L'Isottèo/Cantata di calen d'aprile

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Cantata di calen d'aprile

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Sonetto di calen d'aprile Ballata delle donne sul fiume

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V.

CANTATA DI CALEN D’APRILE,

COMPOSTA IN ONOR D’ISAOTTA.




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Amore in mezzo a questo ballo stia
E chi gli è servo, intorno,
E se alcuno ha sospetto o gelosia,
Non faccia qui soggiorno;
Se non, farebbe storno;
Ognun ci s’innamori,
O esca fuori del loco tanto ornato.


LORENZO DE’ MEDICI.



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AGVNT ET CANTANT:


Salabaetto Verdespina
Vannozzo Altea dalle tre Gore
Ippolito La Diambra
Coro dei Giovini Coro delle Giovani


La scena è in un orto vasto, arborato e rigato d’acque, e ad austro limitato da un fiume sinuoso. I cantatori stanno su la cima di un monticello, il quale è nel mezzo dell’orto, tutto coperto dalli arcipressi e dalli allori, come nel dialogo del Firenzuola. Interrompono il verde alquanti aranci vivi, carichi di frutti straordinariamente numerosi, de’ vecchi e de’ nuovi frutti e de’ fiori ancora.

I paoni, taluni bianchi, posano su’ più alti rami.

Le donne e gli innamorati, in attitudini di grazia, si compongon da principio intorno a Salabaetto, che canta accompagnandosi dolcemente con un ribechino.

Nel corso delle canzoni e de’ cori alterni, le due schiere si aprono, si chiudono, si mescono, si atteggiano in varia guisa; ma seguendo nei moti quasi un ritmo di danza.




Salabaetto, cantando:


Aprile, il damigello,
mette suoi lieti bandi:
— Ogni bella inghirlandi
un amador novello. —

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Porta in su ’l giustacuore
verde una rosa bianca.
Con atto di signore,
tiene il pugno in su l’anca.
In su la spalla manca
gli posa un vago augello.

Un turcasso gli pende
alli omeri sonoro;
a tratti a tratti splende
poi ch’è tutto d’avòro.
Ha buona punta d’oro
ed ali ogni quadrello.

È il giovine un gagliardo
arciere, o Verdespina.
Ferita di tal dardo
è ferita divina.
Ei rapì l’arme fina
ad Amor tirannello.

Vien con gentile ardire
questo de’ Vènti figlio,
come un giovine sire
torna da lungo esiglio.
Leva piano un bisbiglio
da presso ogni arboscello.

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I cespi rifiorenti
stretta gli fan la via.
Forse, con occhi intenti,
una ninfa lo spia.
Suonano in compagnia
l’arbore ed il ruscello.

Vien con sicuro passo
il banditor per li orti:
gli tintinna il turcasso
in su li omeri forti.
E pur da’ tronchi morti
rompe qualche ramello.

Udite. Il banditore
gitta suoi lieti bandi.
O messaggio d’Amore,
April, che ne comandi?
— Ogni bella inghirlandi
un amador novello.


Coro dei Giovini.

Ogni bella inghirlandi
de le braccia il suo vago.
Ne l’ombra il verde Mago
crea giacigli alti e grandi.

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Coro delle Giovani.

Scendiamo su ’l dolce lido
ove Diana giacque.

Coro I.

Men rapide son l’acque
che il desir vostro infido.

Coro II.

Piegare d’erba è lieve
men che dolor d’amante.

Coro I.

Bevon l’acqua le piante;
cuor di donna oblío beve.

Coro II.

Amor d’uomo troppo vuole.

Coro I.

Amor di donna è infido.

I due Cori.

Scendiam su ’l dolce lido
a cui s’inchina il Sole.

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Vannozzo, cantando:

O Sole, i tuoi corsieri
van con narici ardenti
respirando i gran venti.
Come bianchi e leggeri!

Lor rilascia in su ’l collo
tutte le briglie, e sosta.
Pascan quieti, o Apollo,
giù per la rossa costa
cui vigila composta
la notte in suoi misteri.

L’Ora del giorno estrema
vieni a’ cavalli stanchi.
Ben a lor, senza tema,
palpa li ansanti fianchi.
La guatan, fra i crin bianchi,
da li occhi umidi e neri.

Di sue lusinghe l’Ora
cinge li alati mostri.
Indugian quelli ancora
lungo i vermigli chiostri.
Su, gioite, o amor nostri!
Fiorite, aurei verzieri!

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Aprite i freschi rivi,
tutti, o poeti amanti!
I beni fuggitivi,
i fiori, i frutti, e i canti
numerosi, e in stellanti
prata i balli, e i vin mèri,

e in lucidi oricanni
l’acque e l’essenzie rare,
e i preziosi panni
che vengon d’oltremare,
e i sogni seguitare
da morbidi origlieri,

quanti, o poeti, sono
i fuggitivi beni
celebrar con gran suono
giova e con versi pieni.
S’aprano a’ ciel sereni,
come rose, i pensieri!

