ collegii romani. Roma, 1757. Sono stampati a Venezia, per Francesco Franceschini 1567, i Concetti di Aonio Paleario per imparare insieme la grammatica e la lingua di Cicerone, ecc., ma realmente sono di Lazzaro Bonamici, mentre del Paleario è soltanto il Supplemento de’ concetti della lingua latina. Sta alla Magliabecchiana una sua orazione, fra molti altri carmi in lode d’un Bandini. Inoltre nei Carmina poetarum nobilium Jo. Pauli Ubaldini studio conquisita, Milano, 1561, vi sono degli esametri suoi nelle nozze di Nicola Marino con Luigia Mendoza, aventi per ritornello:

    Huc ades, o Hymensæe Hymen; ades, o Hymenæe,

    e alcuni altri carmi, ove nulla che sappia di religioso.

  17. Vedi The Life and Times of Aonio Paleario, or a history of the italian reformers in the sixteenth century: illuslrated by originai letters and anedited documents. London, 1860, due volumi, della signora Young, che fu suocera del professore Matteucci. — Cantù, Spigolature negli archivj di Toscana (Torino, 1860). — Halbauer, Dissertatio de vita, fatis et meritis A. Palearii (Jena, 1728). — Theune, Programma de A. Paleario Verulano (Sorav., 1734). — Ekerman, Dissertatio de A. Paleario Italo, latinitatis, candoris et martyrii fama præcellentissimo (Upsal, 1763). — Joh. Gurlitt, Leben des A. Palearius, eines Märtyrers der Waharheit (Amburgo, 1805). Un P. D. C. pose a Colle, nel sobborgo di Santa Caterina, un’iscrizione Qui abitò Aonio Paleario. Non fu dunque il Municipio, come disse il Bonnet, che gli rese questa onoranza; solo trovò di non avere ad opporsi. Deliberazione del 22 novembre 1851.