Italiani illustri/Ovidio

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Ovidio

../Cola di Renzo ../Torquato Tasso IncludiIntestazione 16 dicembre 2022 100% Da definire

Cola di Renzo Torquato Tasso
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— Nacqui in Sulmona, città ne’ Peligni, denominata dal frigio Sulimo, distante novanta miglia da Roma1; e come di Mantova Virgilio, di Verona Catullo, così io sarò la gloria del paese peligno2. Mio padre era dell’ordine equestre, antichissima la famiglia, e seconda a nessuna in nobiltà, ma di media condizione fra la povertà e la ricchezza3. Vidi la luce l’anno che i consoli Irzio e Pausa perirono [p. 372 modifica]nella battaglia combattuta a Modena fra Cesare Ottaviano e Antonio4.

Nel giorno stesso, un anno prima era nato un mio fratello5, e con lui fummo messi a studiare a Roma di grammatica6. Egli inclinava all’eloquenza forense, io mi sentiva tratto irresistibilmente alle Muse7. Mio padre mi ripeteva: — Perchè darti a uno studio che non frutta? Omero è morto povero»8: ed io mi proponeva di non far più versi, ma la promessa stessa che gliene facevo riusciva in versi9.

Assunta a 17 anni la toga virile e il laticlavio, distintivo de’ senatori10, viaggiai ad Atene coll’amico Macro, dove appresi bene il greco; vidi molte città dell’Asia e la famosa Troja11; alquanti [p. 373 modifica] mesi dimorai in Sicilia12: perdetti il fratello di 20 anni, caro come parte di me stesso13; fui triumviro capitale, poi centumviro14, poi dicemviro, e spesso venni chiesto arbitro di litigi particolari15. Avrei potuto domandar la questura, la prima fra le dignità senatorie, ma non sentendomi chiamato agli impieghi, deposi il laticlavio, e presi l’angusticlavio di semplice cavaliere, per dedicarmi tutto alle Muse16.

Mio padre, vedendomi troppo incline alla galanteria, mi diè moglie in età tenerissima, ma presto la repudiai, e ne tolsi un’altra che neppur essa durò guari, non per sua colpa. La terza moglie mi serbò fede anche nell’esiglio17, e n’ebbi una figliuola18 che due volte mi fece nonno da due mariti19.

Appena tagliata due volte la barba, diedi fuori il poema degli Amori, che mi fece subito cercare e lodare dal bel mondo. Le mie [p. 374 modifica]canzoni procacciaronmi l’amicizia de’ migliori d’allora; il poeta veronese Emilio Macro, come il fervido Properzio e l’armonioso Orazio leggevanmi i loro versi: Pontico autore di una Tebaide, Tuticano autore della Feace, Pedone Albinovano autore d’una Teseide, e il bibliotecario Igino cantor delle Api, e Cornelio Celso, e Basso scrittore di giambici, e Gallo e molt’altri mi prediligevano, non che i minori; uomini e donne voleano praticarmi, e principalmente la casa Fabia, e la Messala dove Corvino teneva una specie d’accademia per legger nuove composizioni. Appena conobbi Virgilio e Tibullo, del quale piansi la immatura fine20.

Soggetto de’ miei canti amorosi era una donna, che adombrai col nome di Corinna21; ad essa, anzichè a Tebe o a Troja o ad Augusto consacrai la Musa22, e la feci rinomata su tutte le bocche; quantunque s’ignorasse chi costei fosse, tanto che molte lusingavansi esser dessa23. Era maritata24; e puntigliavasi a vincere le difficoltà [p. 375 modifica]oppostele non tanto dal marito, del quale anzi era soverchia la connivenza, fin a togliermi il solletico della difficoltà25, quanto da servi, eunuchi, donzelle che la circondavano: piacevasi molto d’aver regali, il che faceva che a me, non ricco poeta, preferisse altri più suntuosi donatori. Quindi ripetute infedeltà, delle quali non solo mi querelavo in versi, ma fin la battevo; pur dovevo rimaner persuaso che, come di me, così da altri lasciavasi amare26, forse cercata appunto perchè sapevanla amata da me, o pei vanti ch’io le avea dato; onde le divenivo galeotto27. Siffatta, io non poteva stimarla, ma la beltà da essa incatenavami, e deh fosse stata o men bella o meno facile!28 Pure, tal qual era, io non potea vivere nè con lei nè senza di lei29. La scaltra conosceva le opportunità del resistere e del cedere; colta com’era, or coi libri, or col suono mi allettava; mostravasi schiva e superba, ed or fingevasi pentita, or ostentava i proprj falli, talchè io doveva pregarla di almen celarmeli30....»

Ci piacerebbe poter lasciare il poeta nostro raccontar sè medesimo nè sarebbe difficile il cavarne tutti i suoi casi, eccetto quelli di che [p. 376 modifica]si è più curiosi. Questa Corinna ignoriamo chi fosse, ma il poeta ci disse troppo qual fosse. Egli stesso però, sebbene le avesse promesso costante servitù e pura fede31, e realmente fosse preso di quelle bellissime forme, non distoglievasi da altre, come fa chi soltanto la bellezza ama; quantunque disapprovasse questa sua inclinazione, non sapeva resistervi32, e come don Giovanni, amava tutte, purchè donne; le amava per consolarsi coll’una dei torti dell’altra, e parevagli gran virtù se non insidiava matrone oneste, se non divulgava le sue avventure, se non ne inventava33, se non rendeva pubblici i biglietti avuti; e purchè non si negassero i depositi, non si mancasse alle promesse, non s’ammazzasse, non si frodasse, credea si potesse ingannar le donne, ingannatrici esse34. Or va e credigli quando protesta che i suoi costumi erano ben diversi da’ suoi carmi, e se la Musa era lasciva, casta era la vita35. Vero è solo che non metteva in piazza i nomi proprj, come usavano Catullo, Orazio, Marziale, nè com’essi fa pompa d’infamie contro natura; lo che non toglie sia forse il più osceno de’ poeti latini.

Il più osceno, eppure il solo che avesse moglie; il solo che per la moglie sua ci desti interesse, benchè nè il nome nè la famiglia ci sveli di essa, nè dei mariti della sua tanta amata figliuola. Ma questa assidua vicenda di matrimonj di essa o del padre rivela la sciagurata condizione di quei primi anni dell’impero romano, quando [p. 377 modifica]i divorzj erano tanto consueti, che le nozze prendeano aspetto di legittimi adulterj. Quindi più comuni gli amorazzi, e a questi porse fomento Ovidio co’ suoi versi.

L’anno che Augusto diede la naumachia (752 di Roma) e mandò in esiglio la figliuola Giulia per le sue disonestà, Ovidio pubblicò i due primi libri dell’Arte d’amare, dove insegna come cercarsi un’amica, come acquistarsela, per insegnar poi nel III come conservarla. Meglio che Arte di amare s’intitolerebbe Arte di sedurre. Frondoso e lussureggiante sempre, mille versi occupa per descrivere la donna a cui dire — Tu sola mi piaci»36; quasi la scelta sia effetto di calcolo. Passeggiar per le vie, darsi aria sulle piazze, confrontare le brune colle bionde, villeggiare a Baja, principalmente cattivarsi le cameriere con oro e carezze, insinuarsi nelle grazie del marito, insistere ma senza nojare, nè per rifiuti smettere la speranza, fingersi soffrente, simulare una rivale, sopratutto saper tacere, e credere di non aver peccato ove il peccato può negarsi37, son le arti che insegna questo ingegnoso spositore della corruttela del suo secolo, d’un secolo dove egli poteva chiamare poco urbano il marito che pretendesse casta la donna sua nella città, i cui fondatori non nacquero senza colpa38, e dove osava proporre quasi specchio l’amor di Pasifae.

Chi aspira a conquiste, frequenti i boschetti di Pompeo o il portico di Livia, e le feste del compianto Adone, e i sabbati del Giudeo, ma principalmente i teatri e i circhi, dove in folla mirabile accorrono le donne per vedere e farsi vedere39, sdrucciolo della castità; ivi applauda ai cavalli, agli attori che l’amica preferisce; scuota dal grembo di lei ogni granello di polvere che vi sia, la scuota se anche non ve ne sia, e colga ogni occasione di prestarle servigio; sostenerle il pallio se strascica; accomodarle il cuscino; non permettere che alcun ginocchio la pigi; farle vento, e scommettere sulle vittorie; inezie che cattivano gli animi piccoli. Ma arte [p. 378 modifica]suprema di piacere sono i donativi, nè abbisogna d’altr’arte chi può donare40.

