L'Antiteatro/II. Che cosa è il film
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II.
CHE COSA È IL FILM
Per molta parte del grosso pubblico, e purtroppo anche per qualche scrittore di scenari, il film, nome dato per estensione allo spettacolo cinematografico, non è che un racconto illustrato per mezzo di immagini. Tra un romanzo illustrato da un disegnatore e un film non vi sarebbe in fondo altra differenza che nel numero delle immagini e nel fatto che esse sono in movimento.
Questo l'errore gravissimo, e non ancora scomparso completamente, per il fatto che molti soggetti sono stati tratti da romanzi, in cui spesso cose più importanti del racconto sono le riflessioni psicologiche, che nella proiezione cinematografica diventano titoli o didascalie. Il cinema è invece, e non deve essere altro, che una rappresentazione, un racconto fatto quasi completamente per via di immagini, nel quale non bisogna dire mai con parole quello che si può far capire con gesti o azioni. Così, quando Charlot nella «Febbre dell'Oro», raccoglie il ritratto della canzonettista di cui è pazzamente innamorato, e accortosi di essere osservato, finge l'indifferenza e reprime la gioia che lo invade, mostra, più che non farebbero tutte le espressioni verbali possibili, la profondità e l'intensità del suo sentimento.
Non che i titoli, come crede qualcuno, siano inutili ed in un film ideale debbano essere tutti soppressi. Molti hanno un valore per così dire tipografico. Servono come i titoli o i sottotitoli de' capitoli di un libro a dividere i gruppi di scene o a segnare delle pause nella proiezione. Altri, consistenti in battute di dialogo, illuminano delle situazioni drammatiche che resterebbero oscure ed angosciose come in certe pantomime musicali. Devono tuttavia questi titoli essere essenziali e imperiosamente richiesti dalla situazione.
Un'altra particolarità del film è la successione cronologica degli avvenimenti, Nel poema o nel romanzo, dall' Odissea in poi, è caratteristico l'«antefatto», vale a dire il racconto degli avvenimenti che precedono ciò che forma la favola del romanzo propriamente detto.
Ora questo antefatto, che, intercalato nell'azione principale e contenuto spesso in qualche pagina, non turba l'economia del romanzo, restando sempre in secondo piano, rappresentato, per il fatto che tutto ciò che si vede diventa presente, turba l'economia generale del film.
La successione cronologica degli avvenimenti, che non è sembrata cosa importante agli scrittori di films europei i quali ci hanno afflitto di dissolvenze (visioni del passato intercalate nell'azione principale) è stata subito capita dagli Americani, liberi da pregiudizi letterari. I quali hanno nella loro organizzazione il «continuity-writer», vale a dire colui che, dopo aver letto il romanzo che dev'essere ridotto a film, rimette al direttore uno scenario in cui la trama si svolge secondo l'ordine di idee logico e cronologico. Perchè il cinema, se gode rispetto al teatro di una sconfinata libertà di luogo e di azione, deve sottostare invece non ad una «unità», ma «continuità» di tempo.
Da quanto si è detto si capisce come non tutti i romanzi si prestino ad essere riprodotti in film, a meno di non subire delle trasformazioni radicali. Una riprova di questa necessità è nei due films tratti dal romanzo «I Tre Moschettieri» di A. Dumas. Nel primo, in cinque serie, sceneggiato dal francese Diamant-Berger, la trama del romanzo è seguita fedelmente in tutti i suoi episodi, nell'altro è trattata liberamente. Orbene quest'ultimo film non solo è più cinematografico del primo, ma è più vicino allo spirito cavalleresco che anima il romanzo originale.
Rilevate le divergenze tra il film e il romanzo, occorre rilevare quelle fra il teatro e il cinema, poichè sulla tecnica teatrale il cinematografo ha cominciato a modellarsi ai suoi inizi.
Il teatro, generato come è dalla lirica, è verbale e statico, e tende al movimento esteriore, il che costituisce la teatralità. Le tragedie di Eschilo sono delle tragedie immobili, in cui cioè l'azione materiale accade al di fuori della scena, e in cui la rappresentazione stessa è un elemento secondario rispetto alla musica e alla poesia. Il cinema è visivo e dinamico e tende col movimento esteriore a costituire una specie di lirismo interiore, lirismo che si traduce spesso nelle battute di dialogo o sulle didascalie.
Sono, come si vede, due arti essenzialmente opposte, di cui l'una va dall'interno all'esterno, l'altra dall'esterno all'interno, e in cui il punto di contatto, vale a dire la rappresentazione scenica, è puramente illusorio.
Perchè il cinema non tanto si vale di una successione rapida di scene, rapidità che è potenziale nel teatro di Shakespeare e che sotto l'influenza del cinema si è ottenuta in qualche teatro, quanto di una successione di particolari dello stesso quadro ingranditi, e in tal modo segnati alla attenzione dello spettatore, mediante quel procedimento che se non è stato inventato è stato messo largamente in pratica e sfruttato psicologicamente dal direttore di scena americano David Griffith, ed è detto primo piano. Si può dire anzi che la tecnica cinematografica è nata il giorno che è stato inventato il primo piano. Per mezzo di esso il direttore di scena sottopone all'attenzione dello spettatore (e in questo è l'opera personale di creazione) la parte che crede letteralmente mettere in luce di una data scena, di una data azione, illuminandola come con una lanterna cieca.