Apresi in fiamma, come
una rosa, il mio cuore.
Vien nel canto il tuo nome,
Altea da le tre Gore.
O Sole, a farle onore,
arresta i tuoi corsieri!

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Coro dei Giovini.

Ei fugge. Il sir non ode.
Lo chiami? Egli è lontano.
Tenerlo è disío vano.
Lodarlo è vana lode.
Uom saggio è sol chi gode.

Coro delle Giovani.

Seguono i Vènti il sire;
che versano da l’ale
un suon limpido eguale
come da lunghe lire.
È dolce cosa udire.

Coro I.

Dolce, ma sotto i vasti
alberi che un’iddia
già tenne in signoria
d’amore, a’ giorni fasti.

Coro II.

Tu, Delia, con men casti
occhi, a la molle ombría,
su l’erba che fioría
Endimion guardasti.

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Coro I.

Nel suo favor benigno
venite, o belle, a ’l folto.

Coro II.

Ride, curvo in ascolto,
il satirel rossigno.

Coro I.

Venite, o belle, a ’l clivo
cui l’acqua esile riga.
Me’ che vivuola o giga
canta ogni snello rivo.

Coro II.

Me’ che giga o vivuola
canta ogni rivo snello;
ma lesto il satirello
arma la sua tagliuola.

Coro I.

È vano il diniegare,
chè dentro arde gran sete.

Coro II.

Vano è tender la rete
a chi non vuol calare.

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Coro I.

Qual s’accende a l’aurora
una rosa non tocca,
tal l’aulorosa bocca
a ’l desir che l’infiora.

Coro II.

Qual de la gemma oscura
la verde foglia brilla,
tale da la pupilla
la speme non sicura.

Coro I.

O belle, udite, udite
voci che il vespro aduna.

Coro II.

I vaghi de la Luna
fan lai ne l’aria mite.

Coro I.

Udite gran bisbigli
lungh’essi que’ sentieri.

Coro II.

Le ninfe hanno misteri
grandi ne’ lor concigli.

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Coro I.

È dolce cosa udire.

Coro II.

Udire è dolce cosa.

I due Cori.

Scendiam la china ombrosa.
Giorno, tu non morire!

Ippolito, cantando:

O Giorno, a la tua morte
il ciel lacrime versa,
lento; e da l’ostro emersa
la Notte apre le porte.

Si piega ella su ’l Giorno
caduto in su’ ginocchi
però che il sangue a torno
da ’l fianco gli trabocchi.
Su le labbra e su li occhi
bacia il finito sire;
gode sentir salire
sotto il bacio la morte.

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Quando in su’ novi mai
ardeva la diurna
fiamma, ti sospirai
a lungo, o taciturna.
Bere la pace all’urna
tua vasta era il desío;
bere il tuo lene oblío,
sorella de la morte.

Anche a me, da’ supremi
cieli, vogli la faccia.
Li stanchi occhi mi premi;
tutto a ’l gran sen m’allaccia,
sì ch’io fra le tue braccia
oda il tuo tardo cuore,
oda il lontan fragore
de’ fiumi della morte.

Coro dei Giovini.

O belle, udite, udite
voci che il vespro aduna.

Coro delle Giovani.

I vaghi de la Luna
fan lai ne l’aria mite.

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Verdespina, cantando:

Io l’amo. Pe ’l ruscello
di sue rime il mio nome
passò fiammando, come
tra perle un carboncello.

Ei si chinò, per bere,
in su l’anima mia;
ei bevve a suo piacere
la vita che n’uscìa.
L’imagine giulìa
rise ne le dolci acque.
O Amor quanto mi piacque
il volto aperto e bello!

Nel fonte ride ancora,
o Amor, l’imagin bruna.
Passa il vespro e l’aurora,
passa il sole e la luna,
seren passa e fortuna,
senza l’acque mutare.
Il volto mai scompare;
ride sempre novello.

Salabaetto, cantando:

Dà faville, o mia Rima,
poi ch’ella ama l’amante!

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Benedici l’istante
Quand’io la vidi prima!

Era il giugno. Mi parve
che un baleno io vedessi.
Ridendo ella comparve.
Io nel mio cor la elessi.
Maturava le messi
quel suo rider sereno
che correa quel baleno
a l’alte spiche in cima.

Coro dei Giovini.

O belle, udite, udite
voci che il vespro aduna.

Coro delle Giovani.

I vaghi de la Luna
fan lai ne l’aria mite.