Alle donne medesime insegna a impaniare amanti: le vesti adatte ai tempi e ai luoghi; il confine del riso; mostrarsi serene sempre, lasciando via gli alterchi, roba da mogli41; sappiano smungere a maggior profitto l’amante, chiedendogli doni se ricco, raccomandandogli clienti se magistrato, affidandogli cause se giurisperito, accontentandosi di versi se poeta. Mentre però uccellavano a regali, spesso elle vedevansi spogliate; e il precettore d’amabil rito le ammonisce a non lasciarsi illudere dalla ben pettinata chioma, dalla toga sopraffina, dai molti anelli; perchè sovente colui ch’è più ornato è rapace, e vagheggia le vesti e le gemme42; onde più d’una s’ode sovente gridare al ladro.

Strani amori! strani precetti! strane cautele! Eppure forse solo Ovidio tra que’ poeti, ripetiamo, ebbe moglie, e l’amò, o almeno la rimpianse affettuosamente dall’esiglio, ove per altro essa non l’accompagnò. Properzio lascerebbesi decollare, piuttosto che obbedire alla legge Papia Poppea contro i celibi43. Orazio stesso, di affinatissimo gusto, di sagacia discretissima, e legato col fiore de’ cittadini, e che pure si deturpa di plateali sconcezze, meglio palesa la corruttela che dovea venire dalla pratica colle cortigiane, dai bagni promiscui, dai trini letti delle mense; sicchè indarno la legge e la costumanza circondavano di tanti riguardi le matrone, riverite e lasciate in abbandono. Che più? Virgilio, soprannomato il Casto, porta il suo tributo all’immoralità, proclamando beato chi pone sotto ai [p. 379 modifica]piedi il timore del fato e dell’averno, e consiglia a goder la vita finchè n’è tempo, nulla curandosi del domani44.

Chi sa che di esempj tali non si schermisse Ovidio, se mai qualche spigolistro nel rimproverasse? Egli se ne scagiona col dire che gl’insegnamenti suoi dirigevansi solo a donne libere, a fanciulle, a cortigiane; raccomanda alle caste di non accostarsi a’ suoi libri, i quali voglionsi riservati a quelle che non son legate da voti45.

Pure egli rammenta anche qualche donna virtuosa, come Marzia moglie di Fabio Massimo, bella e colta, e insieme savia e pudica46; e Perilla poetessa, il cui ingegno non nocque alla purezza dei costumi, e scarsa di fortune, viveva accanto alla madre, solo occupata di libri e delle Muse. Ovidio ne conobbe l’ingegno fin dai primi anni e la eccitò, prevedea che avrebbe pareggiato Saffo, e ne correggeva le composizioni, come esso le leggeva le sue47. [p. 380 modifica]

Appartengono alla materia stessa i Rimedj d’amore, suggeriti a chi mal ama. Tali sarebbero lo schivare l’ozio, applicandosi a studiare le leggi, a difendere accusati, a portare le armi, alla campagna, alla caccia; e cansare l’amata e non parlarne in bene nè in male; o, se nol si possa, tenersi sempre a mente i torti avutine, i difetti scopertine, e immaginarla negli atti ove essa men vale, o nelle basse necessità della vita; bruci i viglietti di essa; fugga i luoghi memori; fugga gli spettacoli teatrali e i poeti, e i versi stessi d’Ovidio48. D’altri rimedj è onesto il tacere.

Aveva anche insegaato l’arte di farsi bello (De medicamento faciei), ma non ce ne resta che un brano.

Insieme dava fuori di tempo in tempo le Eroidi, genere di cui si vanta inventore49. Suppone siano epistole scritte da antichi; ma non sa investirsi dell’indole dei tempi, nè assimilarsi al sentimento delle età remote; le più inchiudono lamenti lambiccati per separazioni e lontananze, ed anche in esse l’affetto resta soffogato dall’erudizione. Allora piacevano ai pochi che leggevano, e un tal Sabino vi fece delle risposte, che non ci rimasero, e che probabilmente valeano ancor meno.

Qui suol deplorarsi la perdita della Medea, sua tragedia; ma chi mai potrà figurarsi che l’autore delle Eroidi potesse ben comporre una tragedia? I luoghi comuni di cui tesse quelle epistole, la dilavata facilità del suo stile non ce ne lasciano troppo rimpiangere la perdita50. Sarà stato un acervo di declamazioni dialogate, ove il [p. 381 modifica]racconto e le parlate tenessero le veci dell’azione, come nelle pochissime tragedie romane che ci restano, e in quelle di cui avanza qualche ricordo.

Opera maggiore consigliavangli il suo ingegno e i suoi amici, onde intraprese le Metamorfosi.

Nei miti primitivi de’ popoli si riscontrano certe somiglianze, che non credo abbastanza spiegate dalla natura comune degli uomini. In quel periodo di spontaneità, ogni evento, per quanto naturale, ogni parola racchiudeva il simbolo d’un Dio; tutto era effetto o volontà o trasformazione d’un Dio; concezioni dispajate, ma dove continuamente il cielo si connette alla terra, il nume all’uomo, sicchè la storia degli uni come degli altri variavasi e svolgeasi ogni giorno, e le guerre, le alleanze, le vendette, gli amori de’ mortali riproduceansi nell’Olimpo, elevato non più che le montagne, abitato da esseri poco più forti e nulla men passionati che gli uomini. Se il simbolo e la metemsicosi foggiarono stranamente le divinità egizie e orientali, nella religione greca il reale e l’ideale si fusero in armonia; la coscienza creava gli Dei a sua immagine, e colla libertà del racconto, dell’arte, fin dell’ironia, senza simboli nè scienza, ma sempre ridenti di bellezza. Tali furono ritratti dai primi poeti: e sol tardi le analisi filosofiche d’Anassagora e le storiche di Eveemero confusero quegli esseri colle forze cosmiche, o cogli eroi veramente vissuti, e per benemerenza onorati di culto; la scienza uccise l’arte; pose discordia fra il mito e la riflessione, sinchè spinse le menti nello scetticismo. Allora ai poeti primitivi di spontaneità creatrice succedono quelli di riflessione consapevole.

I miti adottati dagli aborigeni e dai Greci non furono svolti dalla civiltà tutta legale dei Romani, in una lingua severa ed aliena dalle astrazioni; sicchè il culto si trovò ridotto a precetti dell’autorità, a legame (re-ligio) di Stato. Questa mancanza di virtù genitrice dei miti, come la chiama Mommsen, isterilì anche l’arte e impedì ogni originalità.

Fra i Latini, Lucrezio cantò le religioni, la natura delle cose e degli Dei, deducendo i concetti dai Greci; ma vi consacrò lo scetticismo suo e de’ suoi tempi, quando l’ideale era fuggito da un mondo senza Dei, e il sentimento contrastava colla ragione; non vide che credenze perite (religio pedibus subjecta vicissim obteritur): e l’uomo viucitor del cielo (non exæquat Victoria coelo); l’uomo che rompe le [p. 382 modifica]barriere del mondo, e percorre colla mente l’immensità (extra Processit longe flammantia moenia mundi, Atque omne immensim peragravit mente animoque); dove più non riscontra la divinità, ma le forze della natura, il gran caso; e deduce la poesia dalla negazione, dall’arido sillogismo, come altri dalla fede; egli dalla bestemmia come altri dall’adorazione; egli dalla tranquilla disperazione come altri dalle speranze spirituali e fin superstiziose.

Ovidio non credeva forse più che Lucrezio, ma invece di argomentare coi liberi pensatori, tenevasi coi cortigiani, colle scuole, colla scienza vulgare, che erasi formato un cielo convenzionale, lontano da quei terrori d’una natura inconsapevole, d’una divinità inesorabile, dallo strepito dell’Acheronte Averno come dalle immagini pietose o terribili, voluttuose o meste, con cui i primieri aveano riflessa nel cielo la propria storia. Per entro un magazzino di tradizioni cerca colori e figure per formarne un quadro. Poeta di genio non è, nè possiede la grand’arte che rivelasi per un organismo ideale: evoca miti e leggende a cui più nessun crede; accetta un Olimpo, irreconciliabile collo scetticismo ormai prevalente; canta, ma senza coscienza in quindici libri di 12,000 esametri le trasformazioni subite da uomini e Dei. Questo scioglimento riesce troppo uniforme nelle 246 favole, le quali rannoda con passaggi poco naturali, e quasi senz’altro collegamento che della successione; non come pietre combinate in un musaico, ma come perle infilate.