Oltre al primo piano, che è la principale caratteristica della tecnica cinematografica, si debbono considerare tuttavia altri procedimenti caratteristici.
La chiusura o apertura ad iride fa sì che una scena appaia gradatamente, allargandosi il campo dal centro alla periferia, o scompaia, restringendosi il campo in modo contrario. Ciò può servire a chiudere come in una parentesi un gruppo di scene o anche a concentrare l'attenzione dello spettatore sulla parte centrale del quadro.
Il cosidetto fondu o dissolvenza, vale a dire l'annebbiamento graduale della visione, serve o a chiudere una scena o a legare una scena a quella seguente senza alcuna transizione.
Il flou, vale a dire la sfocatura delle immagini, è adoperata per rendere sensazioni vaghe o angosciose o anche per dei paesaggi notturni in cui l'assenza di luce rende vaghi i contorni. Di questo procedimento si è valso con un grande effetto drammatico il Griffith nel «Giglio Infranto».
Un procedimento analogo è la deformazione, ottenuta per mezzo di specchi, concavi o convessi, utilizzata dal direttore di scena Marcel l'Herbier nel film L'Eldorado e, prima che dell'Herbier, presentita e realizzata nel 1913 da A. G. Bragaglia nelle sue impressioni fotodinamiche.
La sovrimpressione», come dice la parola, è l'impressione di una immagine su di un quadro già impressionato, effetto che si ottiene fotografando la seconda immagine su di un fondo nero, in modo che essa sola diventi visibile e come fosforescente nel campo della scena impressionata. Questo procedimento serve ad ottenere le visioni fantasmagoriche ed è stato sfruttato in tutta la sua portata nel film svedese intitolato «La Carretta Fantasma», in cui una carretta fantasma si vede compiere un viaggio attraverso scene e paesaggi reali.
Oltre questi procedimenti normali vi sono poi gli innumerevoli trucchi. I più comuni sono ottenuti con l'impiego di maschere, che permettono di impressionare sullo stesso campo due azioni differenti, o un elemento reale ed uno artificiale. Con questo procedimento si è ottenuto per esempio nel famoso film «I dieci Comandamenti» la separazione delle acque del Mar Rosso e il passaggio degli Israeliti sul fondo del mare. Il mare, che è realmente visibile nel fondo, dà un singolare effetto di verità alla scena «girata» nel teatro di posa, nella quale scena l'effetto delle acque che si ritirano è realizzato proiettando in senso inverso il quadro in cui le onde invadono il passaggio che devono attraversare gli Ebrei.
Come si vede, è possibile realizzare facilmente sullo schermo non solo la materia del più libero e ardito poema drammatico, ma le tendenze più avanzate della pittura contemporanea: il dinamismo plastico e la compenetrazione dei piani della pittura futurista. Anche perchè accade che mentre a teatro le cose più ideali si materializzano, sullo schermo le cose più materiali si spiritualizzano.
Ma quando si sono messi in luce tutti gli elementi della tecnica cinematografica, non si è accennato ad un elemento ordinatore, il quale è il ritmo: un ritmo tuttavia «sui generis» che si svolge nel tempo e nello spazio e che per questo potremmo chiamare visivo.
La rapidità della rappresentazione è costituita non da movimenti più o meno rapidi degli attori, ma dalla durata maggiore o minore delle inquadrature sullo schermo. Più le inquadrature si alternano frequentemente, più rapida sembra che proceda l'azione. Più i particolari si succedono frequenti, più concitata diventa la scena. Infine più una inquadratura torna sullo schermo, più essa diventa importante, come diventa importante un motivo musicale ripreso più frequentemente in una composizione orchestrale.
Ma l'analogia con la musica è in qualche cosa di più preciso. Uno scenario deve avere una durata presumibilmente uguale fra le parti, non diversa da quella che si osserva fra i diversi tempi di una sinfonia. Un dramma può avere un ultimo atto brevissimo rispetto agli altri e la proporzione è mantenuta dagli elementi ideali, che possono essere per compenso più importanti che negli altri. Un'ultima parte di un film, quale essa sia, non può avere per ragioni di euritmia una lunghezza notevolmente superiore a quella delle altre parti, senza generare nello spettatore un senso di squilibrio.
Caravaggio: S. Girolamo (Gall. Borghese - fot. Alinari)
Caravaggio: Vocazione di S. Matteo (Roma, S. Luigi de' Francesi - Fot. Alinari)

REMBRANDT: Il filosofo in meditazione (Louvre).Seconda inquadratura
(Semplificazione degli elementi scenici, dovuta al chiaro scuro, in due “inquadrature„ dello stesso soggetto).