Altea, cantando:

Io l’amo. Agili e fieri
e liberi, i suoi canti
balzaronmi d’innanti
qual torma di levrieri.

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Pe’ tuoi di foco, o Amore,
segreti laberinti
il mio trionfatore
portò miei spirti avvinti.
Un serto di giacinti
son que’ suoi ricci neri.

Quando gli fan carezza
l’aure a ’l vivace serto,
scopresi la bianchezza
de ’l collo bianco ed erto.
Ben tu l’avresti certo,
Giove, fra’ tuoi coppieri.

O Giove, da le cene
tue pingui egli discese.
Piacquergli le serene
valli del mio paese.
Io languiva; ei mi tese
la coppa de’ piaceri.

Vannozzo, cantando:

Sgorga da labbro umano
Questa voce, in su ’l mondo?
M’inebria il cuor profondo,
come un vin cipriano.

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Ben tale ebrezza, o Amore,
vinsemi; e la divina
Altea da le tre Gore
fu del mio cor reina.
Così la Leoncina.
Tu ’l sai, Poliziano!

Cantava mollemente;
recava in man narcissi.
Il grande occhio languente
come luna in eclissi,
di tra’ capei prolissi
quanto era dolce e strano!

Bevean l’onda inchinati
i lauri a ’l suo passaggio.
— Rendete e’ cuor furati —
ella cantava a Maggio.
E il gonfalon selvaggio
fiorìa ne la sua mano.

Coro dei Giovini.

Udite, udite, o belle.
Rendete e’ cuor furati.

Coro delle Giovani.

Si son li amanti armati
per prender le donzelle.

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La Diambra, cantando:

O amanti, ancora i lai?
L’amore è un vil tiranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Sopra un albero adorno
splende un frutto e non muta.
Uomini e donne a torno
aspettan la caduta;
guatan con brama acuta
poi che il velen non sanno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Bei mostri a mezzo il mare
tesson vocali ambagi.
Scorgonsi fiammeggiare
ne ’l profondo i palagi.
Ma traggono i malvagi
canti ad oscuro danno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi le man leggere
levan alto la coppa;
a l’agili chimere
godon blandir la groppa.

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Ahi, per l’angoscia troppa
doman si torceranno!
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi li occhi un giocondo
abbagliamento assale;
ei veggon tutto il mondo
in luce trionfale.
Doman, arsi da ’l sale
de’ pianti, ombra vedranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Oggi cantan le bocche
vicine — Io l’amo, io l’amo — ,
quali rose non tocche
in su l’istesso ramo.
Doman, altro richiamo!
Gemiti leveranno.
Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.

Coro dei Giovini.

Piacciasi la Diambra
di sue torbide rime.
La Luna è in su le cime,
pallida come l’ambra.

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Coro delle Giovani.

Acerba è la Diambra,
però che senza tregua
Ippolito la segua
in van, come Ombrone Ambra.

Coro I.

O Ippolito, per lei
April non ha turcasso.

Coro II.

Ombron piange su ’l sasso,
ne’ canti medicéi.

Coro I.

Ecco le stelle prime.

Coro II.

Le vedi tu, Diambra?

I due Cori.

Pallida come l’ambra,
la Luna è in su le cime.

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Ippolito, cantando:

O Amor, vile tiranno,
tu non sei sazio mai!
Morte, se chiamerai,
con gioja i servi udranno.

Vider già ne’ dolenti
sogni tua signoria,
videro i fiumi lenti
ove sotto l’ombria
taciti, in compagnia,
al fin discenderanno.

Quivi stagna tra molto
erba l’acqua del Lete.
Chi ne beve una volta,
poi non avrà più sete.
Alti, ne la quiete,
i papaveri stanno.

La cicuta e il solatro
e il giusquïamo bianco
metton ne l’ombra un atro
fiore, un fior tardo e stanco.
Quivi i servi, in su ’l fianco
piagato, giaceranno.

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Coro dei Giovini.

Altri boschi, altri fiumi,
altri fiori, altri canti!

Coro delle Giovani.

Nuotan gli spirti amanti
ne fiumi de’ profumi.

Coro I.

O belle, o belle, è l’ora!

Coro II.

Gittò il paone un grido!

I due Cori.

Scendiamo alfin su ’l lido.
Meglio è vespro che aurora.

Le stelle ad una ad una
ridon pe ’l ciel profonde;
e a’ palpiti risponde
il seno de la Luna.

Coro I., movendo:

Luna, qual dolce affanno
metti a ’l cuor de’ rosai?

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Una voce., di lontano:

Morte, se chiamerai,
con gioia i servi udranno.

Coro I., movendo:

Udiam colloqui gai
che l’acque e l’aure fanno.

Una voce., di lontano:

Fuggite il triste inganno.
Non amate già mai.


TEΛΟΣ