Non diverso dagli autori suoi contemporanei, nessuna fatica si piglia d’inventare e di esser originale, e tutto desume da poemi o drammi di antichi o di contemporanei, e principalmente dal greco Partenio. Soltanto l’episodio di Piramo e Tisbe non ha riscontro che fin qui siasi scoperto; e se l’inventò egli stesso, basta ad assicurargli il titolo di poeta. Neppure si propone verun fine civile o politico, salvo quello di metter Cesare in cielo.

Nè tampoco sa cogliere i rapporti ideali delle cose e i molteplici aspetti del pensiero; non profondità di tocco, non il mondo interiore, non il patetico, non l’unità organica, non sculte le sembianze d’un tempo; manca e della forza che crea e di quella che pensa, e delle lacrime delle cose: nulla di profondo, di mistico, di sistematico; non filosofia, non teologia; non sa nobilitare le tradizioni vulgari; secondo l’eclettismo della scuola Alessandrina, assume le favole della mitologia popolare senza discuterle o rivelarne l’assurdo; in alcune toglie ai [p. 383 modifica]personaggi il carattere simbolico e il senso religioso, o le altera coll’innesto di elementi disparati: e le oscene avventure di cui si compiace applica talvolta a divinità di reputazione morale.

Accontentiamoci di riconoscergli un talento agile, un pennello versatile, e magia di colorito, verso facile e armonioso più che negli altri; onde di stile limpido, analitico.

Ovidio si lagnava di non aver potuto dar l’ultima lima a quest’opera, e in un momento di dispetto volea fosse gettata al fuoco; ma altre volte sentiva esser a quella raccomandata l’immortalità del suo nome51.

Questo lavoro gli fu interrotto dal caso che più restò conosciuto e disputato dai posteri. A cinquant’anni, allorchè, calmato il fuoco delle passioni, cercasi tranquillità nelle consuetudini, negli studj, nell’amicizia, nella famiglia, ecco un decreto d’Augusto sbandisce Ovidio d’Italia, e lo relega nel Ponto. L’esiglio per gli antichi era pena gravissima, e viepiù quando l’Impero talmente erasi esteso, che non potevasi subirlo che in paesi lontanissimi, e privi non solo delle comodità e dei vantaggi d’una patria grande, adorna, venerata, ma fin da quelli della civiltà, i cui confini erano omai quelli dell’Impero romano. Propriamente esiglio non era quel di Ovidio, bensì relegazione in una parte lontana dell’Impero52. Non v’era stato processo, non condanna; Augusto, col paterno despotismo che le abolite [p. 384 modifica]franchigie gli concedevano, mandavagli ordine d’andarsene nel Ponto; presso a poco siccome ai dì nostri nei due regni d’Italia vedemmo esser relegati qua e colà economicamente, come ora si dice, vescovi cardinali, preti, spiaciuti a chi comanda.

Non rifinano i commentatori e i biografi di almanaccare la causa di quella disgrazia. Se la cerchiamo in lui, egli ci indica i suoi versi lascivi, e un errore sul quale mai non si spiega. Ma i versi lascivi erano opera giù antica, se anche non fossero stati vizio comune a troppi poeti d’allora, e fino ai più dilicati, quali Tibullo e Virgilio. L’Arte d’amare era un vero codice di libertinaggio, ma dopo compostola, quante volte non era egli passato, in qualità di cavaliere, davanti ad Augusto censore, che doveva appuntarne la condotta?53 Ma che, se lo stesso Augusto, a tacere gli atti, fece versi da disgradar quelli d’Ovidio?

La causa vera del suo esiglio era nota a tutti in Roma54 eppure nessuno ce ne parlò, forse perchè i diarj d’allora ricevessero la parola del principe. Resta dunque il campo alle congetture.

È vero ch’egli fosse o complice o correo delle lascivie di Giulia, figlia d’Augusto? Ovidio si paragona ad Atteone, che fu lacerato dai cani perchè vide Diana al bagno, assicurando però non aver confidato il segreto neppure al più stretto amico. Forse dunque seppe un delitto, una tresca di Giulia e non osò rivelarla ad Augusto, se pur non vi tenne mano55. Ma costei era stata esigliata, nel 752. di Roma, nove anni prima d’Ovidio. È vero ch’egli sorprendesse [p. 385 modifica]Augusto in oscene confidenze colla propria figliuola? Ma della rivelazione avrebbe questi accresciuto il pericolo col punirlo, nè Ovidio sì spesso alluderebbe ne’ suoi versi ad una colpa che doveva far vergognare il pregato più che l’intercedente. Vero è che Ovidio rifugge dal rammemorare quel fallo ad Augusto; ne dà colpa alla sua familiarità coi grandi e all’averne abusato, per timore più che per errore; del resto confessa aver meritato il castigo, e gli amici esorta non a prender le sue difese, e solo impetrargli perdono.

Il distaccarsi dalla patria e dalla famiglia dipinse Ovidio in un’elegia, ch’è delle sue la più divulgata. Gli amici lo aveano la più parte abbandonato, appena il seppero colpito dal disfavore imperiale; così essendosi sempre avverato in antico come in moderno. Gittò al fuoco molte sue poesie, come causa del suo infortunio. E lasciava Roma, la stanza de’ suoi cari, il centro della civiltà, la metropoli del mondo, il teatro de’ suoi trionfi, per andare nella Scizia, fra barbari ignoti.

Ciò avvenne il 761 di Roma, novembre uscente. Da Brindisi sferrato, patì d’un’orrida procella che descrive pietosamente. Campato dalla quale, passò nel mar Jonio; a Cencrea, porto di Corinto, mutò nave, e con questa drizzatosi all’Egeo, varcò l’Ellesponto, da Troja passò ad Imbros; poi all’isola di Samotracia, a Tempira vicino al fiume Ebro, e per terra dai campi Bistonj giunse a Tomi, destinatagli stanza.

Tra via aveva composto il primo libro delle elegie intitolate Le Triste, e l’inviò a Roma prima di finir il viaggio, meravigliandosi che, fra quell’ambascia d’animo e traghettio di corpo, trovasse voglia [p. 386 modifica]di comporre56. Qui è mutato interamente il tono del poeta; se dapprima gajo, amoroso, scherzevole, saltella di fiore in fiore, colorandosi a tutti i raggi dell’iride, adesso mesto, piangoloso, non sa che ricordare quel che perdette, desolarsi di quel che soffre, implorare perdono o almeno pietà.

Ma poichè poetava come sentiva, c’è in quei versi maggior verità che in tutti gli altri suoi, se meno arte e finitezza; sebbene non sappia neppur allora evitare le freddure e le pedanterie delle prische composizioni. Ma mentre prima si era vantato di bestiali prodezze amorose, desiderando finir la vita in quei ludi, e che si dicesse, «Tal moria qual visse»57, nell’esiglio invece protestava non aver fatto mai male, esser vissuto verecondo, e aver solo finto quelle capresterie58.

Tomi è città del Ponto nella Mesia inferiore, ora Bulgaria, presso la foce del Danubio, sulla sinistra del mar Nero; ma qui pure disputano a qual paese d’oggi corrisponda, e chi la vuole Kiavia, chi Temeswar, chi più probabilmente Kustangie. Vi s’era stabilita una colonia di Greci di Mileto59; ma tutt’intorno stavano popoli [p. 387 modifica]barbari. Colà i venti poteano a segno, da abbatter le torri e portarne i tetti; stridente il freddo, quasi perpetuo il verno, neppur d’estate liquefacevansi le nevi; non che i fiumi e il mare, gelavano i liquori stessi e il vino dispensavasi a pezzi60.

Colà cattiva abitazione, pessimi viveri, acque limacciose. Il suo corpo soffriva di quel clima, e l’animo viepiù. Ammalò, e non l’assisteva medico, non amico; invocava la moglie, la quale non sappiamo perchè nol seguisse, e davale i ricordi, che pur non furono estremi.

Questa descrizione è tutta fantasia poetica? Noi conosciamo come quei paesi, posti quasi sotto la stessa latitudine dell’Italia e in vicinanza del mare, godano mite temperie, e tal ne sia la fertilità, che provedono spesso di biade l’affamata Europa; ed Humboldt imputa Ovidio di non aver sentito la maestosa bellezza della natura che il circondava. Convien dunque in parte aver riguardo al vezzo troppo comune fra’ poeti d’esagerare, e più a chi voleva eccitar la compassione; ma pure credere che grandissimo cambiamento abbiano recato a quelle contrade la civiltà e il diboscamento; del che altri esempj abbiamo.

Mal reale erano le scorrerie continue de’ Barbari confinanti, che spesso predavano gli armenti e le biade, trucidavano gli abitanti, e Ovidio stesso dovette qualche fiata prendere l’armi a difesa, egli che neppur da giovane non le avea maneggiate che per trastullo61. Poi [p. 388 modifica]fin nella città, Greci e Geti venivano spesso a conflitto. Fiera la gente e truce; barba e capelli lunghi e incolti; sempre a cavallo, ravviluppati in lunghe vesti di pelle, trattando archi e dardi avvelenati; gli stessi Greci s’erano inselvatichiti, a segno che Ovidio non gl’intendeva, e il suo parlar latino era beffato dagli indigeni62.

Tanto meno erano capaci di comprendere le sue poesie, e perciò di lodarlo, sicchè lamentavasi di non trovar ascoltatori. Avvezzo ai convegni dov’egli leggeva ad altri ed altri leggevano a lui le loro poesie, criticandosele a vicenda, lagnavasi di non aver più a chi recitar le sue composizioni63. Inoltre s’accorava che dalle tre biblioteche di Roma fossero state fatte levare le sue opere, e bruciati i libri dell’Arte d’amare64. Pure, dove non avea giuoco, non usava vino65, unico conforto gli era lo scriver versi, onde ne [p. 389 modifica]componeva, benchè certo che nessun vi badasse o li capisse66; e parte ne mandava poi a Roma, non tanto per acquistar gloria quanto per isfogarsi e per tenersi vivo nella ricordanza de’ suoi, e implorare la pietà di Augusto.

I cinque libri delle Triste avea diretti o alla moglie o a persone innominate; sempre con lamentele fiacche e senza dignità; altre poi, che intitolò dal Ponto, indirizzava a singole persone, delle quali invocava o il patrocinio o la benevolenza, forse non temendo più comprometterle col mostrarsi amiche ad un disgraziato: ma tutte vanno colla stessa abjettezza di querimonie.

Gli amici non sembra si adoprassero gran fatto a suo pro; li più mostravansi indifferenti; alcuni gli rivolsero o rimproveri, od esortazioni ad aver pazienza, a consolarsi colla filosofia o distrarsi colla poesia. È così facile suggerir consolazioni ai mali degli altri! E il poeta ne soffriva; e talora indispettivasi, e dettò una lettera complessiva dove lor chiede ironica scusa se li tediò co’ suoi lamenti; persuaso però che, se l’avessero chiesta, Augusto era dispostissimo a conceder la grazia per lui67.

Così implorava anche nel protestar che non voleva implorare più. In fatto però non sembra che Augusto si mitigasse; eppure la moglie non avrà cessato d’intercedere, nè Fabio Massimo, finchè questi si uccise ed Augusto morì. La costui morte cantò Ovidio in un poema [p. 390 modifica]nella lingua de’ Geti68. Non l’abbiamo, ma ce lo dà egli stesso come pieno di abjette adulazioni, divinizzando Augusto, professando aver alzata a Tomi una cappella colle immagini di quello, di Livia, di Tiberio in argento e di Germanico e Druso; e tutte le mattine vi faceva preghiere o ardeva incensi69, e i forestieri chiamava a celebrarne il natalizio.

I Tomitani applaudirono quel poemetto; il che mostra non fossero poi così barbari: anzi Coti principe de’ Geti tolse a ben volere il poeta, e dai cittadini fu fatto immune dagli aggravj pubblici, fin coronato70; sebbene si dolessero del male che diceva del lor paese. Ond’egli protestava di avere sparlato de’ luoghi, ma non degli abitanti; anzi amare i Tomitani, più che Latona non amasse Delo; que’ Tomitani che aveano compatito a’ suoi mali quanto avrebbe fatto la patria Sulmona71.

Fra le opere che scrisse ncll’esiglio fu l’Ibi contro un falso amico, che s’industriava a recargli ogni danno; egli, che pur era scarco di ira, che si vanta di non aver usato la satira contro chi che sia72, [p. 391 modifica]versò contro costui le invettive più fiere, ma anche nel furor della passione imitò, intitolando così il poemetto perchè contro un Ibi aveva inveito Callimaco; e lavorò di reminiscenze, giacchè gli augura tutti i mali con 239 esempj. Verseggiò pure i trionfi di Tiberio, e un libro sui pesci (Halieuticon); perduti.

Colà compose o finì il libro dei Fasti; specie di liturgia, dove spiega i nomi delle feste romane e l’ordine loro e i riti e l’origine, come già aveano fatto alcuni greci in Alessandria, e a Roma Properzio e Antonio Sabino. È l’opera sua più sobria, perocchè avea cose a dire: la più amena e dolce benchè in argomento arido, e con episodj variatissimi, e meno offesa dei difetti consueti. Vero è che pur qui non trova o suggerisce nulla di elevato o recondito; lascia dominarvi la leggenda, la menzogna consacrata dai sacerdoti; e poichè gli Dei e la religione a suo tempo erano anticaglie, scartate dalle persone colte, egli se ne valse, quanto già nelle Metamorfosi, con leggerezza e sorriso, come della cavalleria fece l’Ariosto, che a questa credea nulla più che Ovidio a’ suoi numi. Incredulo alla foggia del suo tempo, la fede negli Dei giudica opportuna e nulla più73, sicchè pura arte fece anche qui; se non che, dovendo di preferenza toccare a favole latine d’origine pastorizia, ce ne conservò alcune che altrimenti ignoreremmo. Quest’opera è delle pochissime che furono tradotte in greco.

Come in tutti i componimenti del suo tempo, l’idea in lui predominante è Roma: questa è la sola unità dei Fasti; lei dipinge negli Amori; a lei sospira nelle Triste, di lei intarsia i destini nella troppa facile orditura delle Metamorfosi, le quali finiscono con Romolo e Numa, colla stella di Giulio Cesare, e colle preci per la conservazione d’Augusto74. Ovidio non è adulatore del tempo passato75: una volta affetta la universale filantropia76 mentre altre volte idolatra la patria77. [p. 392 modifica]

In generale il nostro poeta ha maggior brio e verseggiare più limpido e fluido che Properzio, ma non la dignità di questo nè l’eleganza di Tibullo. In quella spontaneità da improvvisatore, che egli confessa ma non ismette, usa con libertà anzi con licenza le parole, in sensi diversi dai consueti, e con modi non classici78: spesso si ripete e amplifica; e non mai accontentandosi d’una sola espressione, la volge e rivolge in varie guise. Iddio creando,

                    Os homini sublime dedit, cœlumque tueri
                    Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus.

Dedalo al figlio Icaro raccomanda,

                                                                                Polum
               Effugito australem; junctamque aquilonibus arcton;

e simiglianti tautologie incontri ad ogni piè sospinto. Una delle sentenze che più gli ricorrono è il cambiarsi degli amici colla fortuna; potrei riempiere due facciate colle variazioni di quest’unico motivo: e basti questo pezzo delle Triste, P. 1, el. 9, così triviale nel primo, così bello nell’ultimo distico.

               Donec eris felix multos numerabis amicos:
                    Tempora si fuerint nubila, solus eris
               Adspicis ut veniant ad candida tecta columbæ;
                    Accipiat nullas sordida turris aves.
               Horrea formica tendunt ad inania numquam:
                    Nullus ad ammissas ibit amicus opes.
               Utque comes radios per solis euntibus umbra
                    Cum latet hic pressus nubibus, illa fugit,
               Mobile sic sequitur fortunæ lumina vulgus,
                    Qæe simul inducta nube teguntur, abit.

[p. 393 modifica]

Questi cumuli fin di quattro o cinque similitudini ricorrono spesso.

               Tempore difficiles veniunt ad aratra juvenci,
                    Tempore lenta pati frena docentur equi.
               Ferreus assiduo consumitur anulus usu,
                    Interit assidua vomer aduncus humo.
               Quid magis est saxo durum? quid mollius unda?
                    Dura tamen molli saxa cavantur aqua (A. A. II).

               Ales habet quod amet; cum quo sua gaudia jungat
                    Invenit in media fæmina piscis aqua.
               Cerva parem sequitur; serpens serpente tenetur;
                    Hæret adulterio cum cane nexa canis.
               Læta salitur ovis: tauro quoque læta juvenca est;
                    Sustinet immundum sima capella marem.
               In furias agitantur equæ, spatioque remota
               Per loca dividuos omne sequuntur equos (A. A. II, 481).

Altre volte son parallelismi di parole o di cadenze, che stonano viepiù nella passione. Giove dopo il diluvio guarda,

               Et superesse videt de tot modo millibus unum,
               Et superesse videt de tot modo millibus unam.

Biblide, ardendo d’amore pel fratello Cauno, esclama:

               Quam bene, Caune, tuo poteram nurus esse parenti;
               Quam bene, Caune, meo poteras gener esse parenti.

E questo parlare in simetria neppur nell’affetto egli lo evita.

Sminuzza poi in particolarità indiligenti79; le quali viepiù [p. 394 modifica]compajono in un traduttore che incontrò, più prolisso di lui, l’Anguillara; Seneca, il prolisso Seneca, lo rimbrotta di prolissità e critica il diluvio; eppure qualche volta Ovidio affetta di essere conciso, e allora diventa epigrammatico80. Lede perfin la grammatica81: divertesi in giocherelli di parole:

               In precio precium nunc est....
               Cedere jussit aquam, jussa recessit aqua....
               Speque timor dubia, spesque timore cadit....
               Quæ bos ex homine est, ex bove facta dea....

ed è un giocherello tutta la sua descrizione del caos, che pure alcuni ammirano e nell’originale e nella traduzione.

Da quell’affastellamento di mitologia, peggio che in un pastor arcade, non sa sottrarsi neppur nella passione. Le analisi sue non versano che sulla passione più comune, ma neppure in essa non penetra oltre la scorza. Ripetiamo, era un improvvisatore; capiva i falli e la necessità di correggerli, ma poi non vi si sapea risolvere; e purchè riuscisse a farsi leggere, poco gl’importava delle critiche82. Doveva anzi tenerne ben lieve conto, se è vero quel che Seneca il vecchio racconta; gli amici di Ovidio averlo pregato a cancellare tre versi, ch’essi gli additerebbero; ed egli il promise, purchè non fossero certi tre ch’egli prediligeva. Scrissero essi i versi riprovati, scrisse egli gli eccettuati, e si vide che erano gli identici. Due erano:

               Semibovemque virum, semivirumque bovem
               Et gelidum Boream, egelidumque Notum.

[p. 395 modifica]

Confessiamo che aveano ragione gli amici e torto il poeta.

Nessuno vorrà negargli somma facilità, ma che riesce a un’abbondanza trascurata; nel fondo mostra più ingegno che giudizio; e meglio che coll’Ariosto, egli s’appaja col Marini, ricorrendo come lui al genere più facile, le descrizioni. Quanto disti dai veri classici può comprendersi ove si paragonino l’Arianna sua e quella di Catullo, il suo Orfeo e la sua Didone con quelli di Virgilio; e sta lontano da Orazio, Virgilio, Tibullo quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall’Ariosto: ond’è notevole come brevissimo tempo bastasse perchè la letteratura romana passasse da Catullo non ancora dirozzato a Ovidio già corrotto.

Nel Cinquecento severi grammatici lo riprovarono come barbaro; Bartolomeo Ricci lo bruciò, dicendo che i suoi libri, dove non nuociono al costume, non giovano al gusto. Il Voss, il Quadrio l’appuntarono di molti anacronismi, di sbagli di storia, di sconvenienze. A vicenda trovò ammiratori, e Alfonso re di Napoli, accampando coll’esercito presso Sulmona, a questa mostrò grande onoranza come patria di sì gran poeta, soggiungendo rinunzierebbe a parte de’ suoi Stati per far rivivere quest’uomo, la cui memoria gli era più cara che il possesso dell’Abruzzo83. Bayle nel Dizionario, sotto il suo nome accumula materiali al solito, e a proposito del caos, discute se da questo potesse tirarsi l’ordine del mondo; quanto sia assurdo il supporre che la divinità separasse un dall’altro gli elementi, che invece sono destinati a lottar continuo fra loro; e come sovratutto non possa dirsi terminato il caos per la specie umana, condannata a perpetue contraddizioni. Una critica imparzialmente severa soggiunse Clementino Vanetti alla vita scrittane dal cavaliere Carlo Rosmini84.

Particolarità intorno a lui abbiamo quasi da lui solo. Alla nobiltà della sua nascita teneva quanto un aristocratico qualunque, e vantavasi d’esser cavaliere senza aver mai portato le armi, lagnandosi gli si preferisse chi non divenne tale che per merito di valore85. [p. 396 modifica]

Egli riconosceva i difetti de’ proprj scritti, talor se ne vergognava86, eppure credeasi paragonato ai più grandi87, e di sè stesso aveva smisurata stima; vantasi che l’elegia deve a lui quanto l’epopea a Virgilio, che l’opera sua nè per ira di Giove, nè per fuoco o ferro o lunga vetustà verrà meno, e il nome suo, elevato sopra le stelle, rimarrà indelebile dovunque si stenda la possa di Roma88.

E tu, insigne Sulmona, benchè occupi breve spazio, grande sarai chiamata, che potesti sostenere un tanto poeta89.

Alla qual Sulmona ed a’ suoi Peligni tornava spesso col pensiero; v’invitava la sua Corinna ne’ prosperi giorni90; dallo scitico [p. 397 modifica]esiglio la rimpiangeva, rammentando che ne annaffiava le glebe, e vi innestò alberi, da cui non coglierebbe i frutti91.

Sappiamo che un suo amico ne portava l’effigie sopra un anello, ma nessun ritratto autentico ne abbiamo. Nel 1674 si scoperse sulla via Flaminia il sepolcro de’ Nasoni, che fu illustrato dal Belloro. V’avea pitture, in una delle quali si suppose ravvisar il ritratto del nostro Publio, ma Ennio Quirino Visconti lo nega, attesochè la famiglia del poeta era l’Ovidia, non la Nasonia.

Pare vivesse fino al 17 di Cristo. Temeva l’immortalità, perchè lo costringerebbe a vagolare tra le ombre de’ Barbari92. Aveva desiderato che il suo cenere fosse dalla moglie richiamato in patria, e quivi deposto nel prediletto suburbano, scrivendovi: «Qui giacio, Nasone poeta, cantor de’ teneri amori, che perii pel mio ingegno. Pregami pace, o tu chiunque sia che amasti»93. Ma non l’ottenne. Sarà stato sepolto con qualche onore, ma che il suo sepolcro siasi poi trasferito in Polonia od in Sabaria, è favola da relegare colla penna sua d’argento che se ne custodisce in Bulgaria.




  1.                Sulmo mihi patria est
                        Millia qui novies distat ab urbe decem.

    Trist. IV, 10.

                   Hujus erat Solymus phrigia comes unus ab Ida,
                        A quo Sulmonis mœnia nomen habent.

    Fasti, IV, 74.

    Non deve dunque confondersi con Sulmo sull’Ofanto, oggi Sermoneta. È tradizione che la chiesa parrocchiale fosse già un tempio, vicino alla casa del poeta, che ora sarebbe il palazzo Mazara, e che una villa sua campestre fosse fuor di città alle falde del monte Morone presso l’abazia dì Sant’Onofrio de’ Celestini, or ricovero dei projetti, e si vorrebbero indicare colà la fonte ch’egli celebra nella 16 el. del libro II Amori, il laureto, il vivajo. Quel Comune ha nel suo stemma S. M. P. E, iniziali di Sulmo mihi patria est, e le metteva in forma di croce sulle monete, il cui drillo presentava san Pietro Celestino.

  2.                Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo,
                       Pelignæ dicar gloria gentis ego.

    Amor. III, 15.

  3.           Seu genus excutias, equites ab origine prima
                   Usque per innumeros inveniemur avos.

    De Ponto, IV, 9.

                   Sic quoque parva (domus) tamen, patrio dicatur ut ævo
                        Clara, nec ullius nobililate minor.
                   Et neque divitiis, nec paupertate notanda.

    Trist. II.

  4.                Editus hic ego sum; nec non, ut tempora noris,
                        Cum cecidit fato consul uterque pari.

    Trist. IV, 10.

    Fu 711 anni dopo fondata Roma, 43 avanti l’êra cristiana, ai 20 marzo.

  5.                Nec stirps prima fui; genito jam fratre creatus,
                        Qui tribus ante quater mensibus ortus erat.

    Trist. IV, 10.

  6.                Protinus excolimur teneri, curaque parentis,
                        Imus ad insignes urbis ab arte viros.

    Trist.

  7.                Frater ad eloquium viridi tendebat ad ævo,
                        Fortia verbosi natus ad arma fori.
                   At mihi jam puero cœlestia sacra placebant;
                        Inque suum furtim Musa traebat opus.

    Trist.

  8.                Sæpe pater dixit: Studium quid inutile tentas?
                        Mæonides nullas ipse reliquit opes.

    Trist.

  9.                Motus eram dictis; totoque Helicone relicto,
                        Scribere conabar verba soluta modis.
                   Sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos,
                        Et quæ tentabam dicere versus erat.

    Trist.

  10.                     Liberior fratri sumta, mihique toga est,
                   Induiturque humeris cum lato purpura clavo,
                        Et studium nobis quod fuit ante manet.

    Trist.

  11.                Mœnia Dardanides nuper nova fecerat Ilus,
                        Ilus adhuc Asiæ dives habebat opes....
                   Cura videre fuit; vidi templumque, locumque.

    Fasti, VI.

  12.                Te duce (Macro) magnificas Asiæ perspeximus urbes,
                        Trinacris est oculis, te duce, nota meis.
                   Vidimus Ætnea....
                   Hic mihi labentes pars anni magna peracta est.

    De Ponto, II, 10.

  13.                Jamque decem vitæ frater geminaverut annos
                        Cum perit; et cœpi parte carere mei.

    Trist, IV, 10.

  14. Sono cariche criminali.

                   Nec male commissa est nobis fortuna reorum,
                        Lisque decemdecies inspicienda viris.

    Trist. II, 1.

                        Inter bisquinos usus honore viros.

    Fasti, IV.

  15.                Res quoque privatas statui sine crimine judex,
                        Deque mea fassa est pars quoque vieta fide.

    Trist. II.

  16.                Nec patiens corpus, nec mens fuit apta labori,
                        Sollicitæque fugax ambitionis eram.
                   Et petere Aoniæ suadebant tuta favores
                        Otia, judicio semper amata meo.

    Trist. IV, 10.

  17.                Pæne mihi puero nec digna nec utilis uxor
                        Est data, quæ tempus per breve nupta fuit....
                   Illi successit, quamvis sine crimine, conjux,
                        Non tamen in nostro firma futura toro....
                   Ultima quæ mecum seros permansit in annos
                        Sustinuit conjux exulis esse viri.

    Trist. IV, 10.

  18.                Est mihi (sitque precor nostris diuturnior annis)
                        Filia, qua felix sospite semper ero.

    Fasti, IV

  19.                Filia bis prima mea me fecunda juventa,
                        Sed non ex una conjuge fecit avum.

    Trist. I, 3.

  20.                Sæpe suos volucres legit mihi grandior ævo
                        Quæque nocet serpens, quæ juvet herba Macer.
                   Sæpe suos solitus recitare Propertius ignes,
                   Et tenuit nostros numerosus Horatius aures.
                   Virgilium vidi tantum; nec avara Tibullo
                        Tempus amicitiæ fata dedere meæ.

    Trist. IV, 10.

    È nota la bella elegia di Ovidio in morte di Tibullo.

                   Carmina fecerunt ut me cognoscere vellent
                        Omine non fausto fœmina virque meo.

    Trist. II, 3.

    A Fabio Massimo scrive:

                   Ille ego sum....
                   Cujus te solitum memini laudare libellos,
                        Exceptis domino qui nocuere suo

    De Ponto, II, 2.

    E spessissimo parla de’ Fabj. A Cotta scrive:

                   Ecquibus ubi aut recitas factum modo Carmen amicis
                        Aut quod sæpe soles exigis ut recitent.

    De Ponto, III, 5.

  21.                Moverat igenium totam cantata per urbem
                        Nomine non vero dicta Corinna mihi.

    Trist. IV, 10.

  22.                Cum Thebæ, cum Troja forent, cum Cæsaris acta,
                        Ingenium movit sola Corinna meum.

    Amor. III, 12.

  23.                Novi aliquam, quæ se circumferat esse Corinnam,
                        Et multæ per me nomen habere volunt.

    Amor. II, 18.


                        Et multi quæ sit nostra Corinna rogant.

    Ars Am. III.

  24.                     Vicimus; in nostro est ecce Corinna sinu.
                   Quam vir, quam custos, quam janua firma, tot hostes
                        Servabant.

    Amor. II, 12.

  25.                Quid mihi cum facili, quid cum lenone marito?
                        Corrumpis vitio gaudia nostra tuo.
                   Quin alium quem tanta juvet patientia quæris?
                        Me tibi rivalem si juvat esse, vita.

    Amor. II, 19

  26.                Quæ modo dicta mea est, quam cœpi solus amare,
                        Cum multis vereor ne sit habenda mihi.

    Amor. III, 12.

  27.                Caussa fuit multis noster amoris amor.

    Amor. III, 11.

                        Ingenio prostitit illa meo,
                        Vendibilis culpa facta puella mea est.
                   Me lenone placet; duce me productus amator,
                        Janua per nostras est adaperta manus.

    Amor. III, 12.

  28.                     Aversor morum crimina, corpus amo.
                   Aut formosa fores minus, aut minus improba vellem;
                        Non facit ad mores tam bona fama malos.

    Amor, III, 11.

  29.                Sic ego nec sine te, nec tecum vivere possum.

    Amor. III, 13.

  30. Amor. III, 14.
  31.                Accipe per longos tibi qui deserviat annos,
                        Accipe qui pura novit amare fide.

    Amor. I, 3.

  32.                Confiteor, si quid prodest delieta fateri....
                   Odi, nec possum cupiens non esse quod odi.

    Amor, II, 4.

  33.                     Scis.... non me legitimos sollicitasse thoros.

    De Ponto, III, 3.

                        Nomine sub nostro fabula nulla fuit.

    Amor. IV, 10, Ars Amor. III, Amor. II, 10 e passim.

  34.          Redite depositum....
                        Vacuas cædis habete manus.
                   Ludite, si sapitis, solas impune puellas....
                   Fallite fallentes.

    Ars Amor. I.

  35.                Crede mihi, mores distant a Carmine nostri,
                        Vita verecunda est, musa jocosa mihi.

    Trist. II.

  36.                     Elige cui dicas, Tu mihi sola places.

  37.                Non peccat quæcumque potest peccasse negare.

  38.                Rusticus est nimium quem lælit adultera conjux,
                        Et notos mores non satis urbis habet,
                   In qua Martigenæ non sunt sine crimine nati
                        Romulus iliades, iliadesque Remus.

  39.                .... Spectatum veniunt spectentur ut ipsæ.

  40.                Non ego divitibus venio præceptor amoris;
                        Nil opus est illi, qui dabit, arte mea.

  41.                Lis decet uxores; dos est uxoria lites.

  42.                Sunt qui mendaci specie grassentur amoris,
                        Perque aditus tales lucra pudenda petant.
                   Nec coma vos fallat, liquido nitidissima nardo,
                        Nec brevis in rugas cingula pressa suas;
                   Nec toga decipiat filo tenuissima, nec si
                        Annulus in digitis alter et alter erit.
                   Forsitan ex horum numero cultissimus ille,
                        Fur sit, et uritur vestis amore tuæ.

    Marziale ha più d’un epigramma contro i parassiti che a tavola rubavano il tovagliuolo del vicino: «Attulerat mappam nemo, dum furta timentur».

  43.                Nam citius paterer caput hoc discedere collo.

  44.                Felix qui potuit rerum cognoscere causas,
                   Atque metus omnes et inexorabile fatum
                   Subjecit pedibus, strepitumque Acherontis averni.

    Georg. II, 490.

                   Pone merum et talos: pereant qui crastina curant!
                        Mors, aurem vellens, Vivite, ait: venio.

    Catalecta.

  45.                En iterum testor, nihil nisi lege remissum
                        Luditur in nostris instita nulla jocis....
                   Dum facit ingenium, petite hinc præcepta, puellæ,
                        Quas pudor et leges et sua jura sinunt,
                   Sed quoniam, quamvis vittæ careatis honore,
                        Est vobis vestros fallere cura viros.

    Ars Am. II e III.


                   Thais in arte mea; lascivia libera nostra est;
                        Nil mihi cum vitta; Thais in arte mea est.

    De Rem.


                   Scripsimus hæc istis, quorum nec vitta pudicos
                        Contingit crines, nec stola longa pedes.

    De Ponto, III, "3.

  46.                Par animæ quoque forma respondet in illa;
                        Et genus et facies, ingeniumque simul.

    Fasti, VI.

  47.                Nam tibi cum facie mores natura pudicos
                        Et raras dotes ingeniumque dedit.

    Trist. III, 7.


                   Aut illam invenies dulci cum matre sedentem,
                        Aut inter libros, Pieridasque suas.
                   Primus id (ingenium) aspexi teneris in virginis annis,
                        Utque patet, venæ duxque comesque fui....
                   Ergo si remanent igne tibi pectoris idem,
                        Sola tuum vates Lesbia vincet opus....
                   Dum licuit, tua sæpe mihi, tibi nostra legebam,
                        Sæpe tui judex, sæpe magister eram.

    Trist. III, 7.

  48.                Eloquar invitus: leneros ne tange poetas.
                   Callimachum fugito: non est inimicus ameri;
                        Et cum Callimacho tu quoque, Coe, noces.
                   Me certe Sappho meliorem fecit amicæ,
                        Nec rigidos mores theia musa dedit.
                   Carmina quis potuit tute legisse Tibulli,
                        Vel sua cujus opus Cynthia sola fuit?
                   Quis potuit lecto durus discedere Gallo?
                        Et mea nescio quid carmina dulce sonant.

  49.                          Ignotum hoc aliis ille novavit opus.

    Ars Am. III.

  50. Nel libro V Tristium el. 7, scrive:

                   Carmina quod pieno saltari nostra theatro
                        Versibus, et plaudi scribis, amice, meis,
                   Nil equidem feci, tu scis hoc ipse, theatris;
                        Musa nec in plausus ambitiosa mea est.

    Pare da intendere che i suoi versi si leggessero in teatro, benchè nulla avesse scritto pel teatro.

  51.                Inspice majus opus, quod adhuc sine fine reliqui,
                        In non credendos corpora versa modos....
                   Dictaque sunt nobis, quamvis manus ultima cœpto
                        Defuit, in facies corpora versa novos.

    Trist. II.

                   Carmina mutatas hominum docentia formas
                        Infelix domini quod fuga rupit opus,
                   Hæc ego discedens, sicut bene multa meorum,
                        Ipse mea posui mestus in igne manu.
                   Vel quod eram Musas ut crimina nostra perosus,
                        Vel quod adhuc crescens et rude Carmen erat.

    Trist. I, 7, e vedi Am. I, 7.

  52.                Nec mea decreto damnasti facta senatus,
                        Nec mea selecto judice jussa fuga est....
                   Adde quod edictum, quamvis immane minaxque,
                        Attamen in pœnæ nomine lene fuit.
                   Quippe relegatus, non exul dicor in illo,
                        Parcaque fortunæ sunt data verba meæ.

    Trist. II.

                        Nec mihi jus civis, noc mihi nomen abest.

    Trist. V, 2.

  53.                Carminaquo edideram, cum te delicta notantem
                        Præterii toties jure quietus eques.
                   Ergo quæ juveni mihi non nocitura putavi,
                        Scripta parum prudens, nunc nocuere seni?

    Trist. II.

                   At memini, vitamque meam moresque probabas
                        Illo quem dederas prætereuntis equo.

  54.                Caussa meæ cunctis nimium quoque nota ruinæ
                        Judicio non est testificanda mihi

    Trist. IV, 10.

  55.                Vive tibi, quantumque potes, prælustria vita,
                        Sævum prælustri fulmen ab arce venit....
                   Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem,
                        In qua debueram forsitan urbe forem.

    Trist. III, 4.

                   Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam
                        Excepto quod me perdidit, unus eras
                   Id quoque si scisses, salvo fruerere sodali.

    Trist. III, 6.

                   Scit quoque cum perii quis me deceperit error,
                        Et culpam in facto, non scelus esse meo.

    Trist. IV, 1.

                   Nil igitur referam nisi me peccasse, sed illo
                        Præmia peccato nulla petita mihi.

    Trist. IV, 10.

                        Stultaque mens nobis, non scelerata fuit.

    Trist. I, 2.

                   Aut timor aut error; nobis prius obfuit error.

    Trist. IV, 4.

                   Non equidem totam possim defendere culpam,
                        Sed partem nostri criminis error habet.

    Trist. III, 5

  56.                Litera quæcumque est toto tibi lecta libello,
                        Est mihi sollicitæ tempore facta viæ....
                   Quod facerem versus inter fera murmura ponti
                        Cycladas Ægeas obstupuisse puto.
                   Ipse ego nunc miror, tantis animique marisque
                        Fluctibus, ingenium non cecidisse meum.

    Trist. I ultim.

  57.                At mihi contingat Veneris languescere motu
                        Cum moriar, medium solvar et inter opus.
                   Atque aliquis nostro lacrymans in funere, dicat:
                        Conveniens vitæ mors fuit ista suæ.

    Amor. II, 10.

  58.                     Vita verecunda est, musa jocosa mihi
                   Magnaque pars operum mendax et ficta meorum
                        Plus sibi permisit compositore suo.
                   Nec liber indicium est animi, sed honesta voluptas
                        Plurima mulcendis auribus apta ferens.

    Trist. IV, 347.

  59.                Solus ad egressus missus settemplicis Istri.

    Trist. II.

                   Vita procul patria peragenda sub axe Boreo,
                        Qua maris Euxini terra sinistra jacet.

    Trist. IV, 8.

                   Hic quoque sunt igitur grajæ, quis crederet? urbes,
                        Inter inhumanæ nomina barbariæ.
                   Huc quoque Mileto missi venere coloni,
                        Inque Getis grajas constituere domus.

    Trist. III, 9.

  60.                     Frigor perpetuo sarmatis ora riget

    De Ponto, II, 7.

                   Nix jacet, et jactam nec sol pluviæque resolvunt,
                        Indurat boreas perpetuamque facit....
                   Tantaque commoti vis est aquilonis, ut altus
                        Æquet humo turres, tectaque rapta ferat....
                   Vidimus ingentem glacie consistere Pontum....
                   Udaque consistunt formam servantia testæ
                        Vina; nec hausta meri, sed data frusta bibunt....
                   Quaque rates inerant, pedibus nunc itur, et undas
                        Frigore concretas ungula pulsat equi.

  61.                Aspera militiæ juvenis certamina fugi,
                        Nec nisi lusura movimus arma manu.
                   Nunc senior gladioque latus, scutoque sinistram,
                        Canitiem galeæ subjicioque meam.

    Trist. IV, 1.

  62.                In paucis remanent grajæ vestigia linguæ,
                        Hæc quoque jam getico barbara facta sono.
                        .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
                        Per gestum res est significanda mihi.
                        .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
                   Ullus in hoc vix est populo qui forte latine
                        Quælibet e media reddere verba queat.
                             Barbarus hic ego sum, qui non intelligor illis,
                        Et rident stolidi verba latina Getæ.

    Trist. V, 7, 10.

  63.                Nullus in hac terra, recitem si carmina, cujus
                        Intellecturis auribus utar, adest.

  64. Fa dire dal suo libro:

                   Quæque viri docto veteres cepere novique
                        Pectore lecturis inspicienda patent,
                   Quærebam fratres, exceptis scilicet illis
                        Quos suus optaret non genuisse parens.
                   Quærentem frustra custos me sedibus illis
                        Præpositus sancto jussit abire loco.

    Trist. III, 1.

                   Inspice dic titulum; non sum præceptor amoris:
                        Quas meruit pœnas jam dedit illud opus.

    Trist. I, 1.

    Da questi ultimi versi desumo fossero stati bruciati.

  65.                Sed quid solus agam? quaque infelicia perdam
                        Otia materia, surripiamque diem?
                   Nam neque me vinum, nec me tenet allea fallax,
                        Per quæ clara tacitum tempus abire solet.

    De Ponto, IV, 2.

  66.                Hic ego, finitimis quamvis circumsoner armis
                        Tristia, quo possum, carmine fata levo.
                   Quod quamvis nemo est cujus referatur ad aures,
                        Sic tamen absumo, decipioque diem.
                   Ergo quod vivo, durisque laboribus obsto
                        Nec me sollicitæ tædia lucis habent,
                   Gratia, Musa, tibi. Nam tu solatia præbes,
                        Tu curæ requies, tu medicina venis,
                   Tu dux, tu comes es; tu nos abducis ab Istro,
                        In medioque mihi das Helicone locum....
                   Non liber hic ullus, non qui mihi commodet aurem,
                        Verbaque significent quid mea norit adest.
                   Omnia barbariæ loca sunt, vocisque ferinæ:
                        Omnia sunt getici piena timore soni.

    Trist, IV, 10, 12.

  67.                Magna quidem res est quam non audetis, amici,
                        Sed si quis peteret, qui dare vellet erat.

    De Ponto, III, 7.

  68.                Ah pudet, et getico scripsi sermone libellum

  69.                His ego do toties cum thure precantia verba
                        Eoo quoties surgit ab orbe dies.

    De Ponto, IV, 9.

  70.                Hæc ubi non patria perlegi scripta Camæna,
                        Venit et ad digitos ultima charta meos.
                   Et caput, et plenas omnes movere pharetras,
                        Et longum getico marmur in ore fuit.
                                            Extant decreta, quibus nos
                        Laudat, et immunes publica cera facit.
                   Tempora sacrata mea sunt velata corona,
                        Publicus invito quam favor imposuit.

    De Ponto, IV, 9, 13, 14.

  71.                Quam grata est igitur Latonæ Delia tellus,
                        Tam mihi cara Tomis.
                   Gens mea Peligni, regioque domestica Sulmo
                        Non potuit nostris lenior esse malis.

    De Ponto, IV, 14.

  72.                Non ego mordaci distrinxi Carmine quemquam,
                        Nec meus ullius crimina versus habet.
                   Candidus a salibus suffusis felle refugi,
                        Nulla venenato litera mista joco est.
                   Inter tot populi, tot scripti millia nostri
                        Quem mea Calliope læserit, unus ero.

    Trist. VI, 563.

  73.                Expedit esse Deos, et ut expedit esse putamus.

    Ars Am. I.

  74. Se lo propone fin dal principio:

                                            Di, cœptis
                   Aspirate meis, primaque ab origine mundi
                   Ad mea perpetuum deducite tempora carmen.

  75.                Prisca juvent alios: ego me nunc denique natum
                        Gratulor: hæc etas moribus apta meis.

    A. A. III, 121.

  76.                Omne solum forti patria est, ut piscibus æquor,
                        Ut volucri vacuo quiquid in orbe patet.

    Fasti, 1.

  77.                Nescio qua natale solum dulcedine capit, ecc.

  78.                Non eadem ratio est sentire et demere morbos.
                   Sæpe aliquod verbum cupiens mutare, relinquo,
                        Judicium vires destituuntque meum.
                   Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)
                        Corrigere, et longi ferre laboris onus....
                   Scribentem juvat ipse favor, minuitque laborem,
                        Cumque suo crescens pectore fervet opus.
                   Corrigere at refert tanto magis ardua, quanto
                        Magnus Aristarcho major Homerus erat.
                   Sic animum lento curarum frigore lædit
                        Et cupidi si quis frena retentat equi.

    De Ponto, III, 9.

  79. Giove va ad alloggiare presso Bauci e Filemone, Il vecchio prepara la menta:

                        Furca levat ille bicorni
                        Sordida terga suis, nigro pendentia tigno:
                        Servatoque diu resecat de tergore partem
                        Exiguam, sectamque domat ferventibus undis.
                        .   .   .   .   .   Mensæ sed erat pes tertius impar;
                        Testa parem facit: quæ postquam subdita, clivum
                        Substulit, etc.

    Met. VIII, 630.

    Queste minuzie da scuola fiamminga disabbelliscono spesso i suoi quadri migliori. Parlando del diluvio, canta:

                        Expatiata ruunt per apertos flumina campos,
                        .   .   .   Pressæque labant sub gurgite turres,
                        Omnia pontus erat, deerant quoque litora ponto.

    Fin qui è bello; ma poi cala a particolarità oziose e quindi nocevoli:

                        Nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones;

    quasi nell’universale subbisso importi quel che facciano agnelli o leoni.

  80. Flora dice:

                        Ver erat: errabam. Zephirus conspexit: abibam;
                             Insequitur: fugio; fortior ille fuit.

    Fasti, II

    Di Ilia:

         Mars videt hanc, visamque cupit, potiturque cupitam.

    Fasti. II


    Narciso,

    Rem sine corpore amat; corpus putat esse quod umbra est.

  81. Egli stesso si rimprovera di questo verso:

                        Tum didici getice sarmaticeque loqui.

    Una volta nel verso non accomodandogli mori, disse;

                        At strepitum, mortemque timens, cupidusque moriri.

    Altrove leggiamo:

                   Denique quisquis erat castris jugulatus achivis,
                        Frigidius glacie pectus amantis erat.

    A chi appartiene il quisquis?

  82.                Dummodo sic placeam, dum toto canar in orbe,
                        Quod volet impugnent unus et alter opus.

    Rem. Am. 363.

  83. Jov. Pontanus de principe, fol. 54 dell’edizione di Firenze, 1520.
  84. Vita d’Ovidio di Carlo Rosmini. Milano 1821, vol. 2.
    Vedi anche Amar et Barbier, Notice litteraire sur les èditions et traductions d’Ovide.
  85.                Aspera militiæ juvenis certamina fugi....
                        Præferitur nobis sanguine factus eques,
                        Fortunæ munere factus eques,
                        Militiæ turbine factus eques.

  86.                Ipse ego librorum video delicta meorum,
                        Cum sua plus justo carmina quisque probet.

    De Ponto, I, 2.

                   Cum relego, scripsisse pudet, quia plurima cerno
                        Me quoque, qui feci, judice, digna lini.

    De Ponto.

  87.                Nam tulerint magnos quum sæcula nostra poetas,
                        Non fuit ingenio fama maligna meo.
                   Quumque ego præponam multos mihi, non minor illis
                   Dicar, et in toto plurimus orbe legor.

    Trist. IV, 10.

  88.                Tantum se nobis elegi debere fatentur
                        Quantum Virgilio nobile debet epos.

    Rem. Am.

                        Jamque opus exegi, quod nec Jovis ira, nec ignis,
                        Nec poterit ferrum, nec edax abolere vetustas.
                        Cum volet illa dies, quæ nil nisi corporis hujus
                        Jus habet, incerti spatium mihi finiat ævi,
                        Parte tamen meliore mei super alta perennis
                        Astra gerar, nomenque erit indelebile nostrum,
                        Quoque patet domitis romana potentia terris
                        Ore legar populi: perque omnia sæcula fama,
                        Si quid habent veri vatum præsagia, vivam.

    Metam. XV.

  89.                Atque aliquis spectans hospes Sulmonis aquosi
                        Mœnia, quæ campi jugera pauca tenent,
                   Quæ tantum, dicet, potuisti ferre poetam,
                        Quantalucumque estis, vos ego magna voco.

    Amor. IV, 15.

  90.                Pars me Sulmo tenet, Peligni tertia ruris
                        Parva sed irriguis ora salubris aquis....
                   Nec ego Pelignos videor celebrare salubres....
                        Incipe pollicitis addere facta tuis,
                   Parvaque quam primum rapientibus esseda mannis
                        Ipsa per admissas concuto lora jubas.

    Amor. III, 16.

  91.                Non meus amissos animus desiderat agros,
                        Ruraque peligno conspicienda solo,
                   Quos ego nescio cui colui, quibus ipse solebam
                        Ad sata fontanas, nec pudet, addere aquas.
                   Sunt ibi, si vivunt, nostra quoque consita quædam
                        Sed non et nostra poma legenda manu.

    De Ponto, I, 8.

  92.                Atque utinam pereant animæ cum corpore nostræ,
                        Effugiatque avidos pars mea nulla rogos.
                   Nam, si morte carens, vacuas volat altus in auras
                        Spiritus, et samii sunt rata dicta senis,
                   Inter sarmaticas romana vagabitur umbras
                        Perque feros manes hospita semper erit.

    Trist. III, 3.

  93.                Ossa tamen facito parva referantur in urna,
                        Sic ego non etiam mortuus exul ero....
                   Hic ego qui jaceo, tenerorum lusor amorum,
                        Ingenio perii Naso poeta meo.
                   At tibi qui transis ne sit grave, quisquis amasti,
                        Dicere: Nasonis molliter ossa cubent.

    Trist. III, 3.